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Direttore editoriale: Mario Saccomanno
A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Un bando
di Almirante
annuncio di morte
di Mario Saccomanno
Per 4Punte la ricostruzione
del processo al fondatore del Msi
Giorgio Almirante fu tra i fondatori del Movimento sociale italiano (Msi), un partito neofascista nato nel 1946. Come tale, lo scopo primario era ridestare quell’ideologia che, una volta affermatasi negli anni Venti del Novecento, aveva portato l’Italia a vivere un lungo periodo nefasto, culminato con le abominevoli leggi razziali e con la Seconda guerra mondiale.
Durante il ventennio Almirante fu segretario del comitato di redazione de La difesa della razza, un quindicinale antisemita che promosse e incoraggiò le leggi razziali fasciste. Inoltre, partecipò alla campagna del Nordafrica e, in seguito, ricoprì il ruolo di funzionario della Repubblica sociale italiana (Rsi).
Almirante si macchiò di enormi responsabilità, molte delle quali venute chiaramente alla luce soltanto dopo svariato tempo. È il caso di un manifesto che firmò nel 1944, il cui contenuto rappresentava a tutti gli effetti un ultimatum, una dichiarazione di guerra nella guerra: chi non si fosse arruolato nell’esercito repubblichino e avesse scelto la via dei monti diventando partigiano, sarebbe andato incontro a una morte senza processo.
Chiunque poté leggerlo interamente circa trent’anni dopo, il 27 giugno 1971, quando apparve su l’Unità e su Il Manifesto. A seguito della pubblicazione, Almirante scelse in modo incauto di querelare le due testate e i loro direttori responsabili Carlo Ricchini e Luciana Castellitta.
Il testo L’avrai, camerata Almirante la via che pretendi da noi italiani (4Punte edizioni, pp. 144, € 15,90) scritto dallo stesso Ricchini raccoglie proprio la lunga e articolata cronaca del processo che si concluse soltanto nel 1978. Il libro, oltre a contenere un’attenta ricostruzione degli eventi, ha un altro obiettivo: salvaguardare il presente.
Infatti, i vari capitoli mirano a far comprendere come soltanto dipanando le trame delle storia si può sviluppare un grado di coscienza tale da far sì che si possa diventare capaci di riconoscere il ripresentarsi sotto nuove forme delle brutture che hanno macchiato il passato.
Il “manifesto della morte”: un sigillo per delitti, stragi e rappresaglie
Nel testo che si sta presentando vengono utilizzati due aggettivi per definire gli ultimi anni di guerra, il periodo che va dal 1943 al 1945, che segnarono l’Italia. Il primo è terribile, che sottende tutte le orribili e tristemente note vicende che scossero la Penisola. L’altro è esaltante poiché, sempre in quel lasso di tempo, si svolse la Guerra di liberazione che spazzò via il fascismo, aprendo a un nuovo capitolo della storia italiana.
Di sicuro furono anni che, analizzandoli, portarono in superficie diverse figure, spesso molto distanti tra loro. Senza alcun dubbio, un ruolo da comprimario fu quello che recitò Giorgio Almirante. Il suo impegno nella Rsi fu quello di un funzionario laborioso e diligente.
A testimonianza di questa affermazione è un manifesto che apparve nella primavera del 1944 nelle zone del grossetano, in Toscana. In quel momento storico, quei luoghi risultavano occupati dai soldati tedeschi che si erano ritirati dal Lazio. Sui fogli affissi in diversi paesi figuravano stralci di un decreto legge della Rsi, il regime collaborazionista della Germania nazista che era nato, per volere di Hitler, nel 1943 nell’Italia settentrionale e centrale dopo l’armistizio di Cassibile e la susseguente fuga di Vittorio Emanuele III.
I contenuti erano rivolti ai giovani e ai militari che avevano deciso di spostarsi sui monti e diventare partigiani. A tutti loro venivano concessi 30 giorni di tempo per consegnarsi ai fascisti e ai tedeschi. Altrimenti, così come si leggeva sul bando: «Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione alla schiena».
Nella zona della Maremma quell’ultimatum venne subito definito “manifesto della morte”. La firma che ufficializzava i contenuti era proprio quella di Almirante. Il testo di Ricchini mostra in prima battuta come quel manifesto fu il sigillo «per migliaia di delitti, stragi, rappresaglie». Di sicuro, a ben vedere, alla Rsi occorrevano soldati. Da qui si può capire il bisogno di affidarsi ai bandi di reclutamento e ai conseguenti fogli affissi in diversi luoghi.
La storia riferisce che il generale e gerarca fascista Rodolfo Graziani riuscì a formare quattro divisioni che, sin dalla fine del 1944, subirono diversi abbandoni di massa. Gran parte degli uomini, affiancati dalla Guardia repubblicana e dalle Brigate nere, vennero impiegati «nella guerra contro i partigiani e le popolazioni che sostenevano i resistenti, nei rastrellamenti delle città e dei paesi per catturare uomini da inviare nei campi di concentramento, per farli schiavi degli industriali tedeschi». Solo una parte striminzita venne inviata al fronte per combattere l’esercito alleato.
La pubblicazione sui giornali nazionali
Come affermato in apertura, il documento contenente l’ultimatum firmato da Almirante venne ritrovato dopo molti anni e fu pubblicato su l’Unità e su Il Manifesto nel 1971. Inevitabilmente, fu data estrema importanza ai contenuti di quel bando poiché quel materiale rappresentava, come afferma Ricchini nelle pagine del libro, «una prova della partecipazione diretta di Almirante alla repressione antipartigiana».
Nei capitoli del testo, tra le varie ricostruzioni accurate, che si legano sempre alla cornice entro cui si svolse sia l’affissione del bando, sia la pubblicazione dello stesso sulle due testate, si può leggere anche quanto scrisse, sempre su Il Manifesto del 27 giugno 1971, il giornalista Luigi Pintor. Nell’articolo al vetriolo si legge: «Che Almirante, segretario del MSI, sia un fucilatore; che gli altri capi del MSI siano della stessa pasta; che dovrebbe essere in galera e non in circolazione: questo lo sapeva già chiunque abbia più di 40 anni senza bisogno di leggere il bando criminale».
Nel prosieguo, con lo stesso tono, Pintor marcava l’importanza del ricordo, da intendere come tassello decisivo per una comprensione più approfondita e dettagliata di «che cosa sta sotto una democrazia costituzionale e come essa sia destinata, se non avanza una lotta socialista, a degenerare».
Almirante ricorse alla denuncia penale. Così, Luciana Castellina e Carlo Ricchini, rispettivamente direttori responsabili de Il Manifesto e l’Unità vennero chiamati a rispondere per diffamazione. Durante il processo, Almirante passò in poco tempo da accusatore ad accusato. Le prove nei suoi riguardi, attentamente riportate nel libro proprio da Ricchini, furono schiaccianti.
Eppure, soltanto dopo sette anni si arrivò alla sentenza definitiva. Il risultato vide l’assoluzione per le due testate, ma non portò a gravi conseguenze per Almirante. Infatti, non seguirono dimissioni, ma continuò sia a svolgere il ruolo di segretario del MSI, sia la sua vita da parlamentare fino al termine dei suoi giorni.
Una memoria nazionale ferita: bisogna reagire
Sul ruolo di Almirante a Salò non si indagò a fondo nei primi anni che succedettero alla Seconda guerra mondiale. Il clima peninsulare di quel periodo parlava di un’Italia distrutta, di una popolazione affamata e di un’economia che verteva anch’essa in una situazione disperata. Così, i gruppi politici si sforzarono di ricostruire attraverso una fase di pacificazione di cui l’amnistia voluta dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti ne fu la testimonianza più evidente.
A conclusione di questa disamina si può prendere come punto di riferimento la Postfazione al testo firmata dall’avvocato Emilio Ricci, vicepresidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). Nei contenuti viene sottolineato un aspetto fondamentale che si lega a stretto giro con le finalità mostrate da Ricchini e da 4Punte edizioni, tutte gravitanti attorno al tema della memoria storica.
Infatti, scrive Ricci, discutendo proprio dei modi attraverso cui vengono passati in esame gli avvenimenti che hanno segnato il secolo scorso: «Oggi si ricordano, di allora, anche lo spessore dei dirigenti politici e le loro capacità oratorie. Si dicono frasi come “non ci sono più personaggi del calibro di Berlinguer, Andreotti, Almirante”. Già il fatto che si accomunino queste figure sta a significare come ci sia un’evidente carenza di memoria storica».
Così, il testo è un costante invito a interrogarsi, a informarsi su quanto accaduto affinché si giunga a un grado di coscienza tale da far comprendere le differenze che intercorrono tra le figure che hanno segnato la storia italiana.
Da questo punto di vista, anche tutte le numerose appendici al libro di Ricchini sono un ottimo strumento per aiutare qualsiasi lettore a inquadrare con più attenzione le vicende storiche legate al periodo e alle personalità che caratterizzarono il processo discusso in dettaglio nel testo.
Almirante rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per diverse persone. Del resto, nell’ultimo periodo non sono stati sporadici gli episodi che hanno visto con insistenza la richiesta di intitolare strade o parchi al funzionario del regime.
La memoria storica sottende la riflessione e invita a prendere posizione una volta studiati a fondo gli episodi che hanno segnato un determinato periodo. Così, a partire dall’analisi delle varie fasi del processo, Ricchini mostra le colpe di cui Almirante si è macchiato. Per questo motivo, non manca di sottolineare che fu anche il segretario di redazione della rivista La difesa della razza.
Come accennato a inizio articolo, si trattava di un quindicinale che risultò essere uno dei principali strumenti antisemiti del regime fascista. In uno degli articoli pubblicati nel 1938 vennero esposti gli elementi cardine di quelle che da lì a poco sarebbero state le celebri e infauste leggi razziali.
I contenuti sono riportati in Appendice al libro. In calce è riposto un appunto che chiarisce cosa abbia significato e quale sia stato il prezzo pagato dal mondo intero. Così, risulta proficuo concludere riportando proprio quanto scritto, parole che spingono a riflettere: «Con questo manifesto si ponevano le premesse per la “pulizia” delle razze “inferiori”, degli oppositori politici (che erano comunque in gran parte già stati eliminati nei primi anni della dittatura), nonché a un disegno di dominio sul mondo: il presupposto ideologico di quello che poco dopo sarebbe accaduto in Europa, e che ebbe nel nazifascismo l’unico responsabile. Il prezzo sarebbe stato di oltre sessanta milioni di morti, di certo il punto più basso della storia del genere umano».
Mario Saccomanno
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 183, dicembre 2022)