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A. XVII, n.185, gen-feb 2023
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Politica ed Economia (a cura di La Redazione) . A. XVII, n.185, gen-feb 2023

Piante
dalle molte
applicazioni

di Mario Saccomanno
Per Nep un testo su come
l’uomo dipenda dalla natura


Il termine Artemisia rimanda a un genere di piante per lo più erbacee il cui intreccio con le vicende umane sussiste in modo marcato da secoli.
Etimologicamente il rifacimento più immediato riguarda Artemide, la dea greca degli animali, della foresta, dei boschi e della caccia, oltre che protettrice della pudicizia e della verginità.
Un’altra possibilità rinvia ad Artemisia I, sovrana succeduta a suo marito e fratello Mausolo, satrapo della Caria, la regione collocata nell’Anatolia.
Proprio in ricordo del suo predecessore la regina fece costruire il celebre mausoleo di Alicarnasso.
Al di là dell’origine del termine, in cui figura anche l’ipotesi che intreccia le Artemisie alla parola greca artemes, che letteralmente significa “sano”, evidente rimando a quelle proprietà medicamentose di cui si dirà ampiamente, è rilevante notare come l’aspetto delle piante sia umile, non particolarmente bello, specialmente se confrontato a una rosa o un tulipano. Forse, proprio per questo motivo, non sono state decantate nel corso del tempo con pari intensità.
Eppure, soffermarsi su questo genere di piante, significa anche, e soprattutto, mettere in risalto come diverse specie di Artemisia abbiano trovato applicazione in svariati campi, dalla medicina passando per l’uso alimentare e ornamentale. Senza alcun dubbio, l’aspetto più rilevante è riscontrare come una di queste piante, l’Artemisia annua, rappresenti oggigiorno una grande speranza nella debellazione della malaria, la malattia infettiva che per morbilità e mortalità è seconda solo alla tubercolosi.
A chiarirne in modo puntuale diversi aspetti su quanto finora affermato è Giancarlo Marconi nel testo Il dono di Artemide. Le Artemisie: dal Nobel per la cura alla malaria ai paradisi artificiali degli impressionisti (Nep edizioni, pp. 162, € 25,00). Ovviamente, così come emerge dal titolo, accanto alla ricostruzione accurata della storia e delle proprietà delle Artemisie, l’autore non manca di chiarire i tratti della stagione dell’Assenzio, periodo saldamente interconnesso a una fitta schiera di artisti francesi che hanno caratterizzato anche e soprattutto la pittura, la musica e la letteratura ottocentesca.

La scoperta del Qighaosu
Nel 1966, la Repubblica popolare cinese (Rpc) diede il via alla Rivoluzione culturale attraverso cui Mao Zedong riprese pienamente il comando del Partito comunista cinese (Pcc) e dello Stato.
Nel testo che si sta prendendo in esame, Marconi mette ben in evidenza come per tutto il decennio successivo gli intellettuali, così come gli scienziati, si trovarono in seria difficoltà poiché vennero inseriti «nell’ultima delle nove liste nere e costretti a lavori di “riabilitazione”, spesso degradanti».
Anche il marito di Tu YouYou, all’epoca ricercatrice, il cui ruolo in queste vicende è determinante, fu obbligato a lavorare nei campi, in un contesto ben differente dalla sua Pechino e dalla sua occupazione di ingegnere. Per comprendere il legame tra Tu, le Artemisie e la malaria occorre tenere in forte considerazione che tra gli alleati della Rpc figurava il Vietnam del Nord, che, com’è noto, all’epoca era in guerra col Vietnam del Sud e con gli Stati Uniti.
È in quell’aria specifica che il numero delle vittime causate dalla malaria era in costante aumento. Così Mao si propose di bloccare l’epidemia organizzando un progetto di ricerca segreto chiamato 523. La scelta del nome rimandava semplicemente alla data dell’inizio di quei lavori incessanti che vennero compiuti sulle molecole: il 23 maggio 1967.
Nei due anni successivi non venne raggiunto alcun obiettivo determinante. Fu allora che entrò in scena proprio Tu, che diresse il progetto non appena Mao si rivolse all’Accademia di medicina tradizionale di Pechino.
Occorre considerare che il presidente del Pcc, per i loro legami intessuti col popolo e per la loro devozione alla causa, considerava i vecchi medici e guaritori cinesi al pari di proto-marxisti. Così, spiega Marconi, avendo sempre avuto un occhio di riguardo per la medicina, Mao impose anche una serie di corsi popolari da seguire ai nuovi medici, ai chimici e ai farmacologi.
È questo il terreno su cui prese corpo soprattutto la seconda parte del progetto 523. A dare un senso lampante a quelle costanti ricerche fu la scoperta del Qighaosu (Artemisina), un composto estratto dal Qinghao (Artemisia annua). L’avvenimento legò indissolubilmente il nome della ricercatrice cinese alla lotta di quella «malattia tanto terribile quanto antica» il cui veicolo di trasmissione è una zanzara femmina del genere Anoplheles.

Dallo scetticismo al Premio Nobel
Tu esaminò 2.000 ricette appartenenti alla ricca tradizione medica popolare cinese. Insieme ai suoi assistenti mise a punto un numero consistente di preparati naturali che testò sui topi contagiati dalla malaria. Fu così che l’estratto dell’Artemisia annua, che veniva consigliato in una ricetta di quasi duemila anni prima, mostrò una lieve efficacia contro la malattia.
Da lì, utilizzando un solvente differente, Tu fu in grado di raggiungere il pieno obiettivo delle sue ricerche sui topi e sulle scimmie. In seguito, si offrì volontaria per scongiurare in maniera definitiva eventuali conseguenze indesiderate sull’uomo.
I risultati raggiunti vennero resi pubblici soltanto nel 1977 tramite un articolo che uscì in anonimo. La scelta mirava a sottolineare il lavoro d’insieme, il cui valore nella società cinese era nettamente superiore a quello del singolo individuo.
Si dovette attendere fino al 1981 per avere uno studio completo in lingua inglese dei componenti della pianta Artemisia annua. Da lì in avanti, l’Artemisinina «fu individuata come il composto realmente efficace nella lotta contro la malaria». Ancora oggi, questo farmaco prodigioso risulta essere «il più potente antidoto esistente contro questo flagello».
Eppure questa scoperta così rilevante fu accolta in Occidente con un grado di scetticismo notevole. Ci volle ancora molto tempo prima che l’Oms consigliasse la terapia con Artemisinina per difendersi dalla malaria. Inoltre, soltanto nel 2011 Tu ricevette i giusti riconoscimenti. Fu allora che la Lasker Foundation le assegnò il Clinical Medical Research Award. Si trattò del preludio al Nobel per la Medicina che le venne conferito nel 2015.

Applicazione in svariati campi
Così, per ovvie ragioni, nel testo è dedicato ampio spazio all’approfondimento di aspetti rilevanti legati alla malaria, malattia che continua a uccidere milioni di persone ogni anno, in particolare i bambini di età inferiore ai cinque anni che vivono nelle zone più povere del mondo.
Marconi non manca di rispondere a molteplici domande frequenti su questa malattia. Per esempio, si chiarisce come siano motivi prettamente economici a far preferire l’importazione dell’Artemisinina direttamente dalla Cina. Infatti, per estrarre il principio attivo è necessario disporsi di una metodologia molto efficace che richiede alti costi. Da questo aspetto deriva la scelta di non avvalersi di una politica agricola che possa favorire la coltivazione dell’Artemisia annua sul terreno italiano.
I contenuti del libro passano in rassegna le specie dell’Artemisia, molte delle quali sono «endemiche ad aree più o meno vaste», come l’intero sottogenere Tridentatae, che caratterizza l’Ovest degli Stati Uniti, l’Artemisia molineri, presente in Francia oppure l’Artemisia negrei in Marocco.
Nelle pagine del libro viene chiarito a più riprese come le Artemisie siano state utilizzate in diversi campi. Il loro utilizzo ha riguardato scopi medici, eduli e aromatici. Non è mancato un forte interesse storico, economico e botanico.
Negli accurati resoconti offerti dall’autore emerge come la pianta fosse lodata già nel Medioevo. Considerata erba primigenia, «capostipite della grande tribù delle semplici», era richiesta sovente in Inghilterra, luogo in cui veniva chiamata Herb royal o Lad’s love. Nel testo Hortulus, Wahalafrid Strabo, monaco erudito, parlava di molteplici virtù contenute nell’Artemisia, tante quanto le sue foglie.
Invece, per i primi cristiani, a rendere più faticoso il percorso del serpente che indusse Eva al peccato originale, fu proprio un’Artemisia. È questo aspetto che fa scaturire le numerose associazioni tra la pianta e il cammino intrapreso, da poter intendere sia in senso fisico, sia in senso spirituale. In questo modo, le Artemisie sono diventate la protezione per i viaggiatori.
In merito Marconi evidenzia come si tratti di una leggenda tramandata fino ai tempi moderni, in particolare se si considera che «sulle fiancate delle carrozze venivano dipinti rametti di Artemisia come apotropaico contro gli incidenti, usanza che si è protratta fino agli inizi del ’900, quando le prima automobili messe in commercio avevano una fronda di Artemisia disegnata sulla fiancata».

L’Assenzio, la fata verde che affascinò una fitta schiera di artisti
Marconi si concentra anche sulla pianta del genere di Artemisia più citata nel mondo antico: l’Artemisia absinthium. Dalla macerazione delle foglie, con l’aggiunta di anice verde e di semi di finocchio, oltre a varie spezie, che mutano in base al luogo di produzione, ne deriva un celebre distillato, l’Assenzio.
Il nome deriva dal termine greco apsìnthon, “privo di dolcezza”. Le origini sono da ricercare nella fine Settecento, quando Pierre Ordinaire, un medico francese rifugiatosi in Svizzera dopo le sconvolgenti azioni rivoluzionarie, distillò la specie dell’Artemisia insieme ad altre erbe come rimedio per i suoi pazienti. Marconi chiarisce come la ricetta venne adottata da Henri-Louis Pernod, che fondò la prima distilleria nel 1805 in Francia, che divenne la famosa Pernod et fils.
La stagione dell’Assenzio giunse al suo picco tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando divenne la bevanda più diffusa «tra la borghesia e il “demi-monde” con più di 2 milioni di litri consumati annualmente in Francia».
Sempre in Francia, il consumo attestato arrivò a 36 milioni di litri nel 1910 e a 220 nel 1912. Si trattò di una moda alquanto diffusa, specialmente tra gli artisti. Anche su questo aspetto Marconi è molto esaustivo nella spiegazione: «In pratica, si usavano dei piccoli bicchieri con una strozzatura che indicava il livello da riempire con il distillato, e dei cucchiaini forati su cui si poneva una zolletta di zucchero e dell’acqua gelata: questa scendendo goccia a goccia nel liquido posto nel bicchiere, provocava la formazione di una sospensione colloidale opalescente, chiamata “la louche”».
È stato già sottolineato in apertura come l’Assenzio si legò indissolubilmente all’Impressionismo e a quella fitta schiera di celebri romanzieri francesi. Dalla “fata verde” si lasciarono affascinare autori dal calibro di Paul Verlaine, Mary Shelley, Edgar Alla Poe, Oscar Wilde e, in seguito, Ernest Hemingway, Somerset Maugham e Jack London. Anche Pablo Picasso ne descrisse «gli effetti in tre quadri del periodo blu».
In seguito, l’Assenzio venne proibito per diversi motivi. Intanto, l’utilizzo massiccio aveva favorito la diffusione di prodotti di bassa qualità. Si trattava perlopiù di imitazioni che differivano enormemente dal prodotto originario e potevano contenere anche metalli tossici come il solfato di rame. Ancora, una causa fu la fillossera dell’uva, un insetto che in quel contesto distrusse ben due terzi dei vigneti presenti sul continente europeo. Inoltre, sopra ogni altra motivazione, occorre tenere in forte considerazione la propaganda pubblica che vide l’Assenzio come radice dell’immoralità. Così fu una petizione che portò la Svizzera a bandirne l’uso nel 1910. Due anni dopo toccò agli Stati Uniti e da lì a poco, nel 1915, alla Francia e gradualmente a diversi altri Paesi, compresa l’Italia. Oggi il distillato si trova nuovamente nel libero commercio.

Il forte legame con la natura
Anche in base a quanto affermato fino a questo momento, in particolare rispetto all’Artemisia annua, si sarà ormai compreso come uno degli obiettivi principali del testo sia quello di far notare come la lotta dell’uomo contro le sue malattie dipenda dallo studio della natura. Marconi mette ben in evidenza come di svariate piante si continui oggigiorno a ignorare i principi attivi. È ovvio che una conoscenza più specifica in tal senso potrebbe portare a svolte decisive nelle esistenze di chiunque.
Eppure la denuncia dell’autore è rivolta ai tratti del vivere contemporaneo, che mostrano come gli uomini continuino «a depredare la terra su cui vivono, cercando facili profitti immediati, senza pensare che l’estinzione di una specie è la cosa più irrimediabile, tanto più quando ancora non se ne conosce la profonda natura».
Ritornando alla malaria, contro cui non esiste un vaccino, Marconi ammonisce chiarendo come «il cosiddetto “global warming” e il turismo e l’immigrazione di massa rappresentano pericoli reali di diffusione della malattia in futuro anche in paesi dove la malaria è stata debellata da tempo, come l’Italia (1970)».
Dunque, il testo, sorretto da lunghe e meticolose ricerche, come testimonia anche soltanto la ricca Bibliografia, oltre a rappresentare un prezioso strumento atto a favorire la comprensione accurata delle Artemisie, è un invito ad agire con più consapevolezza, a calibrare ogni scelta, a muoversi in vista di un miglioramento individuale e sociale. Il tutto, rinsaldando continuamente il legame necessario con la natura.

Mario Saccomanno

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVII, n. 185, gennaio-febbraio 2023)

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