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ANNO I, n° 0 - Agosto 2007
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Biografie (a cura di Luisa Grieco e Mariangela Rotili) . ANNO I, n° 0 - Agosto 2007

Zoom immagine Francesco Ruffini,
giurista e storico.
Meno note le idee
politiche. Liberali

di Alessandra Morelli
La Rubbettino riunisce in una raccolta
di saggi le riflessioni del giureconsulto


Francesco Ruffini è stato indubbiamente una personalità eminente nella storia italiana di fine Ottocento e inizio Novecento: la sua figura è soprattutto legata al Diritto ecclesiastico, di cui è considerato il padre fondatore, e alla storia, disciplina nella quale spiccano i suoi studi sul Conte di Cavour, sullo sviluppo delle libertà religiose in Europa con particolare attenzione ai riformatori  italiani (più nello specifico i sociniani). Per quanto concerne il Ruffini politico, meno noto rispetto al giurista e allo storico, si è soliti soffermarsi sulla sua attività antifascista; eppure, non bisogna dimenticare, ebbe una certa importanza anche nella vita politica dell’Italia liberale. A tale scopo, Andrea Frangioni – studioso presso la Scuola superiore “Sant’Anna” di Pisa – ha raccolto nel volume Guerra e dopoguerra. Ordine internazionale e politica della nazionalità (Rubbettino, pp. 270, € 8,00) una serie di interventi che il grande giurista tenne tra il 1917 e il 1919, periodo in cui ricoprì la carica di ministro della Pubblica istruzione nel governo Boselli e di presidente del Comitato di preparazione di Torino (nato con lo scopo di divulgare la storia del Risorgimento italiano attraverso pubblicazioni di documenti, carteggi inediti ecc.).

Il libro è composto da cinque saggi incentrati sostanzialmente sul principio della nazionalità.

 

Il principio di nazionalità in Mazzini e Mancini

Nel primo saggio, Il principio di nazionalità in Mazzini ed in Pasquale Stanislao Mancini (1917), Ruffini afferma che le grandi potenze posero al centro della prima guerra mondiale il principio di nazionalità e, partendo da ciò, avvicina la figura di Giuseppe Mazzini a quella di Stanislao Mancini, i più importanti teorizzatori italiani del suddetto principio.

Il concetto di nazionalità può essere considerato in base a due aspetti: il primo, egoistico, vede il sentimento nazionale limitato all’interno di una sola patria, la quale, tramite la forza, dovrebbe primeggiare sulle altre; in base al secondo, altruistico, tutte le nazioni dovrebbero essere libere ed indipendenti, e proprio la liberazione delle nazionalità dovrebbe essere il fulcro «dei rapporti internazionali e della vita stessa del genere umano». Ed è proprio a quest’ultimo aspetto che sono legate le concezioni di Mazzini e Mancini, i quali, entrambi, nella loro definizione di nazione, consideravano la razza, la lingua ed il territorio come indizi e fattori naturali della nazionalità, ma è nella coscienza della nazione che vedono l’elemento fondamentale a ché questa si formi.

Più nello specifico, il giurista napoletano fece di tale principio il fondamento del diritto internazionale poiché – egli afferma – sono le nazioni, e non gli stati, ad essere soggetti del diritto internazionale moderno. Invece, il pensiero di Mazzini era tutto volto alla “missione” di lottare per il fine umanitario di difendere e diffondere lo spirito di nazionalità che è comune a tutti gli uomini indipendentemente dalla loro lingua o fede in quanto tali differenze, nell’idea comune del raggiungimento della libertà, non contano.

Nel secondo saggio, dal titolo Mazzini (1918), oltre ad essere ripresi gli argomenti già trattati nel primo, si connettono le guerre per le libertà religiose a quelle per l’indipendenza nazionale; difatti, la nazionalità concepita come un fatto morale e spirituale è analoga ad una religione e, sebbene racchiusa nella sua coscienza collettiva, raggiunge, allo stesso tempo, l’individuo. Inoltre, sulla scia di quanto detto dall’americano George D. Herron, la figura di Mazzini – in quanto convinto assertore del principio di nazionalità e quindi della libertà e dei diritti delle nazioni – viene accostata per grandezza di spirito a quella di Milton e Rousseau; il primo fu teorico della libertà di coscienza, il secondo trasferì la libertà di quest’ultima e quella di religione nella sfera della vita civile e politica.

Il principio di nazionalità e il Sionismo è tratto dalla prolusione che Ruffini pronunciò l’8 dicembre 1918 in occasione dell’assemblea organizzata dall’Associazione “Pro Israele” durante la quale affermò che, grazie alla vittoria dell’Intesa, si poteva realizzare anche il principio di nazionalità ebraico.

In un primo momento, l’intervento si sofferma sull’antisemitismo etnico diffuso in Germania, che trova origine in una concezione di nazionalità naturalistica ed egoistica, quindi ostile a quella altruistica e spirituale tipica del pensiero mazziniano, in base al quale la libertà di una nazione deve essere estesa a tutte le altre ancora oppresse e prive di una propria coscienza.

Ruffini si richiama poi a Mosès Hess, precursore di Theodor Herzl – padre fondatore del sionismo politico – secondo il quale, affinché il giudaesimo possa, come tutte le altre nazioni, portare a compimento la propria missione, deve mantenere ed integrare la propria individualità nazionale.

 

Il presidente Wilson e le riforme costituzionali

Il penultimo saggio, Il presidente Wilson, è dato da una serie di articoli pubblicati sul Corriere della sera. Ancora una volta, è centrale il sentimento di nazionalità cui tutte le potenze dell’Intesa fecero appello nel primo conflitto mondiale; proprio nel contesto bellico e post-bellico spicca la figura del presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, e la sua idea di ricostruzione di un ordine internazionale basato sulla pace e sull’autodeterminazione dei popoli. Pensiero cui l’esponente liberale aderisce con entusiasmo, vedendo in Wilson l’erede di Mazzini che cerca di instaurare relazioni internazionali attraverso la ricerca di un’etica nei rapporti tra gli stati. L’accento è quindi posto sulla democratizzazione interna e sull’affermazione di regimi costituzional-rappresentativi come base della collaborazione internazionale che, assumendo la configurazione di una comunità di nazioni libere, si sarebbe potuta trasformare in un vero stato federale.

Guerra e riforme costituzionali, ultima parte del volume, è la prolusione che il giurista lesse nel 1919 all’Università di Torino. In essa si ritrova il clima del Primo dopoguerra che, in seno al trionfo dell’Intesa e alla ricostruzione di un nuovo assetto geopolitico internazionale, era intriso della speranza di una rinascita e di un  consolidamento dello stato liberale italiano tramite una maggiore presenza delle masse nelle istituzioni e, più in generale, nella vita politica. Ruffini fa leva sulla «necessità di riforme costituzionali», che doveva concretamente tradursi in un temperamento della sovranità popolare, nel superamento del sistema maggioritario (ormai incapace di recepire alcune sfumature della società italiana recante con sé il pericolo di una tirannia della maggioranza sulle minoranze) a favore di quello proporzionale che, anche se poteva tutelare meglio le élite, portava con sé il rischio di giungere ad una supremazia esclusiva delle burocrazie di partito; rischio a cui – secondo il giurista – si poteva ovviare affiancando alla rappresentanza politica una rappresentanza di interessi.

In sostanza, la speranza di Ruffini era quella di educare le masse in un quadro politico e storico che si avviava ad un rinnovamento dell’ordine politico, non solo all’interno delle nazioni considerate singolarmente ma, soprattutto, come parti di una comunità di nazioni indipendenti che si potesse abbracciare a valori tipici della civiltà ottocentesca liberale, quali la libertà individuale, il principio di nazionalità e la collaborazione internazionale.

 

Alessandra Morelli

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 1, agosto 2007)

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