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Anno IV, n. 33, maggio 2010
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Home Page (a cura di Agata Garofalo) . Anno IV, n. 33, maggio 2010

Zoom immagine La ricerca della felicità a Napoli:
una strana storia di fuoco e follie

di Giulia De Concilio
Il romanzo di Attilio Belli, edito Pironti, narra un viaggio ambientato
fra ex sessantottini e centri sociali. Ma anche terroristi e camorristi


Sarà a breve pubblicato dalla casa editrice partenopea Pironti il romanzo Fuoco ai Quartieri spagnoli, esordio in narrativa di Attilio Belli, docente ordinario di Urbanistica presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

È la storia di Comò, un solitario “canterano” napoletano che, emigrato nella Parigi degli anni Ottanta per sfuggire alla guerriglia e alle esecuzioni politiche, torna dopo venticinque anni nella sua città. Idealista, irrisoluto, inguaribile sognatore, Comò vive nell’ingenua illusione di poter dare un contributo concreto al mondo, di poter cambiare il destino dell’universo che, per lui, si riduce a quello fatiscente e degradato della sua città natale: Napoli. Convinto assertore dell’importanza e della necessità del Cambiamento (quello con la “c” maiuscola), spende tutta la propria esistenza ad architettare macchinosi piani che, pur tuttavia, non avrà mai il coraggio di attuare.

Tormentato dall’idea che «il fuoco sia lo strumento più importante del sacrificio», il solo in grado di distruggere e purificare al contempo, sceglierà di immolarsi nella tenue ed evanescente speranza di poter, in questo modo, rigenerare e risollevare le sorti della sua amata città: Napoli. Un ultimo, disperato tentativo di riscattare se stesso e il mondo circostante dalle barbarie che imperversano minacciose, schiacciando brutalmente i più deboli. Un sacrificio insignificante, dunque. Forse inutile. Ma l’unica strada che ormai gli resta.

 

Comò: “poeta maledetto

Fuggiasco, esule, idealista, vigliacco... Comò ha tutti i tratti del romantico “poeta maledetto”: emarginato da una società in cui non si rispecchia e di cui non condivide più i valori, conduce uno stile di vita asociale e autodistruttivo, morendo, anzi scegliendo di morire ancor prima che al suo estro venga attribuito il giusto valore.

E come l’albatros baudelairiano, anche Comò si sente imprigionato in una realtà che gli va stretta: lui, che ama volare e può volare solo a metri e metri da terra, ora si sente intrappolato nella grigia quotidianità, negli infiacchiti ideali o, peggio ancora, nella totale assenza di essi. Lui, che aveva militato in Lotta continua, che era stato esponente dei Nap (Nuclei armati proletari), che aveva creduto nel Sessantotto, lui che aveva combattuto a fianco ai più deboli, ora non crede più a nulla. Ormai, per Comò, non c’era più niente che meritasse un’impresa, degna di tal nome.

Demoralizzato e disilluso, Comò sceglie di evadere dalla realtà (altro atteggiamento indiscutibilmente romantico) rifugiandosi nei sogni e nella tenue speranza di attuarli. Un giorno. Forse.

È in questa prospettiva che si inserisce il suo progetto di costruire una “biblioteca-isola”: “biblioteca”, perché avrebbe sistemato tremila volumi in un’unica stanza; “isola” perché la stanza che avrebbe allestito come biblioteca, altro non era che una della camere del suo appartamento.

Lo scopo era quello di realizzare un ambiente delimitato esclusivamente da libri, disponendo gli scaffali in modo da mascherare le porte e così da creare l’effetto di una superficie interamente circoscritta da volumi: «Tremila libri per conoscere e l’infinità per immaginare», recita Comò. E non a caso “tremila”: questo numero, infatti, gli sembrava «proporzionato ai suoi desideri. Di una biblioteca sterminata non avrebbe saputo cosa farsene».

Dunque, una biblioteca privata, non accessibile al pubblico.

Ma l’ambizioso piano di Comò, non si fermava alla costruzione della “biblioteca-isola”. No. Il nap-parisien (come lo chiamavano con disprezzo i parigini) architettava un disegno più grande: dopo aver costruito la sua biblioteca, avrebbe scritto un libro sulla valenza sacrificale del fuoco, sottolineando come tale elemento sia intrinsecamente e indissolubilmente legato alla sua terra, dominata dal temibile “calice di fuoco”: il Vesuvio.

Da sempre Comò era stato affascinato dalla lettura: a Parigi aveva letto molto, cercando modelli originali per la stesura del suo libro e credendo di averli trovati nella vicenda (empia!) del turpe contadino normanno che nel 1835 sgozzò la propria famiglia per “liberare” il padre dalle persecuzioni della madre. Il fatto che il giovane contadino avesse immaginato il crimine addirittura prima di averlo compiuto, trasformandolo in un cruento e scioccante resoconto scritto della strage che si sarebbe accinto a commettere, gli indicò una traccia. Anche Comò, dunque, anelava allo stesso progetto: raccontare il suo folle piano di incendiare un monumento, simbolo di Napoli, prima ancora di metterlo in pratica. E, quel che è peggio, convinto che questo tragico atto avrebbe fatto di lui un eroe.

 

L’ossessione del fuoco

Come tutti gli “eroi maledetti”, anche Comò vive di ossessioni: prima fra tutte, il fuoco. Quel che più lo affascina è la potenza purificatrice e distruttiva, al contempo, insita in esso, consapevole che «Tra tutti i fenomeni, il fuoco è veramente il solo che possa ricevere così nettamente le due valorizzazioni contrarie: il bene e il male. Brilla in Paradiso. Brucia all’Inferno. È dolcezza e tortura. È un dio tutelare e terribile, buono e cattivo». Del fuoco, Comò esalta anche (e soprattutto!) la “mobilità”, poiché si tratta di un elemento legato all’azione, al cambiamento: per lui, infatti, «la vita era nel cambiamento lento, il fuoco nella trasformazione istantanea».

L’ossessione lo spinge a collezionare valanghe di libri, tutti rigorosamente legati alla mitologia del fuoco: è così che scopre la valenza civilizzatrice del fuoco, legata al mito di Prometeo, senza il quale non sarebbe esistito il progresso, né l’evoluzione della società. Ecco, dunque, la funzione positiva del fuoco. Eppure, ancora una volta, prepotentemente accompagnata da quella negativa dell’inganno e della distruzione che, nel mito, s’intravede attraverso il sacrilego gesto del titano che ruba il fuoco per donarlo agli uomini.

E come l’araba Fenice risorge dalle proprie ceneri, così pure si augura Comò scegliendo la via del sacrificio, preferendo annullare se stesso, bruciare vivo, porre fine alla sua triste esistenza, nella speranza che il suo tragico gesto possa offrire la destra a quel Cambiamento tanto agognato, ma che in fondo servirà solo a dare pace a un’anima tormentata.

 

Giulia De Concilio

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 33, maggio 2010)

Redazione:
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