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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè)

Zoom immagine Il predominio maschile
e l’immagine femminile.
Violenza psicologica
e fisica contro le donne

di Guglielmo Colombero
Franco Angeli propone uno studio sulle radici sociali e culturali
di un fenomeno che perdura in una civiltà apparentemente evoluta


«L’ipotesi che ispira tutto questo libro», scrive la curatrice del volume Consuelo Corradi (autrice di un classico in materia di studi sulla violenza contro le donne come Il nemico intimo, Meltemi, 2005, nonché docente di Sociologia generale presso l’Università “Lumsa” di Roma e vicepresidente dell’European sociological association), «è che le spiegazioni tradizionali della violenza contro le donne (il patriarcato e il genere) sono state fruttuose, ma oggi da sole non mordono la realtà, cioè non illustrano in modo univoco i processi di scomposizione e ricostruzione dell’identità di donne e uomini, i ruoli sociali che esse ed essi occupano, i progetti di vita, le aspirazioni e i differenziali di potere. Per capire la violenza, e quindi per contrastarla in maniera efficace, dobbiamo collegarla a questi temi». Non a caso proprio dalla Corradi è partita l’iniziativa di dare vita al gruppo interdisciplinare di ricerca Violenza e modernità. Il saggio I modelli sociali della violenza contro le donne. Rileggere la violenza nella modernità (Franco Angeli, a cura di Consuelo Corradi, 2008, pp. 308, € 23,00) fa parte della collana Laboratorio sociologico, nata a Bologna nel 1992, che si ispira a due principi fondamentali: la lotta contro le disuguaglianze sociali e l’affermazione dell’idea universale di tolleranza. È diretta dal professor Cipolla, storico e sociologo di fama internazionale che insegna da decenni Sociologia generale all’Ateneo di Bologna e ha scritto opere come Darwin e Dunant. Dalla vittoria del più forte alla sopravvivenza del più debole? (Franco Angeli, 2009) e Belfiore. I comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto e il loro processo del 1852-1853 (Franco Angeli, 2006).

L’Introduzione ci fornisce uno schema sintetico delle teorie e dei modelli della violenza contro le donne: dalla spiegazione clinica (certi comportamenti femminili scatenano l’aggressività del maschio) a quella educativa (la donna condizionata sin da bambina a subire passivamente il predominio maschile), dalla teoria della vulnerabilità acquisita (nella mentalità femminile viene impressa un’immagine debole e sottomessa di sé) a quella del controllo/scambio sociale (unico argine alla violenza è una legislazione sempre più severa contro chi la pratica), dalla teoria delle risorse personali (la violenza come ultimo e disperato colpo di coda dell’ormai declinante egemonia patriarcale nella società) a quella del genere-patriarcato (la violenza come strumento di potere) e del genere-potere (la violenza che difende e preserva lo status quo). Un prisma assai sfaccettato, quindi, e ricchissimo di spunti problematici e complessi. «Assistiamo oggi a una violenza che si confonde con il potere in maniera indistinguibile», sostiene la Corradi, «e assume forme talmente estreme da non essere più uno strumento ma una forma (per quanto raccapricciante) di potere, cioè un fine in sé. Il tratto qualificante della violenza modernista consiste nel non essere uno strumento ma una forza sociale che si autoalimenta, struttura i rapporti fra vittime e aggressori e ne modella i corpi, e non di rado (né casualmente) si trasforma in crudeltà».

 

I freddi dati statistici e la viva «pelle culturale»

La prima parte del volume, intitolata Violenza, potere e trasformazioni dell’intimità, inizia con L’analisi del fenomeno della violenza attraverso i dati dell’indagine Istat sulla sicurezza delle donne, opera di un team di ricercatrici (Roberta Barletta, Isabella Corazziari, Alessandra Federici, Maria Giuseppina Muratore e Giovanna Tagliacozzo), in cui sono esposti i risultati (agghiaccianti) di un’indagine condotta fra il 2002 e il 2004. Emerge che quasi sette milioni di donne italiane di età compresa fra i 16 e i 70 anni hanno subito nel corso della loro esistenza una violenza fisica o sessuale, che tre quarti degli stupri sono perpetrati dal partner della donna e, specularmente, tre quarti delle molestie sono invece da attribuire a estranei. Nove volte su dieci, la violenza è reiterata. E il dato più sconvolgente di tutti è questo: nove volte su dieci la violenza fisica o sessuale non viene denunciata…

In Corpi di genere, corpi relazionali. Retoriche del pericolo, violenza di genere e spazi dell’arte, Maria Antonietta Trasforini, sociologa ferrarese esperta in materia di «costruzione sociale dei corpi» (ha pubblicato, tra gli altri Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità, il Mulino, 2007), traccia una «genealogia del concetto di accessibilità del corpo delle donne». L’arte moderna, la moda, lo spettacolo, la pubblicità, i mass media, infatti, filtrano e manipolano quotidianamente la «definizione sociale di corpo», e i confini stessi della sua esistenza fisica sono ridefiniti di continuo, come un magma in perenne mutazione. Nel 1989 l’artista americana Barbara Kruger aveva scatenato un autentico shock culturale, affiggendo sui muri di New York un volto di donna diviso in due metà (una bianca e una nera) con la scritta a caratteri cubitali: «Your body is a battleground», il vostro corpo è un campo di battaglia. «La costruzione del corpo femminile come insicuro, accessibile, vulnerabile», osserva la Trasforini, «è in realtà il risultato di un processo di stratificazione di significati […] per la retorica dello spazio moderno le donne sono in pericolo fuori, per la retorica medica del corpo a rischio esse portano il pericolo dentro». L’internamento claustrofobico della donna tra le pareti domestiche ha prodotto degenerazioni socialmente spaventose: isteria, agorafobia, e, la più letale di tutte, l’anoressia, dove il corpo «si dissolve, perde consistenza e confini, va verso la cancellazione di sé, sino a occupare il pochissimo spazio della morte». In definitiva, conclude lucidamente la Trasforini, «Se lo spazio personale è quella sorta di pelle culturale dai confini invisibili da cui gli individui sono avvolti, che cambia nelle varie culture e dunque in rapporto ai generi, si può definire la violenza di genere nella nostra cultura come l’autorizzazione sociale del genere maschile ad accedere senza negoziazione nel territorio della corporalità personale femminile».

 

Inferno domestico, femminicidio e guerra tra i sessi

In Abusi e maltrattamenti contro le donne: un indice complesso per la stima del rischio in ambito domestico, di Domenica Fioredistella Iezzi, docente di Statistica sociale alla Università “Tor Vergata” di Roma, sono analizzati i fattori che incidono sul rischio di violenza domestica: il meccanismo sociale che la determina s’incardina su codici morali e su tradizioni ampiamente condivise dalla popolazione maschile. Persino in paesi sviluppati come Australia, Canada, Israele, Sud Africa e Stati Uniti metà degli omicidi di donne avvengono per mano del marito o del fidanzato. Altrove, poi, la situazione è da incubo: in Guatemala, in quattro anni, sono state assassinate quasi duemila donne, in prevalenza nelle zone ad alta concentrazione di aziende multinazionali che esportano prodotti tropicali. In Italia, l’indagine recentemente condotta dall’Istat ha appurato che «la forza e la coercizione nei rapporti a due sono spesso una costante, che sotto alcune condizioni può degenerare».

Nel saggio Caratteristiche e fattori di rischio nel femminicidio, Fabio Piacenti, presidente dell’Eures ricerche economiche e docente di Statistica giudiziaria all’Università “La Sapienza di Roma”, analizza le dinamiche degli omicidi in cui le vittime sono donne, che alcuni autori catalogano come «femminicidio». In Italia, purtroppo, il femminicidio è un fenomeno quasi esclusivamente domestico: osserva Piacenti che, proprio per il suo ruolo centrale negli equilibri familiari, la donna «è considerata simbolicamente responsabile delle diverse situazioni di squilibrio, di disgregazione o di disagio familiare – siano esse legate a vere e proprie patologie psicofisiche, del comportamento o della relazione, oppure semplicemente derivanti da scelte di vita o dalla rottura di un legame affettivo – che colpiscono la famiglia, attraendo su di sé la carica di frustrazione, di aggressività e/o di violenza degli altri membri del nucleo».

In Guerra fra i sessi? Proviamo a giocare, la sociologa romana Simonetta Patané parte dal presupposto che, in una situazione normale, l’accostamento tra amore e violenza dovrebbe costituire un ossimoro, e invece tale non è. L’autrice è convinta che «l’attuale violenza maschile sia una forma estrema di reazione alla libertà femminile» ma che l’analisi del fenomeno contenga sfumature più complesse: «L’omicidio, in genere, è l’atto conclusivo di un movimento a spirale che, in un crescendo di violenza e di isolamento, chiude la donna nella storia della coppia che si tramuterà in una trappola mortale. Certo, né l’inganno – spesso tipico della seduzione – né l’isolamento – tipico del controllo – sono nuovi ma lo è, probabilmente, la descrizione, spesso non solo maschile, di questa dinamica come storia d’amore». Disorientato dal crepuscolo della civiltà patriarcale, l’uomo continua a nutrire un «grande, smisurato e disordinato bisogno d’amore»: se non lo ottiene, violenta, ferisce, addirittura uccide. La contraccezione, come acutamente teorizzato dal sociologo Anthony Giddens, ha messo il dito della donna sul grilletto della storia, le ha conferito un potere decisionale determinante riguardo alla continuità demografica del genere umano (un tempo sotto il ferreo controllo del patriarcato), le ha permesso di conquistare libertà sia sessuale che economica. Una volta avviato il processo di parificazione tra i sessi, che può evolvere verso una propagazione della democrazia all’interno della sfera familiare, la condizione maschile rischia, paradossalmente, di trasformarsi in uno svantaggio. Secondo Giddens, quindi, «la violenza è la reazione distruttiva al declino della complicità femminile […] la radice della rabbia maschile nei confronti delle donne». In alternativa a questo conflitto, un altro illustre sociologo, Georg Simmel, rivaluta l’idea del flirt: «Giocare non con le emozioni ma al gioco delle emozioni può essere la via di una rinnovata intesa perché, come ogni gioco, ha bisogno di complicità e questa può prendere il posto dei rancori incrociati».

 

La pubblicità come specchio deformante della donna

In La violenza contro le donne: rappresentazioni e pubblicità televisiva, di Emiliana Mangone, sociologa di Salerno, si affronta un tema di particolare interesse, e cioè l’immagine della donna nella pubblicità. Partendo dal presupposto che «le azioni dell’uomo nei confronti della donna sono certamente guidate dall’idea che egli si è costruito con la complicità dei mezzi di comunicazione di massa», la Mangone osserva che «l’eccessiva commistione fra vita vera e finzione dei media fa sì che il Sé e la realtà siano continuamente riorganizzati: per gli individui, questa situazione si traduce in modelli di riferimento e di comportamento sempre più labili e rapidi nelle loro trasformazioni». Significativi gli esempi di una pubblicità che lavora soprattutto sul versante emotivo e sentimentale, alimentando desideri, nostalgie e paure. La torera vendicatrice del Martini Bianco che con uno spadino evira il toro di ghiaccio e fa cadere l’attributo reciso nel bicchiere di George Clooney esprime uno spirito combattivo analogo a quello dei duellanti a colpi di cellulare del Motorola Razr. Mentre la Deox non si discosta da un modello paternalista, mostrando una remissiva platea femminile che approva all’unisono il detersivo-feticcio impugnato (una simbologia fallica?) dal solitario ma carismatico speaker maschio. Quanto al profumo Djor j’adore, la modella Charlize Theron si denuda pezzo per pezzo percorrendo le infinte stanze di un lussuoso labirinto dei sensi, offrendosi come la più invitante delle prede sessuali. Specchio deformante di una donna che non esiste, o meglio esiste solo nell’inconscio collettivo maschile, la pubblicità «non produce solo simbolismo che contribuisce alla auto-costruzione delle identità, ma fornisce anche modelli di identificazione oggettivi e relazionali»: operazione culturalmente e socialmente assai rischiosa, in quanto laboratorio di illusioni maschili spesso disattese e generatrici di rabbiosa frustrazione.

 

Mutazioni sociali, tutela giuridica e schiavitù sessuale

Daniela Danna, sociologa milanese, autrice di Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale (Eleuthera, 2007), basandosi sulle statistiche giuridiche in La violenza contro le donne: un fenomeno in aumento? Prospettive internazionali diagnostica «un effetto di aumento della violenza contro le donne dato dai recenti mutamenti socio-economici che spingono verso una divaricazione delle posizioni di classe nella società occidentale», il che rappresenta un inquietante legame di causa-effetto tra crisi del consumismo e stabilità nel rapporto tra uomo e donna (un decremento del reddito familiare può risultare destabilizzante per la coppia).

Cinzia Criaco, esperta di scienze giuridiche all’Università “Tor Vergata” di Roma in Donne, violenza e diritto: la ragione giuridica come rimedio contro la violenza di genere sottolinea come, nel nostro ordinamento, la parità giuridica sia una conquista assai recente (la riforma del Diritto di famiglia risale al 1975 e la legge contro le discriminazioni in ambito lavorativo al 1977), e si interroga su quale sia il “farmaco” contro la violenza in genere che il legislatore può e deve prescrivere: «l’inclusione dei diritti della donna tra i diritti umani costituisce di per sé un rimedio alla violenza del genere» è la sua conclusione.

L’argomento di La tratta degli esseri umani a scopo sessuale. Temi e problemi di Simona Andrini, docente di Sociologia presso l’Università “Roma Tre”, è la riduzione in schiavitù delle donne a scopo di sfruttamento sessuale: i primi provvedimenti internazionali contro la Tratta delle bianche risalgono al 1904. In seguito, alla prostituzione coercitiva si sono aggiunte altre due terribili piaghe sociali: il turismo sessuale e la pedofilia, attorno a cui ruotano ingenti interessi economici e commerciali (basti pensare alla ripugnante complicità di non poche agenzie di viaggi scoperchiata da recenti indagini giudiziarie). Per la Andrini debellare questo trend drammaticamente crescente significa soprattutto «reimparare a indignarsi», altrimenti certe pratiche malsane rischiano di essere assimilate dal costume e quindi moralmente accettate. Il che sarebbe francamente mostruoso.

 

Le scappatoie dall’inferno dell’amore negato

Nella seconda parte del volume, titolata Esperienze di ricerca e servizi di aiuto, uno staff di esperti composto da Giuseppina Cersosimo (esperta in Sociologia della devianza all’Università “Cà Foscari di Venezia”), Patrizia Marra (sociologa salernitana) e Raffaele Rauty (docente di Storia del pensiero sociologico a Salerno) analizza in L’amore negato. Con-vivere con la violenza uno scenario decisamente allarmante: «La violenza è ovunque, investe la grande città e il piccolo centro, si consuma in posti isolati come in luoghi sicuri (la propria casa), negli atrii di una metropolitana come nei bagni di un cinema, di prima mattina come di sera. Essa, inoltre, è imprevedibile rispetto all’autore, ora sconosciuto, ora persona molto vicina alla vittima (padre, nonno, zio, cugino, partner, amico). Si tratta di violenze che si appropriano della fiducia della donna, restituendole paura e diffidenza verso gli altri». Una violenza talvolta accettata (in ossequio alla regola della totale sottomissione all’uomo, spesso inculcata sin dall’infanzia), oppure ritenuta insita nel vincolo coniugale. «È come se la donna venisse proiettata in una continuità deviante, attestata dal suo riproporre le sue posizioni di violata, mostrando una fragilità mentale e personale nella quale sembra racchiudersi il suo male», è la triste conclusione.

L’indagine prosegue in Degli amorosi sensi violenti, di Massimo Conte, segretario dell’Isers di Napoli: il deterioramento della qualità della vita, l’ossessiva percezione di un rischio incombente e la conseguente insicurezza esistenziale sono alcune delle conseguenze più devastanti della violenza che subisce la donna sia tra le pareti domestiche che all’esterno. Come sostiene il filosofo Massimo Cacciari, la millenaria auctoritas maschile è ormai agonizzante, ma rischia di creare un vuoto difficilmente colmabile, che spaventa sia l’uomo che la donna.

Sotto una diversa visuale, il problema si ripresenta in La prevaricazione fisica all’interno della coppia: analisi empirica di una tipologia di uomini violenti, di Federica Santangelo, sociologa trentina: quasi sempre i carnefici delle donne «vedono la violenza come normale e hanno atteggiamenti conservativi rispetto al ruolo dei sessi, esprimono inoltre pochissimo rimorso per le azioni violente che compiono». Siamo di fronte a un vuoto culturale che viene riempito da un’insulsa e quasi animalesca aggressività da cavernicoli: l’anormale non è chi pratica la violenza, è chi la rifiuta. Un totale ribaltamento dei valori: non può esserci rimorso senza consapevolezza dei propri comportamenti, e tale insensibilità scaturisce da quel baratro di ignoranza e arretratezza che talvolta fa parte delle tradizioni.

 

 

Un eccellente lavoro di equipe che infrange il silenzio

Altri aspetti rilevanti della violenza sulle donne sono trattati nei saggi successivi: Gestione violenta dei conflitti nella coppia: risultati di un’integrazione teorica, di Rose Marie Callà, criminologa di Trento, che evidenzia come spesso la donna viene punita perché osa risultare più colta e istruita del partner; L’esclusione dall’istruzione per le bambine dei Pss e Pvs: una violenza familiare, sociale e istituzionale, di Giulia Maria Cavalletto, sociologa torinese (che nota come su 100 milioni di bambini del tutto privi di scolarizzazione, 65 siano di sesso femminile); Prendere coscienza della violenza subita all’interno della coppia e nella prostituzione, di Flavio Scantimburgo, sociologo trentino dedito al volontariato nel gruppo Mares (il quale denuncia quanto in Italia la violenza in ambito domestico resti un fenomeno spesso nascosto e sottostimato dalla copertura e dalla minimizzazione ad opera della famiglia stessa). Nei saggi conclusivi sono illustrati alcuni efficaci strumenti di lotta contro la violenza sulle donne: Bologna; verso il superamento dei servizi unidirezionali di Silvia Lolli, sociologa bolognese (il progetto Daphne, finanziato dall’Unione europea, che indaga sul linguaggio maschile e sui suoi stereotipi spesso autoassolutori); L’esperienza romana: i Centri Antiviolenza gestiti dall’Associazione Differenza Donna Ong, di Luigia Barone, avvocatessa romana (che descrive l’attività dell’Associazione “Differenza Donna”); Il Centro antiviolenza Le Onde Onlus di Palermo di Mara Cortimiglia, operatrice sociale (in cui le operatrici aiutano le vittime a riscoprire una vitalità fino a quel momento mortificata). In definitiva, quest’opera corale, ricchissima di documentazioni statistiche, seria, rigorosa ed esaustiva nei suoi contenuti, non si limita a denunciare un fenomeno che, purtroppo, quotidianamente si ripresenta in sede mediatica: cerca di farci capire dove affondano le sue radici profonde, smantellando tanti sterili luoghi comuni sulla violenza contro le donne (non si tratta purtroppo del raptus di una minoranza di psicopatici esaltati, ma di una mentalità assai capillarmente diffusa anche tra uomini apparentemente equilibrati e normali: l’impiegato modello che inspiegabilmente stermina la famiglia non esiste solo nei romanzi neri…) e fornendo a chi intende addentrarsi realmente in questo buco nero tutti gli strumenti idonei a gettare un fascio di luce sulla «metà oscura» dell’universo maschile.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 33, maggio 2010)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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