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A. XVIII, n. 200, maggio 2024
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Editoria varia (a cura di Elisabetta Zicchinella)

Zoom immagine Storie curiose, equivoci
ed epiloghi “a sorpresa”
da raccontare e ritmare
come una musica rap

di Luciana Rossi
Assurdi... o verosimili? Una collezione di ventidue originali racconti
brevi presentata da Creativa edizioni, per emozionarsi e per riflettere


«Poi guido per un pezzo, lungo l’Interstate, senza incontrare nessuno e tutto quel nulla intorno mi fa stare bene. C’è gente che si sente protetta solo dalle barriere, dalle mura. Io ho bisogno di spazio sgombro, di vedere. Senza piante, alberi, case. Guido e basta e non c’è niente da guardare, niente contro cui andare a sbattere, niente di niente. Guido e basta. Magari non ho parole perché non ho niente da dire. Magari sono come l’Interstate, una striscia di asfalto in mezzo al niente». Un veterano reduce dalla guerra del Vietnam in viaggio, forse perennemente, sulle assolate autostrade d’America e “a corto di parole” è uno dei bizzarri personaggi in cui ci si può imbattere leggendo i ventidue racconti brevi della raccolta di Alessio Pracanica, Racconti dell’età del rap (Creativa edizioni, pp. 180, € 13,50). Il protagonista del monologo appena citato, in Grand Hotel Saigon, come del resto gli altri personaggi presentati nel libro, è inverosimile ma non troppo. Infatti, questa impotenza a esprimere il proprio vissuto, ad articolare in parole il proprio malessere, questa povertà di linguaggio, di sfumature e, alla lunga, di idee e di immagini che possano davvero parlare all’anima e portarla fuori dai suoi vortici chiusi e distorti, questa afasia che appiattisce e inaridisce è forse proprio uno dei grandi mali della nostra epoca. Eppure, aggiungeremmo parodiando uno degli assiomi della comunicazione: “è impossibile non dire” e, anche nella loro piattezza e insensatezza, le parole restano significative, espressive, onomatopeiche, diventano ritmo, cantilena, sincope, ossessione, i discorsi diventano suoni, musica e dicono del nulla in cui ci dibattiamo. O, forse, diventano simbolo di un “tutto”, di un “troppo”, dei molti “tutto” e “troppo” affastellati insieme casualmente in modo paritetico e con accostamenti stridenti, che costituiscono il nostro presente usuale, slanciato, come il veterano del racconto, verso un epilogo tanto assurdo quanto inevitabile, proiettato verso un futuro che non lascia scelta perché non è capace di immaginarne una, imprigionato in una rassegnata profezia di incapacità e di ottusa violenza che avvera fatalmente se stessa. «Che c’è di strano, tutti gli assassini tengono un diario. E’ [sic] cosa risaputa, facile, molto facile. Più facile che sparare» esordisce il nostro protagonista, confidando poco più avanti, con nostalgia e stupore quasi infantili, «Quando uscivo di pattuglia portavo con me un fottio di caricatori, non mi bastavano mai. Non puoi fare lo stesso con le parole. Non c’è caricatore che possa contenerle e non venitemi a parlare di vocabolario, le parole debbono collegarsi, come nel nastro di una mitragliatrice, e avere un senso, mica si possono sparare [...] a raffica. Forse è per questo che ci sono in giro più assassini che scrittori. Forse non è così facile».

 

L’età del rap

Per raccontare queste situazioni e queste storie “dall’interno” (viste dai personaggi stessi), anzi lasciare quasi che si raccontino da sole rappresentandosi sul palcoscenico mentale del lettore, l’autore fa largo uso di dialoghi, di trascrizioni di testi scritti intradiegetici (cioè inseriti nel contesto stesso della narrazione) e, molto spesso, del pensiero indiretto, descrivendo, in un quasi ininterrotto “flusso di coscienza”, ricordi, desideri e istanze dei protagonisti, nonché i loro dubbi, i rimpianti, le recriminazioni, mescolati in maniera apparentemente casuale, come in effetti accade nella mente. Mette in scena, così, sullo sfondo, il gioco delle nostre costanti contraddizioni, irridendo sottilmente le convenzioni e i pregiudizi dietro cui cerchiamo vanamente di occultarle.

Sulle orme delle filastrocche del rap - il celebre genere musicale nato in America presso la comunità afroamericana negli anni 1970-1980 – il testo presenta ripetizioni, espressioni ritmate, parole in libertà. O ancora, frasi spezzate e ricomposte in geometrie spigolose e azzardate, come i gesti della breakdance, o personaggi carichi come le figure stilizzate e grottesche dei graffiti metropolitani. Rap, breakdance, graffitismo: l’obiettivo è creare con l’espressione artistica un codice in qualche modo indecifrabile che, mentre mira a “sconvolgere” e a turbare, consente ai membri della “community” di riconoscersi e identificarsi tra loro. Ma i membri di questa “community” virtuale siamo potenzialmente tutti noi, perché la realtà che viene rappresentata tra le righe è quella parte della società che vive “in ombra”, si alimenta di spinte inconsce e respira di un respiro sotterraneo.

In questo contesto trova senso l’uso di un linguaggio che alterna, in modo ironico, espressioni colte, forbite e a volte perfino “affettate” a un registro tipico del parlato in cui si inseriscono toni crudi, irriverenti, termini a volte forti o intercalari usati premeditatamente in modo quasi ossessivo.

 

Esercizi di stile

Lo stile è incisivo, ma gradevole, e nel complesso il ritmo dei racconti è ben padroneggiato. L’impianto particolarmente fantasioso delle trame crea una variopinta galleria di “ambienti”, anche linguistici, che rende scorrevole e godibile la lettura, con tratti inquietanti di mistero, di sottile comicità e, a volte, un riuscito sottofondo di malinconia. Quasi in una rassegna di “esercizi di stile”, passiamo attraverso l’impeccabilità tecnica di una formalmente plausibile Ipotesi sperimentale su una proficua conservazione degli alimenti o l’altisonante e astratto linguaggio di regolamenti militari immaginari in cui, verosimilmente, alla lettera A troviamo «Attacco: movimento offensivo attuato procedendo dalle proprie linee verso quelle nemiche, in cui eccellono principalmente le truppe francesi. Au contraire: ritirata, solitamente eseguita dal nemico in seguito ad un attacco delle truppe francesi.», mentre il «Trasporto» (lettera “T”) si configura come il «movimento di cose e/o persone da una località ad un’altra, specialità in cui eccellono particolarmente i servizi logistici dell’esercito francese», in particolare quando avviene sulle carrozze in dotazione alle ferrovie francesi che – manco a dirlo – sarebbero, stando sempre allo stesso regolamento, «Impareggiabili, quanto a comodità ed ampiezza».

Potremmo imbatterci nei brani di una corrispondenza in puro stile oxfordiano (redatta però da un esemplare della razza canina), o nel battente linguaggio giornalistico quando, in un curioso e apparentemente legittimo stravolgimento di valori, si riportano le serrate prese di posizione “etiche” dei vari gruppi di potere all’interno della società intorno a un caso di cronaca, fino al drammatico ed inaspettato epilogo che coinvolge il protagonista di A man in the leg – una scena che ricorda, o forse anticipa, alcuni episodi di cronaca recente – per arrivare ai toccanti dialoghi sentimentali tra uomo e macchina a cui ci ha abituato la fantascienza di Hal9000, il computer centrale dell’astronave nel film-cult 2001 Odissea nello spazio, tuttavia non troppo remoti in una società come quella di oggi, in cui agli oggetti della tecnologia o mediati dalla tecnologia Ipod, telefonini, palmari, blog, siti Internet, ecc.) sono annesse valenze di tipo affettivo o compensatorio, quasi in una sorta di trasfigurazione.

 

Breve ma intenso, come i temporali

Il racconto breve, per sua natura, manca dello spazio “letterario” sufficiente per svolgere un tema dall’inizio alla fine o per approfondirlo e predilige, al posto delle descrizioni o delle biografie, il ritratto bruciante, l’istantanea, lo snapshot. Per coinvolgere in così poco tempo il lettore, deve introdurlo e ambientarlo rapidamente in medias res, spalancargli gli occhi sull’acme di una parabola che resta implicita, incuriosirlo e sorprenderlo giocando su equivoci, surreali ma non troppo fuori contesto, come quelli che l’autore propone.

In un gioco di scenari apparentemente sconclusionati – cui accenniamo solamente per non svelarne le sorprese − i racconti si dipanano attraverso un arco temporale virtualmente illimitato, partendo da rivisitazioni improbabili di passati più o meno recenti, a volte chiaramente identificati o noti, come è il caso dello studio di posa di Leonardo da Vinci in Mon sourire, altre volte semplicemente lasciati intuire presentandoli da punti di vista eccentrici, dislocati, inusuali, perfino azzardati, come nel misterioso e quasi esoterico Accordature. Per arrivare, all’estremo opposto, a visioni del futuro ispirate all’orwelliano 1984 – ne è esempio il quasi plausibile (ahinoi [Nda]) elettore alle prese con La macchina per votare allestita dal partito di Maggioranza Creativa − o alle suggestioni di film più recenti come Matrix o Minority report.

Il tema dell’identità − sia essa svelata, incompresa, incompleta, disadattata o soffocata in un eccesso di adattamento – osservata con una certa profondità di penetrazione psicologica, fa quasi da filo conduttore, quasi come se l’autore volesse spingersi a esplorare i confini della “diversità” per capire fin dove si può arrivare applicando il nostro senso comune.

 

Luciana Rossi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 28, dicembre 2009)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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