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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Dibattiti ed eventi (a cura di Natalia Bloise)

Che cosa resta alla sinistra nel paese delle destre
di Marco Gatto
Le ultime elezioni predispongono uno scacchiere politico mai sperimentato:
senza opposizione, il Paese si avvia verso una fase di netto conservatorismo


Ora che, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, comunisti e socialisti non vengono rappresentati nelle due camere, il sistema politico italiano si trova nell’illusione di un perfetto bipartitismo. I segni di questa chiara svolta verso l’americanizzazione della rappresentanza provenivano, in gran parte, dai proclami elettorali dei due maggiori partiti in lizza per il governo del paese. È inutile dimenticare che lo stesso Partito democratico – ma oserei dire il complesso delle idee nate durante le discussioni sul partito unico e, poi, durante la fase costituente – aveva più volte ribadito la necessità di mettere in discussione il Novecento delle ideologie, probabilmente dimenticando, e nello stesso tempo avallando, l’opinione diffusa e plausibile di una sinistra italiana sempre in metamorfosi e sempre più indirizzata verso il suo stesso auto-annullamento. Dall’altra parte, il berlusconismo abilmente voltava pagina, proponendo un’inedita e calibrata sintesi, favorita senz’altro dalla natura non-partitica di Forza Italia. E nel mentre la sinistra cosiddetta radicale cercava di rattopparsi con un fantomatico cartello elettorale, avviando un processo di revisione dei suoi stessi simboli storici, e cedendo in larga parte all’ondata di cancellazione della storia, il paese si trovava costretto a votare con una legge elettorale nettamente a favore dell’unico partito, oggi, radicato sul territorio, ossia quella Lega Nord che detiene sicuramente i ministeri più importanti del nuovo governo. È tempo di interrogarsi, a giochi ormai chiusi, non solo sul sorprendente – ma in verità prevedibile – successo di un partito con velleità indipendentiste, quanto piuttosto sul processo di mutazione della rappresentanza, che fa della Lega Nord, a conti fatti, l’unico partito in grado di difendere le cause del ceto operaio settentrionale. O, perlomeno, questi sono i dati allarmanti di un processo di allontanamento dello storico oggetto di analisi della sinistra di lotta dalla sua casa originaria. E, a sentire i commenti di chi, operaio, ha scelto il partito di Umberto Bossi, il problema è stato proprio il mutamento del referente e dell’oggetto sociale di riflessione, per cui dalla difesa degli interessi di classe si è passati a discettare sull’ecologismo, per dovere di alleanza, e sui diritti civili, sia degli immigrati – inseguendo un non meglio ristrutturato mito dell’internazionalismo – che degli emarginati sociali. Traducendo la dimenticanza in assenza di prassi politica.

Si è forse perso tempo, in questi anni, a discutere sulla scomparsa dell’operaio, quando invece, dietro il presupposto di una mutazione antropologica di fondo, il compito sarebbe stato quello di smascherare, ancora una volta, le molteplici contraddizioni di un sistema, quello neocapitalistico, che, oltre ai meccanismi di coercizione e affiliazione, utilizza l’arma dell’immagine, della pubblicità, facendo perno sull’ansia di un futuro incerto, segnata dal sempre più diffuso, e anzi costituzionale, precariato.

Non può sfuggire che il problema, più che pratico, è ancora una volta teorico: la sinistra, in questi anni, non è riuscita a individuare e comprendere la molteplicità dei soggetti sociali subordinati e, di conseguenza, non è riuscita a produrre, sul territorio, nelle sezioni, negli stessi organismi dirigenti, una piattaforma concreta per la risoluzione delle tante contraddizioni laceranti che investono un paese – non è retorica – senza futuro e senza speranze. Toccherà, si dice in questi giorni, ringiovanire un apparato di partito sclerotizzato su posizioni non retrograde, ma ancora una volta troppo avvinghiate al potere, troppo interessate a non perdere il consenso di quel ceto intellettuale che, nel bene o nel male, ha contribuito alla sconfitta dei valori della sinistra. Lo stesso Pd, illusoriamente e falsamente legato al mito di un annacquato zapaterismo spagnolo non ha fatto chiarezza sulla questione delle fasce deboli, ancorando il problema – in realtà per mascherarlo – ai rapporti interni fra riformisti e teo-dem. E si aggiunga la sorte del neonato e già defunto Partito socialista, la cui sconfitta va rintracciata semmai nella duplice, quanto infeconda, linea programmatica di una nostalgia craxista e di un ritorno a personaggi della Prima repubblica di dubbio valore, senza porsi il problema di una reale e ringiovanita prospettiva appunto socialista e perdendo tempo prezioso in un’alleanza poco proficua con i Radicali (forza notoriamente liberista).

In questo marasma, il Pd e il Pdl hanno vinto. Perché, fuori dalle resistenze degli anni passati, è prevalso un modello di politica che è naturale prodotto dell’Italia di questi anni, e del berlusconismo soprattutto. Ha vinto l’americanizzazione senza progresso di una società che è sempre pronta a nascondere le sue contraddizioni materiali, affidandosi al mito della buona volontà dei cittadini. Un’Italia quanto meno a due corsie e a due velocità: un Nord ormai votato alla crescita delle realtà locali, con una volontà indipendentistica accentuata e frutto di una precisa logica di mercato; un Sud che è specchio del sistema pubblico, logorato dalle guerre di mafia, e, ancor peggio, incapace ormai di fuoriuscire dalla gretta mentalità di accettazione del presente; un Sud – caso emblematico la Sicilia – ormai lasciato a se stesso e alle sue regole interne di eleggibilità dei candidati.

C’è un vuoto di rappresentanza nel “caso” europeo anomalo che è l’Italia del 2008. In controtendenza rispetto alle effettive realtà di sofferenza, non solo economica, del paese. La lotta per la legalità e contro le mafie, lo sviluppo del Meridione nell’ottica di un progresso civile, sociale ed economico, il rischio di un precariato agguerrito, l’abolizione del valore-lavoro, merito dei sindacati, la crisi di un sistema d’istruzione pubblico e l’assenza di prospettive per le eccellenze, una rappresentanza operaia ormai appannaggio del folklore parafascista della Lega Nord, la battaglia contro le nuove mode autonomiste: alla sinistra non mancava di certo un oggetto di analisi e un campo d’azione.

La sua scomparsa dal Parlamento, si è sentito dire spesso in questi giorni, può esserle benefica per ritornare alla concretezza dell’azione politica. Ma non si potrà dimenticare che ripartire significherà soprattutto fare i conti con quel passato – e vale a dire con quel Novecento che si vuole liquidare dando l’impressione di un eterno presente scevro da problemi e questioni incombenti – dal quale proviene, nelle sue ragioni profonde, l’annullamento di una prospettiva di progresso e di liberazione sociale. Lo spazio è ridimensionato rispetto alla grandezza delle possibilità sociali. Bisognerà dunque riflettere, leggere meglio gli eventi del passato e del presente, affidandosi probabilmente a una generazione nuova, che meglio sente i contrasti sociali e la crisi di prospettive, che può ridar vita a una rabbia benefica e a un conflitto più netto.

 

Marco Gatto

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 9, maggio 2008)

Collaboratori di redazione:
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