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A. XVIII, n. 200, maggio 2024
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè)

Zoom immagine Storie di “altra umanità”
e indifferenza colpevole:
la lontananza e le paure,
solitudine e abbandono

di Francesca Molinaro
Da Monolite un testo di forte impatto sociale, esistenze drammatiche:
i pensieri e i sentimenti dei detenuti del carcere multirazziale di Novara


In un mondo che si muove sempre più verso la globalizzazione e l’intercultura, non si può più fare a meno di comunicare con l’altro, quando con altro non intendiamo solo i nostri amici o i nostri familiari, e nemmeno i nostri connazionali, ma tutte le culture che ogni giorno toccano la nostra vita. È questo, in sintesi, l’abstract del quaderno Portare fuori dal cuore, dal carcere, da tutti i “dentro”. Un’esperienza di alfabetizzazione emozionale e letteraria nel carcere di massima sicurezza di Novara (Monolite, pp. 76, € 9.90), scritto da Antonio Ferrara, autore e illustratore napoletano, trapiantato a Novara, di libri per ragazzi. Come lui stesso ha raccontato: «Scrive per i bambini per continuare a fare il bambino e tanto per non perdere il vizio incontra bambini e ragazzi nel suo vorticoso girovagare, in Italia e all’estero, tra scuole, associazioni, circoli culturali, biblioteche e case circondariali dove tiene laboratori d’illustrazione e di scrittura creativa». È proprio da questi laboratori che è scaturito il libro in questione, in cui l’autore ha raccolto i lavori svolti dai reclusi del carcere, mostrandone debolezze, sentimenti ed emozioni. Uno sguardo inedito su chi è considerato “diverso” e a volte, forse, nemmeno umano.

 

L’esperienza di Novara

Come affermavamo nell’Introduzione, quello di Ferrara è un viaggio senza meta tra varie culture: «Lavorare nel carcere ha significato per me fare un tuffo nell’intercultura: la popolazione carceraria italiana, infatti, è costituita in gran parte da marocchini, algerini, senegalesi, nigeriani, albanesi, rumeni, rom», che egli affronta cercando di sviluppare tematiche comuni a tutti gli esseri umani: «Ho deciso di concentrarmi sulle nostre emozioni […], e ho proposto di lavorare su alcune parole-stimolo, spiegandone prima il significato: nostalgia, lontananza, prigionia, ironia…». Tramite il suo personale laboratorio di scrittura creativa, Ferrara ha navigato nelle acque tormentate dei sentimenti umani e, in questo caso particolare, di umani devastati da storie terribili che si sono incrociate in un paese straniero, dietro quattro sbarre. Ad ognuno di loro Ferrara ha dato la possibilità di esprimersi sui temi proposti attraverso la propria lingua, leggendo il tutto ad alta voce nella lingua madre e poi traducendo. Il risultato è stato che «il suono di parole sconosciute, associato agli occhi del lettore visibilmente arrossati e alla sua voce rotta dal pianto, creavano un’intensa suggestione per tutti». 

Dopo il crollo di questa prima barriera culturale ed emozionale egli ha portato i “suoi carcerati” tra le pagine «dell’invenzione lessicale», ma soprattutto, come afferma lui stesso, «abbiamo imparato a leggere un testo letterario per imparare a leggere noi stessi […] abbiamo scoperto che scrivere vuol dire anche affrontare il proprio universo concettuale e la propria visione del mondo in un unico inscindibile progetto di vita».

Il terzo capitolo del libro è una ricostruzione stilistica e fotografica dei lavori svolti dai carcerati, le foto con le loro considerazioni, le paure, le gioie ma anche il loro pentimento, mostrandoci un mondo che spesso viene giudicato solo dall’esterno e tramite la lente del pregiudizio, creando l’oblio sul fatto che dietro le mura di una casa circondariale ci siano cuori che battono e menti che pensano.     

 

Il corpo comunica

Di notevole interesse è anche il capitolo ottavo, Il corpo racconta. Linguaggio verbale e non verbale, nel quale Ferrara spiega, con le sue metafore sempre squisite e penetranti, come le varie parti del corpo siano un perfetto veicolo di comunicazione anche quando non ci sono, ovvero quando vengono mutilate. A proposito della pelle dice: «Il bambino, toccando, stringendo la madre, ne tocca e ne stringe la pelle, e questa sensazione del toccare si prolunga nella sensazione analoga del contatto con se stesso. La pelle lo apre ai suoi simili». Secondo Ferrara, tramite la pelle di un detenuto si può scoprire la sua storia. Come? «Il corpo, come un tabellone, conserva le tracce delle precedenti affissioni: cicatrici eruttive, ulcere, disegni tatuati o ciò che resta dopo il tentativo di cancellazione […] una storia che, in alcuni momenti di crisi, ricusa come tale e pretende di distruggere». Ma quelle che colpiscono di più e danno un impatto immediato della sofferenza di questi uomini sono le cicatrici dovute a maltrattamenti, a sparatorie o faide con coltelli, allora si capisce davvero quanto male quella persona abbia addosso. Forse, però, la comunicazione più grande avviene sempre tramite “lo specchio dell’anima”: gli occhi, i quali, nel caso di questi detenuti, spesso vengono automutilati: «accecarsi significa che si è perduto lo sguardo su di sé e il controllo dei propri affari e che, male assistiti, ci si chiude nell’oscurità del cubicolo. Senza desiderio ci si abbandona ad un nero destino». La descrizione di queste mutilazioni è molto forte e lascia il lettore senza parole, non ci si aspetta che la disperazione di un detenuto possa arrivare a tanto ma, forse, i veri ciechi sono coloro che non vogliono guardare questa realtà. Ma a venire tagliate sono anche altre parti del corpo: bocche, orecchie, mani, dita portate via una ad una e mandate ai giudici istruttori come prova della propria innocenza. Come comunicare tutto questo al mondo esterno senza dover necessariamente amputarsi? Perché tanti stranieri arrivano nelle nostre carceri invocando giustizia e proclamandosi innocenti, per poi finire mutilati e privi di voglia di vivere?

Forse il problema andrebbe risolto alla base: una migliore educazione del cittadino alla multicultura sarebbe già un passo avanti. Imparare che l’altro, anche se non ha la nostra stessa pelle, o i nostri stessi tratti somatici, ha una sua vita, un cuore, una cultura, delle credenze e che vanno tutti rispettati, sia che ci si trovi nel proprio paese che in quello del “vicino”. In una società che punta sempre più alla globalizzazione non possono esistere prese di posizione culturali assolutistiche, c’è bisogno, invece, di una maggiore flessibilità comunicativa e maggiore tolleranza, affinché ogni luogo possa essere un po’ casa propria.

 

Francesca Molinaro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 28, dicembre 2009)

 

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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