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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Civiltà letteraria (a cura di La Redazione) . A. XVIII, n. 199, aprile 2024

L’impetuosa
riscoperta
del proprio sé

di Ginevra Alibrio
Per Pellegrini, Iorfida
compie un viaggio segnato
dall’urgenza del ritorno


Il racconto di Eliana Iorfida ha il temperamento del grecale impetuoso che scombina le sorti di una «terra maliarda, che mentiva dicendo il vero e svelava verità nella farsa». È nóstos nel senso pieno del termine: ritorno. Alla terra, alle radici, all’infanzia. Il figlio del mare (Pellegrini, pp. 208, € 15,00) è un viaggio alla riscoperta di un sé perduto, sulle tracce di una vita abbracciata dal mare che torna indietro come il riavvolgersi di una pellicola quando «la Marea ha deciso che bisogna tornare là dove tutto è cominciato».
Un’opera con la dolcezza proustiana, nel rievocare malinconico d’un tempo perduto, e al contempo la crudezza verghiana, nella descrizione di una “terra dei vinti” fondata sull’ideale dell’ostrica. È la ricerca di un’appartenenza, come «marchio di fabbrica e pietra d’angolo».
All’alba di un giorno del 1984 c’è un velo da sposa adagiato sulla sabbia mentre una giovane violata si risveglia di fronte al mare tra petali di rosa. Una macchia rossa, segno di ciò che si è consumato. Presa in sposa dal mare, che durante la notte «l’aveva fatta donna» e «aveva deposto il suo seme di sale» come «una perla nella valva di una conchiglia socchiusa», novella Leda ingannata e posseduta. È l’inizio di una tragedia personale, della storia maledetta o «eterna naumachia» di Bianca Faragò, fatta tanto di rifiuti quanto di accoglienza, nel recupero del prezioso concetto di xenìa, i cui protagonisti sono loro, i “non allineati”, i “diversi”, estranei alle logiche chiuse e bigotte del piccolo paese.
Trent’anni dopo, un uomo parte in cerca del mondo perduto alle sue spalle, «talmente lontano che per vederlo può solo guardarsi dentro». Chi è davvero “il figlio del mare”, che di esso porta il nome? Quali tasselli mancano a Jo, «anima blu, sopraffatta da un gorgo che risaliva dal profondo per scombinare ogni cosa e ricomporla in un ordine nuovo»? Jo, con il suo «mondo liquido» interiore, si appresta a tornare insieme alla moglie Marta in terra d’infanzia per «riprendersi la sua vita interrotta», come se ciò fosse stato predetto da un oracolo.
Nella storia di Eliana Iorfida si interrogano i soffioni, fiori emblema dell’effimero e del distacco, e beate sono le eccezioni. È il racconto di madri come tartarughe, colme di amore ma dimenticate, «derubate di qualcosa, eppure tenaci nel rivendicare la propria diversità e il ruolo di streghe salvatrici».

La sposa del mare: «Nessuna Antigone a seppellire Antigone»
Atmosfere cristallizzate, descrizioni quasi evanescenti. Una realtà che diventa onirica attraverso il filtro degli occhi di Bianca e delle trame scomposte dei suoi pennelli. Dipinti tormentati come la sua anima borderline (letteralmente), perduta in un «universo sospeso» come le eroine decadenti; di estrema sensibilità perché «perennemente in bilico su una linea d’ombra, zona di confine tra il nulla e il tutto», passeggera intermittente di entusiasmo e apatia; traboccante di un’energia incontenibile che traspare tra le pennellate decise delle piccole tele che custodisce in soffitta; rivoluzionaria perché capace di concedersi «il lusso della sconvenienza, mandando in frantumi gli equilibri quotidiani con la spontaneità di gesti non calcolati».
Bianca, la «zingara dagli occhi di brace» così simile a Medea, con i suoi vagabondaggi tra le barche in cerca di tesori senza valore, perseguitata dal pregiudizio come la Marinella di De André, spenta nell’acqua come Ofelia ma con la determinazione di Antigone, derubata dell’innocenza della Vergine Maria.

Il richiamo proustiano dei luoghi e delle cose: «Tornare, un verbo a orologeria»
Lo stile di Iorfida è ricercato, nell’accostarsi musicale di parole che cullano il lettore proprio come il rumore del mare: sembra quasi di avvertire l’odore degli alberi di sambuco mescolato al gelsomino e al glicine, così come l’essenza di quella casa che è «un misto di cenere, spezie, sapone di Marsiglia e pane caldo»; sembra quasi di vedere le distese di papaveri e ginestre e la luna oltre le finestre spalancate nelle atmosfere notturne intrise di salsedine che profumano di menta, artemisia e legni aromatici. Nelle pagine de Il figlio del mare c’è sinestesia, un senso di osmosi. I dati sensoriali generano “intermittenze” (per dirla in maniera proustiana), evocando ricordi così nitidi da sembrare tangibili.
Metafore letterarie si intrecciano alla descrizione dei fatti di cronaca che hanno segnato gli anni Ottanta e Novanta, «in quegli anni difficili, durante i quali l’Italia intera puzzava di piombo, esplosivo e polvere da sparo», nel mutamento epocale dovuto alla diffusione della tv generalista. Il viaggio in macchina come leitmotiv, su ispirazione pasoliniana, utilizza le tappe per rievocare gli avvenimenti. Una narrazione, quella di Iorfida, tutt’altro che banale, che affascina e intriga con eleganza e capace variatio, calibrando bene detto e non detto nell’esposizione di fatti di estrema delicatezza.

Il «Sud sottosopra»: «Dietro ogni porta, un vaso di Pandora e una scatola di sogni»
La Calabria, «chiusa in se stessa come una rosa del deserto» che conserva gelosamente i suoi luoghi fissandoli in immutabile attesa per accogliere i figli che vanno e vengono. Una terra «di finali già scritti», intrisa di ingiustizie viscerali ammantate da “benevolenza”, allora incapace di accettare il “diverso”, intrappolata in schemi rigidi di pregiudizi e superstizione, tardiva all’emancipazione. Una «patria di voltagabbana» ferma al retaggio rurale, che guarda e tace, capace di pubbliche condanne perché vige la legge dell’apparenza e il terrore del giudizio. Una terra che proverbialmente dovrebbe accogliere e invece respinge per paura del cambiamento, spingendo dei genitori a rinnegare una figlia perché violata. Questo è il destino di Bianca, un destino da «ripudiata assieme al suo seme di gramigna per non inficiare il raccolto buono», trattata come “erba infestante” della sua stessa casa.
Eppure al Sud la xenìa esiste davvero, l’ospitalità nei confronti dello straniero che i Greci annoveravano tra i valori fondamentali persiste. Emblema ne è il solitario pescatore Palmiro, gentile, col suo affabile cane sordo da un orecchio e la casa sommersa da pile di libri, che ama il suo mestiere perché «in quella terra miserabile, conservava il senso profondo del sacrificio e del vivere in simbiosi con la natura»; esiste in Fiorella, insegnante “in missione”, in cerca di anime fragili da salvare, e infine nella bisnonna Lina, deus ex machina della vicenda e specchio di Bianca, «una tartaruga ricurva su abiti neri, con un ampio grembiule ai fianchi e una crocchia intrecciata dietro la nuca», amante del vino rosso.

Il magnetismo della terra ancestrale: «Credere al miraggio, non al sangue»
Nei rimandi scelti da Iorfida sacro e profano si intrecciano, proprio come nella tragedia greca, di cui l’opera rispetta lo schema (parodo, stasimi ed episodi, epilogo) nella commistione di lirica e prosa, tra voce corale e voce sola, che a tratti assolve, a tratti incrimina, a tratti compatisce. Una persistente fede, «che crede, toglie e dà nella sera della tormenta e dei fuochi fatui». Uno scenario “alla Pavese” che risulta un «microcosmo pur sempre ovattato» rispetto alla corsa al progresso del mondo circostante; una quotidianità intrisa di rituali ancestrali e rimedi contro il malocchio, depositaria di storie mistiche, al limite del reale ma venerate come tradizioni, «discorsi sospesi tra fiaba e realtà, canzoni fuori tempo, scoppi di risa come fuochi d’artificio».
Il ritmo lento della vita scandito dalle fasi lunari e dalla marea, accompagnato dalla “litania” del rosario e dal vociare popolare, in un tracciato di edicole votive, case arroccate, vicoli stretti e panni stesi sui balconi, gruppi di anziani radunati in piazza per giocare a briscola. Case disseminate di ceri, altarini e madie cosparse di farina. Il Sud come luogo affine alle anime tormentate. E il mare, come elemento prescelto, nelle sue mille sfumature e nel suo temperamento altalenante così affine all’inclinazione caratteriale dei protagonisti.
«Beato ogni essere in direzione opposta alla tua». Chi appartiene a cosa? Cosa appartiene a chi? Jo appartiene al mare, e «ciascuno di quei figli plasmati nel sangue, nell’argilla e nella salsedine gli assomigliava». Ogni uomo è una tavolozza, metafora del caso, e le miscele ricreate su di essa sono frutto del libero arbitrio. A ricordarlo, rimane il suono di quella cavigliera da zingara usurata dal tempo e il suo tintinnio di amuleti, campanelli e conchiglie.

Ginevra Alibrio

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVII, n. 193, ottobre 2023)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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