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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Antropologia (a cura di Agata Garofalo)

Filosofia e antropologia,
valore e trascendenza,
nelle ultime riflessioni
di Ernesto De Martino

di Alessio Di Stefano
Idealismo ed esistenzialismo: la difficile fusione tra categorie crociane
e crisi della presenza in un fecondo e originale contributo italiano


Partita da una posizione rigorosamente crociana, l’elaborazione di Ernesto De Martino si è sviluppata nelle più svariate direzioni, percorrendo ambiti disciplinari fra loro assai diversi e confrontandosi con approcci ed impostazioni filosofiche molto distanti. Tale articolato itinerario intellettuale trova il suo più immediato riflesso nella difficoltà di definire, per il tramite di un’etichetta, una così complessa e polivalente figura: filosofo? Etnologo? Storico delle religioni? Forse nessuno di essi, o forse tutti[1].

Se anche volessimo restringere il campo su cui operare quest’innaturale categorizzazione del suo pensiero, e ci impegnassimo a definire la sua impostazione filosofica, ci ritroveremmo nel serio imbarazzo di non sapere come muoverci, soprattutto per quanto riguarda l’ultima fase della sua elaborazione.

Ne La fine del mondo, l’opera lasciata incompleta a causa della precoce morte del nostro autore, Croce e Heidegger vengono sapientemente fusi e rielaborati entro una prospettiva capace di conservare gli aspetti più vivi delle loro filosofie. Già nel concetto stesso di «ethos del trascendimento», o di «trascendimento valorizzante»[2] (inteso come la potenza originaria in grado di contrastare la forza disgregante della nuda e cruda vitalità), noi vediamo accostati termini derivanti da due scuole differenti. Valore ed ethos sono categorie che De Martino trae dallo storicismo crociano, mentre l’idea del trascendimento risulta dalla tradizione esistenzialista italiana, e in particolare dalla mediazione dell’heideggerismo compiuta da Paci.

Vediamo in che modo il nostro autore giunga a pensare il simbolismo mitico-rituale nei termini della categoria dell’ethos.

Ne Il mondo magico[3], De Martino aveva caratterizzato l’esperienza magico-religiosa come un processo che, a partire da una condizione di crisi psichica in grado di portare all’annullamento del soggetto, consente di ridischiudere le potenzialità operative all’interno di un mondo storicamente e culturalmente fondato. Nel momento in cui il primitivo si mostra incapace di relazionarsi adeguatamente all’oggetto, e quindi di comprenderlo nella sua relazione con tutto ciò che gli è intorno, ecco che l’oggetto assume il carattere dell’assoluto, dell’irrelato, e al prorompere di tale aspetto corrisponde l’annientarsi del soggetto nell’oggetto. L’esito di tale processo si manifesta chiaramente nell’olonismo, che esprime quella condizione in cui si perdono le coordinate con le cose, le loro differenze, e la differenza tra sé e il mondo: essa non è altro che il riflesso dell’estrema disarmonia tra l’uomo e il mondo, che s’impone rischiando di togliergli anche il più minimo e scontato segno di umanità, la facoltà razionale, conducendolo alla follia.

In seguito a questo radicale farsi altro come nullificazione, deve seguire una riconquista del sé, e la magia offre l’occasione per scendere sullo stesso piano dell’irrazionale e dell’irrelazione, però capovolgendo il rapporto di dominio. Il simbolismo mitico-rituale consente al primitivo, considerando le condizioni labili di vita che rendono angusta la sua esistenza, di fondare un rapporto tra sé e il mondo pienamente adeguato. Ora, le critiche di Croce proprio su questo punto si sono concentrate, nella misura in cui hanno sottolineato l’incapacità del rituale magico-religioso di risolvere la crisi della presenza. Oltre a ciò, bisogna rilevare che l’incompatibilità della proposta del nostro autore con la filosofia dello spirito risiede nel fatto che per Croce è impossibile che si dia alcuna attività umana caratterizzata da una funzione storicamente positiva che non sia estetica, logica, economica o etica (appunto le quattro categorie crociane).

De Martino, pertanto, si rende conto che per qualificare in termini crociani la positiva direzione verso cui tende l’istanza magico-religiosa, inadatta è ciascuna delle quattro categorie prese nella loro reciproca distinzione. In Morte e pianto rituale[4] e in Crisi della presenza e reintegrazione religiosa[5] il nostro autore per la prima volta mostra non soltanto di essere un ottimo conoscitore della filosofia dello spirito, ma di averla a tal punto fatta sua da permettersi una rielaborazione[6]. L’unico modo per esprimere la positiva istanza della destorificazione mitico-rituale è quello non già di ricondurla alla categoria dell’ethos inteso nel suo specifico ufficio (cioè come distinto che si eleva sopra la categoria che lo ha preceduto), bensì inteso come quella potenza suprema grazie a cui soltanto è possibile un adeguato funzionamento del circolo spirituale[7]. Sicché, De Martino può operare quella mediazione tra sé e Croce tanto ricercata: «ora questo ethos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione»[8]. In tal modo, proprio cercando di costruire un ponte con la filosofia dello spirito, Ernesto De Martino si ritrova a porre le basi della sua futura elaborazione, caratterizzata dal concetto chiave di ethos del trascendimento. Proprio percorrendo la via di una riconnessione con la filosofia del suo vecchio maestro, l’autore traccia le linee principali di un processo che segnerà forse il suo più decisivo allontanamento.

Insomma, se per Croce il primitivo, nel momento in cui si dedica al rituale magico esprime un tentativo di fuggire dalla storia, per De Martino, al contrario, manifesta un’intima e originaria spinta verso la costruzione di un mondo culturalmente e socialmente fondato. Per l’indiano d’America sarebbe tanto importante svolgere il rituale grazie a cui garantirsi la riuscita della caccia del bufalo, quanto la caccia stessa[9]. Le due azioni non sono in contraddizione, anzi l’una, e precisamente la prima, è per l’altra. Se il primitivo si concentrasse soltanto sul secondo momento, e «conoscesse storicamente la situazione di fatto», si renderebbe conto della bassissima probabilità di riuscita dei suoi compiti, della totale accidentalità a cui è affidato l’esito dell’opera, e quindi della totale insensatezza a cui è affidata la propria vita. Paradossalmente, proprio un approccio unicamente razionale, nelle condizioni labili in cui vive, lo lascerebbe indifeso ed esposto alla crisi senza compenso della presenza.

Questo a noi sembra essere stato il più geniale contributo di De Martino: la capacità di vedere celata dietro una forma irrazionale, un contenuto razionale; dietro un atteggiamento per noi legato al rifiuto di un qualsiasi mondo storico, un’istanza radicalmente e intimamente spirituale.

Molto interessanti e degne di considerazione filosofica sono le riflessioni in cui De Martino compara la condizione psichica del primitivo con quella del malato mentale: «nella nostra civiltà il dissociato è in conflitto col proprio ambiente storico: la sua funzione sociale non è riconosciuta, la credenza altrui non lo conforta, e soprattutto egli non trova in se stesso e nel patrimonio della educazione ricevuta i grandi temi ideologici vivi e attuali, attraverso i quali dirigere e interpretare il suo stato psichico, piegandolo a un fine culturale e umano»[10]. Per De Martino, non la dissociazione psichica del primitivo, ma, ad esempio, la fredda e irrazionale figura del nazista costituisce il tratto patologico dell’umano. Ma siccome per il nostro autore il piano sociale e quello storico sono strettamente connessi – per cui accettare la sfera della condivisione collettiva implica quasi automaticamente accogliere quella dei valori dell’umanità – ecco che la determinazione del tratto patologico pare assumere una caratterizzazione decisamente più formale: «nella schizofrenia, al contrario – cioè, aggiungiamo per  chiarezza, a differenza del magismo –, l’esserci non è più deciso e garantito come dovrebbe in rapporto alla situazione storica in cui si trova […]. Questa inautenticità storica pone l’individuo isolato e sprovvisto davanti al suo rischio: c’è una evasione dal mondo storico, che è poi il vero tratto morboso»[11].

Nella fase più matura del suo pensiero, De Martino si rende conto che la dimensione caratterizzata dalla coinonia tra gli esseri e dall’indistinzione tra io e mondo, nella misura in cui viene pensata non nei termini del patologico, può esser ben descritta come dimensione precategoriale e al contempo culturale.

È, a nostro avviso, a partire da questo nodo concettuale che il nostro autore ha sentito sempre più l’esigenza di approfondire i suoi studi sulla fenomenologia e l’esistenzialismo. Non è un caso che il linguaggio che viene privilegiato ne La fine del mondo riprende fortemente la terminologia di Essere e tempo[12]: determinante, in tal senso, la ripresa del concetto heideggeriano di mondo e la sua capacità di superare la tendenza a pensare l’uomo come un che di isolato e dato. In generale esso offre  lo sfondo domestico e familiare di ogni possibile agire e di ogni possibile conoscere: «un mondo è sempre un mondo culturale, cioè è sempre esperibile per entro un certo ordine di valorizzazioni intersoggettive umane, per entro un progetto comunitario dell’operabile. Ciò che sostiene il mondo è l’ethos valorizzatore»[13].

L’ethos del trascendimento, come struttura concettuale cardine e onnipresente in tutta l’ultima fase del pensiero di Ernesto De Martino, mostra, ad uno sguardo approfondito, anche la capacità di chiarificare alcuni dei passaggi più oscuri presenti in Naturalismo e storicismo nell’etnologia. In quest’ultimo, il primo libro pubblicato dal nostro autore, viene ripresa, modificandola, la filosofia dello spirito, affermando che alla mentalità primitiva manca il pieno sviluppo di due delle quattro categorie crociane (il logos e l’ethos): «la verità è che il concetto di primitivo può essere fissato solo idealmente, e cioè come prevalenza della corpulenta fantasia nell’ambito teoretico, e della economicità o della mera vitalità nell’ambito pratico»[14].   

Ora, portiamo l’attenzione su un passo di Crisi della presenza e reintegrazione religiosa che a nostro avviso offre uno spunto di riflessione interessante. L’articolo, uscito due anni prima di Morte e pianto rituale, è, nei contenuti espressi, perfettamente compatibile con il libro, tanto che ciascuna tesi in esso avanzata la ritroviamo in quest’ultimo elaborata quasi con le stesse parole (tranne il passo che ora vogliamo analizzare).

Come poco sopra abbiamo accennato, il vitale per De Martino costituisce la condizione naturale a partire da cui l’uomo realizza le proprie valorizzazioni[15]. Cercando di descrivere la crisi della presenza con una formulazione di derivazione crociana, così il nostro autore si esprime: «alla radice della crisi radicale della presenza sta la impotenza a dialettizzare il vitale con l’ethos e col logos, onde il vitale, in questa disumana recessione adialettica, cessa di essere passione viva e vitale, stimolo potente della civiltà e della storia, per configurarsi come mero “patire”, come moto impulsivo, rappresentazione parassitaria, colpa non scontabile e simili»[16].

Se non erriamo, all’incapacità di realizzare la categoria del logos e dell’ethos deve corrispondere necessariamente l’attiva presenza della fantasia e della prassi economica. Ora, come non pensare alla formulazione della mentalità primitiva proposta da De Martino in Naturalismo e storicismo nell’etnologia? Certo, qui il contesto è cambiato, e i termini sono pregni di un significato che riflette il percorso filosofico compiuto nel frattempo dall’autore e che non poteva già esser presente nel suo primo libro. L’assenza della seconda e della quarta categoria qui non significa affatto una modalità culturale, bensì l’assenza di cultura, lo stato psicopatologico. A rigor di logica, quindi, la crisi della presenza non dovrebbe avere alcuna relazione con la formulazione di Naturalismo e storicismo nell’etnologia, poiché lì si andava a qualificare una dimensione culturale. Di conseguenza, dal punto di vista del contenuto, abbiamo di fronte due cose completamente diverse.

Secondo il quadro fin qui delineato, nel momento in cui De Martino definisce la mentalità primitiva come espressione culturale caratterizzata dall’assenza della seconda e della quarta categoria non viene operato alcun riferimento specifico alla crisi della presenza. Quest’ultima, d’altra parte, quando viene per la prima volta tematizzata ne Il mondo magico il nostro autore decide di abbandonare la formulazione della mentalità primitiva elaborata in Naturalismo e storicismo nell’etnologia. Pertanto, tra crisi della presenza e mentalità primitiva non sembra esservi alcun riferimento diretto. Nel passo poco sopra riportato di Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, infine, troviamo la chiave per operare un collegamento armonico fra le posizioni precedentemente espresse da De Martino: la stessa formulazione, vale a dire la prevalenza della prima e della terza categoria, può esser utilizzata sia per caratterizzare quella che ne Il mondo magico veniva chiamata crisi senza compenso, sia la dimensione tipica in cui il primitivo opera il riscatto trascinato dall’ethos magico-religioso. Se la nostra analisi non è errata, possiamo dire che ci si è resa più intelligibile la definizione del primitivo che De Martino ci ha dato in Naturalismo e storicismo nell’etnologia, e che in quel contesto specifico risultava oscura perché inspiegata. La cosa più paradossale, però, è che prima il nostro autore ci ha fornito la definizione, e poi, a distanza di anni, e dopo una lunga riflessione, è riuscito ad esplicitare i fattori che lo portarono a formularla.

 

Alessio Di Stefano

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 31, Marzo 2010)



[1] Clara Gallini, Introduzione, in Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977, p. XXVII.

[2] E. De Martino, La fine del mondo… cit., passim.

[3] E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. La prima edizione del testo risale al 1948.

[4] E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1977. La prima edizione del testo risale al 1958.

[5] E. De Martino, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in «Aut-aut», numero XXXI, 1956.

[6] Queste sono le pagine in cui De Martino si discosta consapevolmente da Croce nella determinazione dell’utile-vitale, che viene scisso in due determinazioni concettuali distinte, l’una essendo a pieno titolo una forma, l’altra invece la pura materia su cui si esercitano le valorizzazioni: «se nell’ultimo Croce essa appare ora come la materia di tutte le forme ed ora una forma fra le altre, ciò deriva dalla perdurante confusione fra il vitale che è sempre materia e la coerenza culturale economica che è certamente una forma». E. De Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p.15.

Per Croce invece l’utile e il vitale costituiscono le due facce di una medesima categoria: «per categoria della vitalità è da intendere quella in cui l’individuo soddisfa le proprie volizioni e brame di benessere individuale. Come tale, è di sua natura amorale […]. Né bisogna lasciarsi distrarre e attrarre dalla Vitalità già domata e regolata dalla morale e perdere così di vista quella che qui sola conta per noi e sola ha il nostro interessamento, che è Vitalità cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore. Essa offre la “materia” alle categorie successive, giusta la legge che regge il circolo delle categorie», Benendetto Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari, 1952, p. 35.

Per la tematizzazione di questo delicato punto si veda Gennaro Sasso, Ernesto De Martino. Fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli, 2000, p. 267.

[7] «Ora, l’azione che mantiene nei loro confini le singole attività […] che si oppone in tal modo al disgregamento dell’unità spirituale, che garantisce la libertà, è quella che fronteggia e combatte il male in tutte le sue forme e gradazioni, e che si chiama l’attività morale. Per tal via è dato intendere come l’attività morale, che per un verso non fa alcuna opera particolare, per un altro verso le faccia essa tutte», B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, 1938, p. 44.

[8] E. De Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 14. I corsivi sono nostri.

[9] L’esempio è stato preso da Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. II, La nuova Italia, Firenze, 1966, p. 155.

[10] E. De Martino, Percezione extrasensoriale e magismo etnologico, in «Studi e materiali di storia delle religioni», numero XX, 1946, p. 69.

[11] E. De Martino, Il mondo magico…, cit., pp. 151-156. Con questa caratterizzazione più formale il malato tende da una parte a distinguersi negativamente a causa del suo isolamento (da intendersi come rifiuto della socialità). Dall’altra, invece, tende comunque a conservare i tratti essenziali della spinta verso un mondo culturalmente fondato: il malato si differenzia dal primitivo semplicemente per l’incapacità, da solo, di costruire una risposta culturale alla crisi della presenza.

[12] Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2001.

[13] E. De Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 635-636.

[14] E. De Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Argo, Lecce, 1997, p. 146. La prima edizione del testo risale al 1941.

[15] «La mera vitalità che sta “cruda e verde” nell’animale e nella pianta deve nell’uomo esser trascesa nell’opera, e questa energia di trascendimento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza». E. De Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 15.

[16] E. De Martino, Crisi della presenza…, cit., p. 21.

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