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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno IV, n. 29, gennaio 2010

Zoom immagine Discriminazione femminile:
gli occhi delle donne rivolti
a questioni ancora irrisolte.
Il contrasto tra Nord e Sud

di Gaetanina Sicari Ruffo
In un saggio pubblicato da Rubbettino
analisi e proposte per uscire dalla crisi


Vari sono stati, e tuttora contrastanti, i giudizi sull'attuale crisi che non solo l'Italia, ma il mondo tutto sta attraversando. Ancora non se ne vede la fine, anche se evidenti segnali di superamento sono apparsi all'orizzonte. Si studia cosa potrà accelerare il processo di definizione e di compimento salutare dopo che l'economia mondiale è stata sull'orlo della catastrofe. Ma è stata solo una causa economica? Tutti riconoscono che a fondamento ci sono stati comportamenti scorretti e stravolgimenti delle competenze e delle spettanze nei settori economici e politici. Sicuramente tra questi va ricercata in particolare la penalizzazione della categoria femminile, stretta tra i bisogni d'un welfare che non va bene ed una evidente atonia del ruolo e della condizione sia nel pubblico che nel privato. Dopo la denuncia della prima storica rivendicazione emancipatrice che si è chiusa all'alba della riforma costituzionale, dopo la Seconda guerra mondiale, molti dei diritti che dovrebbero assicurare la cosiddetta parità risultano costantemente elusi, aggravati ora dalla crisi economica, dai servizi sempre più inadeguati, dall'ambito ristretto del mercato del lavoro, dall'inadempimento delle norme europee per essere alla pari con gli altri paesi.

 

Risultanze d'un attento esame 

In un recente saggio edito da Rubbettino (Pensionata sarà lei, pp. 170, € 12,00), a cura di Emma Bonino, la premessa da cui parte la discussione è la condanna della Corte di giustizia europea con relativa multa per la mancata equiparazione in Italia dell'età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego; ma intorno ad essa e alle conseguenze incontestabili che se ne possono trarre, ruota tutto un più ampio discorso sulle discriminazioni femminili ancora in atto in tutto il contesto socioculturale in cui si vive e si opera.

Prendono la parola, sollecitate dall'infaticabile deputato radicale ed esperta di problemi sociali Emma Bonino, autorevoli voci femminili di cui la prima è il Premio Nobel per la medicina: Rita Levi Montalcini.

La scienziata riconosce che, a causa delle diseguaglianze, «milioni di donne non riescono a migliorare la qualità della loro vita e quella dei figli», specie quando congiunta al loro ruolo di donna c'è la funzione di madre. Bisogna però distinguere tra una società femminile attiva ed una per dir così passiva, cioè in quiescenza. Non che le facce della stessa medaglia siano molto distanti tra loro, dato che l'una è la premessa dell'altra, come riconosce l'onorevole Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, che afferma: «nonostante che negli ultimi anni si sia registrato un incremento dell'occupazione femminile rispetto a quella maschile, il nostro paese continua ad essere, nell'Europa a quindici, ma anche nella complessiva dimensione dell'Unione, tra quelli che registrano i più bassi tassi di occupazione». Evidentemente si devono introdurre dei correttivi come più diffusi servizi di cura all'infanzia ed orari di lavoro flessibili. Ma queste sono istanze d'ordine interno, veniamo piuttosto all'ultima direttiva europea che il nostro paese non ha fino ad ora attuato e per cui è stato condannato alla penalizzazione. L'innalzamento dell'età pensionabile a 65 anni per le donne frutterebbe un risparmio di 10 miliardi di euro entro il 2015, secondo lo studio di uno dei più grandi esperti in materia pensionistica: Giuliano Cazzola. Se questo risparmio andasse ad un fondo vincolato per garantire nuovi servizi, di cui si avverte una forte esigenza, sarebbe altamente positivo.

Non c'è dubbio, afferma la Bonino, che l'adesione alle norme europee in fatto di parità del pensionamento tra donne e uomini serva a rafforzare la democrazia e ad innestare un proficuo dialogo per superare ritardi e diversificazioni e, in termini economici, come si è detto, a recuperare risorse finanziarie che potrebbero essere destinate a servizi di cura e di assistenza.

Ben diverso è il ragionamento che si può seguire se si guarda alle ragioni del ritardo per la parità dei diritti/doveri degli uomini e delle donne. La Bonino è inflessibile a questo proposito. Vigono in Italia stereotipi che esaltano i modelli femminili che vanno soprattutto dalle «veline più o meno (s)vestite alle casalinghe felici e in estasi per il nuovo Mastrolindo […] Vince il modello del Diavolo veste Prada […] Scarsa è la volontà delle donne di fare squadra e massa critica […] All'Italia al maschile fa tanto comodo così: l'intero sistema di cura per bambini, anziani, malati, e tutte le attività domestiche sono riservate al mondo femminile che accetta poiché senza alternative».

Se la condizione femminile in Italia è prevalentemente questa, non si venga poi a dire che siamo gli ultimi in fatto di crescita e di sviluppo. Le ragioni del malessere esistono e sono evidenti anche attraverso le cifre: è stato stimato che approssimativamente tra il 2009 ed il 2010 resteranno senza occupazione almeno 200 mila persone, di cui le donne costituiscono una buona percentuale, anche perché saranno le prime ad essere espulse dal mercato del lavoro per l'irrisolta questione dei servizi inadeguati cui dovrebbero affidarsi per lavorare, specie se sono in coppia e con figli.

 

Le anomalie del welfare italiano

A dare il colpo di grazia al welfare italiano sono stati senza dubbio il grande indebitamento pubblico, che ha bruciato tutte le risorse, e l'esercito dei “baby pensionati”, cioè coloro che sono andati in pensione molto prima del compimento del sessantesimo anno di età, cause che hanno fatto lievitare la spesa pubblica italiana. La previdenza nazionale assorbe una quota molto rilevante delle risorse destinate al welfare: più del 60% rispetto alla quota europea del 45. Questo squilibrato sistema ha generato discriminazioni tra vecchi e nuovi lavoratori e fatto sì che i giovani si ritrovino a versare contributi eccessivi all'Inps per mantenere quest'assetto. Occorre riequilibrare la spesa sociale; perciò sarebbe opportuno prolungare l'età lavorativa per consentire di rendere efficienti maggiori forze di lavoro. Tuttavia in Italia, forti resistenze politiche oltre che sindacali hanno fino ad oggi impedito di perseguire questo obiettivo. «Solo un confronto pubblico, trasparente, non ideologico» potrà portare ad una revisione del welfare. A dirlo è Valeria Manieri, della Direzione radicali italiani, collaboratrice di Radio radicale e Cerm (Competitività e regolazione mercati), che giustamente richiama l'urgente necessità d'una riforma che renda attualizzabile l'art. 3 della Costituzione sulla parità dei diritti dei cittadini, senza alcuna distinzione. 

Ma, se da una parte la crisi ha accentuato la debolezza del sistema, dall’altra ha anche permesso che se ne parlasse e che si cercasse di trovare soluzioni immediate per combatterla.

 

La diversità tra Nord e Sud

Il problema poi non è così omogeneo nella sua sintesi. Esistono forti discrepanze tra Nord e Sud, anche in fatto di mercato di lavoro, che fanno la differenza e costringono l'Italia ad andare ad una diversa velocità. Tanto per fare un esempio, mentre le lavoratrici del Nord, intorno ai trent'anni, hanno un tasso di occupazione del 71,2%, a Sud questo è appena del 34,7%, e non solo per via delle carenze lavorative, ma pure per la mancanza di servizi, per cui molte lavoratrici sono costrette a rinunziare ad un lavoro fuori casa. Si pensi che gli asili nido a Sud sono appena del 3% contro il 30% dell'Emilia Romagna. Come dunque realizzare e non solo a parole la parità ed affrontare la crisi presente?

 

Alcune proposte

Renata Polverini, responsabile del sindacato Ugl, si dichiara consapevole dell'importanza della richiesta europea di equiparazione dell’età di pensionamento per uomini e donne (si ricorda che la Corte di Giustizia europea, nello scorso novembre, ha giudicato secondo l’art. 141 del trattato Ce, inadempiente lo stato italiano per il diverso regime pensionistico offerto ai lavoratori e alle lavoratici, ritenuto discriminatorio per la parità dei diritti, dato che per gli uni è fissato a 65 anni, per le altre a 60).

Ad essa bisognerà rispondere con fatti e non a parole. Quello che per ora ostacola l'adempimento d'una risposta positiva alla stessa è soprattutto il fatto che, per innalzare l’età pensionabile delle donne e portarla alla pari con quella degli uomini, ci vorrà una maggiore disponibilità di fondi e attualmente non si è in grado di reperire risorse. Bisogna quindi dilazionare la risposta com’è in atto e mantenere flessibile il pensionamento. In Italia l’età pensionabile fissata a 60 anni per le lavoratrici non è un obbligo stabilito per legge, perché già esse, secondo l’art. 4 della legge 903/77, possono proseguire liberamente il lavoro fino ai 65 anni. L’Italia dunque considera che non c’è alcuna discriminazione, ma solo un’opportunità in più offerta alle donne. Vero è che molte altre direttive dell’Europa, come la stabilizzazione del lavoro, perché non ci siano forme di precarizzazione senza ammortizzatori sociali, non sono state prese in considerazione.

Occorre nel frattempo valutare in Italia con maggiore attenzione i diritti della maternità, che non è solo un fatto individuale, ma sociale e caparra dello sviluppo futuro. Sarebbe opportuno riconoscere alle madri un bonus che in termini previdenziali possa essere adoperato per andare in pensione prima, se occorre, o speso per continuare il lavoro con un beneficio economico in più. È necessaria insomma una nuova forma di welfare che non guardi solo al singolo, ma alla famiglia.

Liliana Ocmin della Cisl è del parere che «solo la flessibilità del collocamento a riposo rispetti le esigenze delle varie situazioni lavorative e di vita». Le aspettative delle lavoratrici non sono omogenee e pertanto è opportuno mantenere la flessibilità che consente tutele ed offre opportunità a chi vuole continuare un rapporto di lavoro.

Un’indagine de Il Sole 24 Ore, infatti, riferisce che «i dati parlano senza ombra di dubbio d’un alto indice di donne che scelgono di rimanere al lavoro dopo aver raggiunto l’età pensionabile».

La portavoce dell'Udi, Milena Carone, è per l’equiparazione secondo il dettato europeo ed auspica che le donne escano una buona volta dalla tutela sotto cui l’Italia vuole tenerle e si dispongano non solo a difendere i loro diritti, ma anche a far valere meritevolmente le loro capacità. C'è nel nostro mondo attuale un rapido restringimento di benefici di cui bisogna tener conto e non è giusto farne pagare solo alle donne le conseguenze. Occorre che la parola d'ordine del nuovo modo di sentire s'ispiri alla libertà, una libertà però che riconosca i limiti del sistema attuale e s'impegni a cambiarlo senza conflitti e steccati.

Chiara Saraceno, docente di Sociologia della famiglia all'Università di Torino, sa per cognizione di causa che le donne che sono in coppia ed hanno figli lavorano più degli uomini, ma hanno una retribuzione più bassa ed un orizzonte lavorativo limitato, una carriera più difficoltosa. Si chiede: dove sta la parità? C'è quindi un gap da superare, ma forse la cosa migliore è garantire una flessibilità anche nel decidere il momento del pensionamento, secondo le proprie necessità. Altra possibilità di soluzione della questione, secondo la Saraceno, sarebbe d'introdurre «un riconoscimento economico del lavoro di cura, sia sotto forma di congedi coperti da indennità decenti che sotto forma di contributi figurativi più sostanziosi di quelli vigenti».

Dovrebbe esserci pure un congedo genitoriale che ora è riconosciuto in maniera molto ridotta – il 30% dello stipendio e solo entro i primi tre anni del bambino – mentre sono ignorate tutte le cure prestate spesso ai familiari non autosufficienti con cui si convive.

In definitiva la parità di cui oggi si discute in Italia è quella che riguarda il tempo del collocamento a riposo, importante soprattutto per un maggiore equilibrio dei livelli economici; sarebbe auspicabile che essa fosse tenuta presente pure durante le altre fasi dell'attività lavorativa per dare una maggiore certezza e consentire una più equa applicazione di diritto. Tuttavia risolvere questa emergenza, seguendo le direttive europee, potrebbe essere di sprone per rivedere un po' tutto il mondo del lavoro e della società sia al maschile che al femminile.

 

Gaetanina Sicari Ruffo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 29, gennaio 2010)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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