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Home Page (a cura di Anna Guglielmi) . Anno III, n.25, Settembre 2009

Zoom immagine Nell’ombra del Muro di Berlino:
tra vita, libertà, amori e abbandoni

di Eliana Grande
Da Città del sole un romanzo lirico e realistico di Francesca Viscone
in cui gli accadimenti dei singoli si intersecano con la storia europea


Due mondi, due vite, due solitudini si attraversano e si sovrappongono, si rispecchiano e poi si allontanano in un «instancabile girovagare», fuggire e migrare, come le rondini, seguendo le rotte dell’anima sapientemente tracciate da Francesca Viscone – giornalista e autrice di diversi saggi sulla storia e la realtà calabrese – nel suo Concerto a Berlino (Città del sole, pp. 118, € 10,00).

La penna della scrittrice è in grado di restituire con sensibilità e abilità descrittiva i colori e le voci di una domenica mattina nei vicoli di Napoli per poi passare senza strappi, ma con sorprendente fluidità, al ricordo di una Strassenfest berlinese o di una rara giornata di sole sull’isola di Werden.

Piera e Christian sono i protagonisti. Nella loro storia, il peso di un passato che non si può cancellare, muri che non si possono abbattere. Nel loro amore, dolcissime vicinanze e distanze incolmabili, identità che si confondono, si richiamano, si rifuggono l’un l’altra: «Salvami. Salvami dalla mia terra, dai miei ricordi, da me stessa. Salvami da questa fuga infinita, dall’angelo che mi segue eppure ancora mi volta le spalle e ancora mi trattiene là da dove vengo...».

 

Come un volo di rondini, al di là dei muri

Una storia d’amore come un volo di rondini. Piera e il suo Sud splendente e desolato, le sue fiabe di bambina, di rinnina, rondine nera che vola «lontano da qui e da altrove». Piera e i suoi ricordi che la raggiungono sembrano sussurrare all’orecchio e cantare in dialetto, come una litania: «Bella cu si capìhri ’ncannoltati, trema la terra quandu li sciunditi...». E ancora: «Tu rinnina chi vai lu maru maru, ferma quant’u ti dicu dui paroli. Vorria jettara lu suspiru a mari ’ppe vidiri si mi rispunna lu mio beni...». Piera, che ha «la pelle come un’oliva e i capelli neri come una gazza». E, accanto a lei, Christian e la sua Berlino. Christian, che suona il pianoforte e intanto aspetta la madre che lo ha abbandonato e si è come dissolta nel nulla, in un passato che si è fermato, cristallizzato nei ricordi, dietro un muro che nemmeno la storia è riuscita ad abbattere. Christian, con gli occhi di mare e cielo, e «le dita che volavano sui tasti, come ali di rondine nera che grida, folle e crudele».

Una storia d’amore che avrebbe voluto innalzarsi oltre ogni muro, ma che finisce col suggellare il suo compimento con un’altra partenza, un nuovo abbandono. Piera fugge ancora: «Accanto a te la mia solitudine raddoppiava il suo peso e anche la tua doveva essere ormai insostenibile. È strano come i sentimenti a volte siano tanto profondi da scavare solchi incolmabili tra gli amanti. Io... non sono tornata. Ho continuato a fuggire, ad andare lontano. Come tanti, come tutti, anch’io ho tradito. Ma ad altro non penso se non a quell’altrove che è sempre il luogo dove nascono le fughe e i sogni, la terra dove si è nati e che si porta nel cuore».

 

La storia e le storie

Amore, dunque, ma non solo, non sempre. Concerto a Berlino è anche racconto di abbandoni, di separazioni, di guerre che non finiscono mai.

Attraverso le vicende dei singoli personaggi, frutto della sua ispirazione narrativa, la Viscone conduce l’attenzione del lettore verso gli accadimenti reali della storia, quella vera, di tutti: il crollo del Muro di Berlino, la doppia identità di una città divisa, il peso di un passato tragico che schiaccia il presente e tarpa le ali al futuro.

Nel 1989 crollò quella barriera che per quasi trent’anni aveva separato una città, un popolo, eretta dal regime comunista della Germania Est e simbolo della Cortina di ferro che aveva diviso l’intera Europa negli anni della Guerra fredda. Le immagini di quel momento sono presenti nella memoria di una Berlino in festa, di una Germania che finalmente tornava a essere un’unica nazione, di una Europa non più spezzata in due, di un mondo intero, tutto intorno, che improvvisamente sembrava davvero cambiare la sua faccia.

Ma se i blocchi di cemento hanno impiegato poco tempo a sgretolarsi, a rovesciarsi l’uno sull’altro in un cumulo di macerie polverose destinate a trasformarsi in souvenir per turisti, non può dirsi lo stesso per il peso incorporeo ma insostenibile di dolore, odio, paura e lutto che non ha smesso di gravare sul cuore e sui ricordi della gente, di quanti continuano a piangere la perdita dei propri cari, morti nell’estremo tentativo di oltrepassarli, quei blocchi di cemento, per trovare la libertà.

E invece hanno trovato la morte.

Dalla figura di Christian, dal suo cuore in attesa, emerge tutto questo. Sulle sue spalle, il peso di un passato che ha intrappolato i suoi affetti: «La storia della mia famiglia – dice – è la storia della Germania, di Berlino». La madre, sparita da qualche parte al di là del muro, nella Ddr, come risucchiata dal nulla. Il padre, al di qua del muro ma ormai anche lui irraggiungibile, smarrito in una lucida follia, costruisce e demolisce di continuo la casa in cui si è rinchiuso: «Distruggo dentro la mia casa, dentro di me, quello che la storia ha già distrutto fuori. I muri crollano solo materialmente, nessuno può cancellare i morti e le sofferenze che hanno provocato. E le guerre non finiscono mai. Le guerre non possono finire. Si possono solo evitare».

 

La terra e la madre

Amore e abbandono, lo dicevamo, sono i temi centrali attorno ai quali ruota questa storia intensa e disincantata, realistica e fiabesca, costellata dai preziosi momenti di introspezione dei suoi protagonisti. E mentre Christian rifugge e rincorre al tempo stesso la madre che lo ha abbandonato, attendendone pur sempre il ritorno; Piera fugge dalla sua terra, anch’essa madre, anch’essa traditrice, assente, matrigna, e la descrive con parole capaci di restituire l’incanto del «mare che lambisce la spiaggia consumandola di carezze», del «vento eterno tra le scogliere» e dei «ciclamini con il capo chino sotto le faggete dell’Aspromonte». E nel repentino spezzarsi dell’incantesimo si manifesta il dolore sempre vivo del distacco, dello strappo sofferto ma voluto, desiderato, lontano da quei luoghi «dove non cambierà mai niente», da «paesini fantasma» popolati da «uomini incapaci di essere liberi», per i quali «il giudizio della gente conta più della propria felicità».

E allora succede che si cerca di fuggire, di trovare un “altrove” di libertà, e si diventa rinnine, stranieri, dovunque. Anche se non sempre «si sceglie di essere rinnina, a volte la vita ti condanna ad una migranza di cui faresti volentieri a meno». È il caso di tanti bambini simili a quelli che si possono incontrare fugacemente nelle pagine di questo libro, tra i pensieri di Piera che quasi ce li fa vedere: c’è il piccolo Michele, di sette anni, che da quando «ne aveva quattro è vissuto alternativamente un anno qui [in Germania, Nda] e un anno in Sicilia, con i nonni» e che «comprende sia l’italiano che il tedesco, ma si rifiuta di parlare». E poi c’è Fabio, quindici anni, che parla «una lingua che è una via di mezzo tra l’italiano e il dialetto della sua regione» e crede «che nelle carte geografiche il celeste chiaro rappresenti le nuvole. [...] Anche i bambini possono essere rinnine cadute e si sa che, se una rondine cade, non vola più».

E poi altri ricordi, altri bimbi, che come in una brutta fiaba senza lieto fine vengono portati via da un uomo nero, divorati da un lupo cattivo prima che possano imparare a riconoscerlo, perché «a volte è difficile capire chi è il lupo. È il male sociale, è la mafia quel lupo» che un giorno si è preso il fratellino di Titti e non lo ha riportato più... Lo hanno ritrovato in un pozzo.

Ma come non è facile abbattere i muri che dividono il cuore, così è difficile spezzare le sbarre che lo imprigionano…

 

Eliana Grande

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 25, settembre 2009)


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