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Anno IV, n. 37, settembre 2010
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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno IV, n. 37, settembre 2010

Zoom immagine Sangue e petrolio
nell’Iran inquieto
del dopoguerra

di Guglielmo Colombero
Gli antefatti della Rivoluzione in Iran
dagli anni ’50 in poi, da Rubbettino


«Questo libro è, in un certo senso, la storia di una nobile sconfitta personale, ma anche la storia di una sconfitta collettiva. Ed è qui che emerge l’indiscutibile nesso fra il 1953 e il 1979, fra fallimento della modernizzazione di Mossadeq e la violenta imposizione della modernizzazione sulla base della ideologia della rivoluzione  islamista», scrive l’ambasciatore Roberto Toscano nella prefazione al saggio Mossadeq. L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della Rivoluzione islamica (Rubbettino, 2009, collana Studi internazionali, diretta da Luigi Vittorio Ferraris, Stefano Bianchini e AntonGiulio de’ Robertis, pp. 290, € 16,00) di Stefano Beltrame, diplomatico di carriera attualmente Capo dell’Ufficio Economico e Scientifico dell’Ambasciata italiana a Washington, autore di diverse  monografie sulla storia dei paesi del Medio Oriente (Storia del Kuwait. Gli Arabi, il Petrolio e l’Occidente, Cedam, 1999; La Prima Guerra del Golfo. Perché non fu presa Baghdad? Dalla cronaca all’analisi di un conflitto ancora aperto, Adn Kronos Libri, 2003).

 

La Moschea, il Bazar e la Cia

Nel 2000 – vale a dire 47 anni dopo gli eventi in questione – il “New York Times” pubblicava un documento riservato della Cia, siglato da Donald M. Wilber. In esso testualmente si afferma (la traduzione è mia, N.d.A.): «Alla fine del 1952, appariva chiaro che il governo Mossadeq in Iran era incapace di raggiungere un accordo sul petrolio con i paesi occidentali interessati; si stava determinando uno stadio pericolosamente avanzato di finanziamento illegale del deficit; si stava stravolgendo la costituzione iraniana prolungando il mandato del premier Mohammed Mossadeq; il che era principalmente motivato dalle ambizioni personali di Mossadeq; il governo ha attuato politiche irresponsabili basate sull’emotività; ha pericolosamente indebolito la monarchia e l’esercito; e ha strettamente collaborato con il Tudeh, il Partito Comunista iraniano. Considerati tali fattori, si è stimato che l’Iran corra il pericolo reale di finire inglobato nella Cortina di Ferro; qualora accadesse ciò, sarebbe una vittoria per i Sovietici nella Guerra Fredda e una grave sconfitta per l’Occidente nel Medio Oriente. Nessun rimedio, al di fuori di un piano d’azione “coperto”, appare praticabile per migliorare lo stato attuale degli affari. La finalità del progetto Tpajax è provocare la caduta del governo di Mossadeq; per ristabilire il prestigio e il potere dello Scià; e rimpiazzare il governo di Mossadeq con un altro esecutivo che realizzi politiche costruttive. In particolare, lo scopo è insediare al potere un governo in grado di raggiungere un equo accordo sul petrolio». Inequivocabile, quindi, che il rovesciamento di Mossadeq, avvenuto il 20 agosto 1953, sia da attribuire a un intervento esterno da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Ma partiamo dagli antefatti: nel 1906 lo scià di Persia concede la Carta costituzionale e viene eletto il primo Parlamento (il Majlis). Quattro anni dopo, inizia lo sfruttamento sistematico dei giacimenti petroliferi iraniani da parte della Anglo Persian Oil Company (la futura British Petroleum, adesso tristemente famosa per il disastro ecologico che ha provocato nel Golfo del Messico). Nel 1912 viene inaugurata la più grande raffineria del mondo, quella di Abadan sullo Shatt el Arab. Nel 1919, al termine del primo conflitto mondiale, il trattato anglo-iraniano di Teheran sancisce un vero e proprio protettorato inglese sull’Iran. Due anni dopo, un ufficiale cosacco, Reza Khan, marcia sulla capitale e diventa una specie di Lord Protettore della debolissima dinastia Qajar, firmando un trattato di amicizia con la Russia sovietica. Sarà proprio il governo controllato da Reza a nominare ministro delle Finanze un ventinovenne aristocratico e cosmopolita (ha studiato in Francia e in Svizzera), Mohammed Mossadeq: inizia così la sua carriera politica. Nella primavera del 1924 Reza Khan, divenuto Primo ministro, decide di abbattere la monarchia (ispirandosi alla Turchia di Ataturk), ma l’opposizione del clero sciita lo costringe a scendere a compromessi. Non ci sarà il passaggio alla Repubblica, ma un semplice mutamento dinastico: il 26 aprile 1926 Reza Khan assume il titolo di scià Reza Pahlavi, e Mossadeq è uno dei deputati che vota contro, pagando la sua scelta con il carcere. Nell’estate del 1941, però, lo scià viene deposto da un intervento militare congiunto di inglesi e sovietici, allarmati dalle sue simpatie per la Germania. Sale al trono suo figlio, il ventiduenne Mohammed Reza. Nel novembre 1943 si svolge a Teheran la prima conferenza interalleata, con la partecipazione di Churchill, Stalin e Roosevelt.

 

Un demagogo con atteggiamenti da tiranno

Nel 1944 un’amnistia generale consente il ritorno in patria di Mossadeq e la sua rielezione parlamentare. Nel 1950 fonda il Fronte Popolare, coalizione di partiti nazionalisti che propugna l’esproprio delle compagnie petrolifere straniere. Beltrame sottolinea che la stampa britannica lo dipinge come «una sorta di apprendista stregone populista, che aveva portato il suo paese sul baratro della guerra civile e del comunismo». Il 28 aprile 1951 Mossadeq è nominato Primo ministro: lo Scià deve ingoiare il rospo, sia pure obtorto collo. La nazionalizzazione dell’industria petrolifera è cosa fatta un mese dopo, ne diviene direttore un quarataquattrenne ingegnere, Mehdi Bazargan (futuro primo ministro del regime khomeinista nel 1979). Il governo conservatore britannico replica con l’embargo delle esportazioni e il blocco navale di Abadan: l’Iran è quasi ridotto alla fame. Mossadeq inizia a comportarsi da dittatore, sospende lo scrutinio elettorale del 1952, quando i seggi assegnati sono solo 80 su 136, in modo da non subire un vero e proprio tracollo dei consensi. Racconta Beltrame che «nell’ottobre 1952, con la chiusura dell’Ambasciata inglese e l’abrogazione del Senato, sferra dunque un colpo mortale al partito “filobritannico” e allo Scià. In apparenza, la sua posizione è ormai inattaccabile: ha il sostegno del popolo, può legiferare direttamente per decreto, ha il controllo delle Forze Armate e i suoi nemici di sempre sembrerebbero in rotta. In realtà, la Persia vive ormai in uno stato di costante emergenza politica». Il culmine della crisi è raggiunto con il referendum del 1953, che addirittura decreta lo scioglimento autoritativo del Parlamento. Mossadeq è diventato una specie di Peròn mediorientale che sfrutta il proprio carisma per instaurare un vero e proprio culto della personalità. A questo punto la Cia organizza l’operazione Ajax: manda a Teheran il generale Norman Schwarzkopf Sr. (padre dell’omonimo comandante dell’operazione Desert Storm del 1991) con l’incarico di tessere le fila del complotto contro Mossadeq. Il primo tentativo di colpo di stato, la notte di Ferragosto del 1953, fallisce a causa del dilettantismo dei cospiratori. Lo Scià si rifugia all’estero, il paese cade in preda a disordini sempre più violenti: «Il 19 agosto», racconta Beltrame, «infatti, mentre i sostenitori di Mossadeq si astengono disciplinatamente dallo scendere in piazza, parte dal Bazar una nuova manifestazione contro il Primo ministro e in favore dello Scià. La manifestazione è guidata dai folkloristici forzuti dello Zurkhané, la tradizionale arte marziale iraniana a metà fra il culturismo e la ginnastica». Il giorno dopo il generale Zahedi, ispiratore del complotto anti-Mossadeq, compare a Teheran sulla torretta di un carroarmato. I golpisti hanno vinto, lo Scià rientra in patria fra scene mai viste di tripudio popolare. Processato per alto tradimento, Mossadeq sarà condannato a una mite pena detentiva e poi esiliato nella propria residenza di campagna, dove morirà ottantacinquenne nel 1967. I tribunali dello Scià emetteranno un centinaio di condanne a morte contro i suoi seguaci, uno dei suoi ministri sarà ammazzato di botte in carcere.

 

L’ombra di Mossadeq sulla Rivoluzione islamica del 1979

Secondo Beltrame, in Iran «nel 1950-53 lo scontro fra modernizzazione e conservazione si giocò infatti su più livelli. La definizione dei gruppi e delle forze in campo risulta difficile e complessa, ma essenziale. Grosso modo fu una partita a quattro: Mossadeq e l’alleanza che lo sosteneva: il Fronte Nazionale; il clero sciita militante guidato dall’Ayatollah Kashani; il partito dello Scià e della conservazione (in parte filo-britannico); il Tudeh, il partito comunista iraniano di ispirazione sovietica formalmente fuorilegge». E la sua conclusione è che «la comparazione dei fatti del ’53 con quelli del ’79 appare oggi, per alcuni versi, illuminante. Nella nostra coscienza collettiva, la Rivoluzione del 1979 si rappresenta come un susseguirsi di manifestazioni di piazza con folle in delirio e scontri violenti. Episodi convulsi e caotici in cui nessuno, neppure lo stesso Imam Khomeini che pure ne era la guida indiscussa, sembrava in grado di determinare il corso degli eventi. Al fronte del caos che regnava a Teheran, a Washington l’Amministrazione Carter era percepita come debole e impotente. Incapace di capire cosa stava succedendo e di tirarne le conseguenze». Un abbaglio simmetrico a quello di certa sinistra europea (come quella francese e italiana) che scambiò il futuro teocrate Khomeini per un apostolo della democrazia. Risalire alle radici di un fenomeno di portata epocale come la Rivoluzione iraniana del 1979 implica uno sforzo non comune per superare pregiudizi e preconcetti spesso frutto della disinformazione giornalistica e televisiva: la disamina di Beltrame, rigorosa e dettagliata nell’esposizione, non manca mai di sorprendere con alcune intuizioni singolarmente illuminanti. «Se della dimensione Est-Ovest delle vicende degli anni ’50», scrive Beltrame, «si può ormai comunque trattare in maniera pacata, una lettura del colpo di Stato in chiave Occidente-Islam comporta invece ancora oggi il rischio di reiterare delle preconcette tesi manichee. Dal mito della Guerra Fredda, l’Operazione Ajax rischia cioè di diventare “l’incubo dello scontro di civiltà”, l’evento simbolo posto a origine e giustificazione del radicalismo religioso e dell’antiamericanismo. Si rischia quindi di passare da una lettura monodimensionale (Est-Ovest) a una nuova lettura ugualmente monodimensionale (Occidente-Islam)».

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 37, settembre 2010)

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