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Anno II, n° 9 - Maggio 2008
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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno II, n° 9 - Maggio 2008

Zoom immagine Il cavaliere e la morte
di Leonardo Sciascia
mantiene l’attualità

di Saverio Romano
L’immagine della Sicilia come metafora
diventa Calabria, a 20 anni di distanza


Il cavaliere, la morte e il Diavolo è una stampa dell’incisione di Dürer che il vice ha attaccato alla parete del suo ufficio, proprio di fronte alla sua scrivania. Il diavolo, però, è stanco. Ormai gli uomini sono diventati più bravi di lui nel concepire il male o, forse, il diavolo è semplicemente un’invenzione «perché l’acqua santa sia più santa». Allora il libro, il più autobiografico di Sciascia, prende semplicemente il titolo: Il cavaliere e la morte, che compie vent’anni.

Scritto, infatti nel 1988, appena un anno prima della morte dello scrittore, il romanzo diventa l’occasione per un amaro parallelismo tra il cancro che consuma il protagonista e i cancri che devastano la società; tra la vita degli uomini e la vita del pianeta peraltro  legate in maniera indissolubile. Tant’è vero che  il vice, a cui piace il caffè, fuma tantissime sigarette ed è ammalato di tumore proprio come Sciascia, e cercando un biglietto in un bidone dell’immondizia, viene colto da un pensiero inquietante: «che tra le immondizie l’uomo si avviasse a morire».

Ed è l’immondizia nel senso materiale del termine a devastare il pianeta, ma quello che più duole a Sciascia è soprattutto il progressivo deperire del sentimento e del pensiero, l’uomo che ha ormai rinunciato all’amore per se stesso e per gli altri (sentimento), ha anche rinunciato all’amore per la verità (pensiero). C’è nel mondo una sorta di meccanismo inflazionario: «la moneta del vivere ogni giorno perdeva valore; la vita intera era una specie di vacua euforia monetaria senza più alcun potere d’acquisto. La copertura oro – del sentimento e del pensiero – era stata dilapidata; le cose vere avevano ormai un prezzo irraggiungibile, addirittura ignoto».

 

Il cavaliere e la morte: l’evoluzione del potere

Il libro si presenta sotto la veste di racconto poliziesco perché questa è la forma di scrittura preferita da Sciascia; ma racconto poliziesco è semplicemente il contenitore, il pretesto che consente all’autore di trasmettere le riflessioni, che da intellettuale illuminista ha maturato nel corso di un’intera vita, sul momento storico che sta attraversando l’Italia, sull’evoluzione del potere e sul controllo totale che esercita sul Paese.

Il potere cambia volto e forma: quello fascista consentiva l’esercizio della criminalità solo a se stesso, mentre quello attuale è più schizofrenico. In realtà nella sua evoluzione, nel passare da un regime a un altro è come se si fosse sdoppiato, è diventato più subdolo, ma sempre potere è rimasto. E qui l’analisi è lucida: la chiave di lettura di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. C’è un potere apparente, visibile, “enumerabile”: la politica, le grandi imprese, il capitale. Ma c’è pure l’altro, di potere, quello invisibile, sommerso, che sta sott’acqua. E si può pensare alle logge coperte, alle mafie, ai trafficanti d’armi, di droghe e di veleni, in una: ai trafficanti di morte. I due poteri talvolta litigano. Quando il potere criminale affiora in superficie per necessità si può vedere la lotta tra i due poteri e come quello visibile cerchi di ricacciare l’altro sott’acqua. Sciascia da siciliano è un profondo conoscitore di questi fenomeni, la Sicilia è stata per lungo tempo la patria della criminalità organizzata e delle sue collusioni con il potere politico ed imprenditoriale. Lo scrittore, dall’analisi di quanto andava accadendo nella sua terra d’origine, ha tratto riflessioni per interpretare la storia dell’Italia intera e, più in generale, del mondo occidentale.  La Sicilia come metafora appunto. Ma, siccome la Linea della Palma – altra geniale intuizione di Sciascia – si sposta verso Nord, oggi potremmo parlare della “Calabria come metafora”. Le cronache odierne ci raccontano di una ’Ndrangheta che ha surclassato persino  Cosa Nostra  in quanto a potere criminale, capacità finanziarie e possibilità di condizionamento del territorio. La Calabria è alla ribalta dei media nazionali per le inchieste giudiziarie che cercano di far luce sulla degenerazione della politica, sul sistema degli appalti truccati, sulle collusioni tra politica e criminalità organizzata. Il potere si lascerà processare? Le inchieste arriveranno mai a conclusione? A confermare l’avanzata della linea della palma  verso nord, dalla Sicilia verso la Calabria, il palazzo della Procura di Catanzaro è diventato il nuovo “palazzo dei veleni” e, come negli anni Ottanta del secolo scorso quello di Palermo, è  animato da “corvi” e “talpe”. Anche nel capoluogo calabrese, come a suo tempo in quello siciliano, abbiamo dovuto registrare fughe di notizie, accuse reciproche tra magistrati,  avocazioni di indagini. Una grande nebbia che non riesce a diradare nemmeno il Csm, massimo organo della giustizia in Italia. Nel frattempo sono stati trasferiti magistrati, prefetti e persino vescovi impegnati sul fronte della lotta alla mafia, alla malapolitica e alla malaburocrazia. Quando sarà consentito  sollevare il velo sulle  vicende che si sono svolte fuori e dentro le stanze della Procura di Catanzaro, probabilmente ci tornerà alla memoria il commento che il Manzoni stesso fa alla scena dei Promessi sposi nella quale Renzo e Lucia, nonostante il “parere contrario” di don Rodrigo, si presentano in casa di don Abbondio per chiedergli di unirli in matrimonio: «In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo». Così, purtroppo,va ancora oggi.

 

La grande macchinazione del depistaggio

La storia raccontataci da Sciascia ne Il cavaliere e la morte muove dall’assassinio di un importante uomo d’affari: l’avvocato Sandoz. Nell’omicidio è implicato un grande capitano d’industria: il presidente Aurispa. Costui è talmente potente da essere quasi intoccabile. E in realtà la polizia, di cui il vice fa parte, non effettua alcun’indagine nella direzione di Aurispa, ma prende per buona un’indicazione dello stesso: l’assassinio è stato compiuto da un sedicente gruppo rivoluzionario denominato “I figli dell’Ottantanove”. Il vice si pone una domanda enigmatica: «sono stati i figli dell’ottantanove a provocare il delitto, oppure è stato il delitto a far nascere i figli dell’ottantanove?». Il capo – come spesso accade, ovviamente è servile al questore, al prefetto, al ministro, insomma al potere visibile, enumerabile – non ha alcun dubbio: accetta la prima ipotesi. Per il vice è evidente che quella sigla terroristica nella realtà non esiste, è stata inventata ad hoc per depistare l’opinione pubblica. Probabilmente Sciascia sta reinterpretando i tanti  esempi di depistaggio cui, suo malgrado e dolorosamente, ha visto svolgersi in Italia: dai misfatti legati alla strategia della tensione – che vide la nefasta collaborazione tra servizi segreti deviati, mafia, logge massoniche anch’esse deviate nonché coperte (il potere occulto, invisibile) – alle vicende legate al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro, al caso “Gladio” e si potrebbe continuare.

E il ruolo della magistratura? Anche allora inchieste aperte, avocate, chiuse, di nuovo riaperte e poi eventualmente prescritte. Sono passati più di quarant’anni. Verità processuali? Quasi nessuna.

Una parte decisiva in questo gioco al massacro della democrazia l’hanno svolta e la svolgono tuttora i media. Alla fine del romanzo compare la figura di  G. G. (il Grande Giornalista) a simboleggiare la funzione della stampa in una vicenda che vede protagonisti i cosiddetti “poteri occulti”. In un colloquio privato G. G. confessa al vice di avere il sospetto di trovarsi di fronte a una grande macchinazione: i figli dell’Ottantanove sono una pura e semplice invenzione. Ma il giorno dopo, un articolo a firma di G. G., accusando la polizia di non aver saputo prevenire l’assassinio dell’avvocato Sandoz commesso da un gruppo terroristico, accredita la tesi dell’esistenza e della pericolosità dei figli dell’Ottantanove.

 

Dalla narrazione alla realtà

Nei mesi scorsi è stata divulgata la notizia sul controllo che Mediaset esercita da tempo sull’informazione Rai. I media ci riportano le reazioni indignate di autorevoli esponenti del mondo politico e istituzionale. Il teatrino della politica si agita  invocando a gran voce indagini e commissioni parlamentari d’inchiesta. Ci si ricorda solo ora che bisogna intervenire con una riforma legislativa idonea a garantire la libertà di stampa. Intenzione, quest’ultima, che abbiamo sentito proclamare, inutilmente (per noi), troppe volte.

Staremo a vedere. Finora l’unico fatto certo è che una riforma legislativa in materia c’è stata: quella fatta dal governo Berlusconi. Il lupo che si è reso garante dell’incolumità dell’agnello. Risultato? Un bell’esempio di “riforma ad personam”, che finora nessuno ha trovato il coraggio di modificare.

Oggi, in Italia, l’esercizio del “pessimismo della ragione” è un dovere per ogni cittadino.

 

Saverio Romano

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 9, maggio 2008)

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