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Storia (a cura di La Redazione) . A. XVI, n. 179, agosto 2022

Livorno “sfumata”
permette di cogliere
i tratti della Resistenza

di Mario Saccomanno
Per 4Punte, Olimpia Capitano sostiene
di evitare dannose semplificazioni


Nel 1921, durante il XVII Congresso del Partito socialista italiano, ci fu un dibattito scaturito dalle richieste avanzate dalla Terza internazionale (Comintern). L’organizzazione, nata nel 1919 sotto l’iniziativa dei bolscevichi, aveva come scopo quello di raccogliere al suo interno i partiti comunisti in modo da espandere la rivoluzione su scala mondiale. Tra le condizioni, i celeberrimi 21 punti, spiccava l’esclusione da mansioni rilevanti delle parti riformiste e centriste in quei gruppi politici che avrebbero voluto aderire.
Il luogo in cui si tenne il Congresso fu il teatro Carlo Goldoni di Livorno. Il clima non fu affatto disteso. La maggior parte dei componenti del Psi respinsero il presupposto di allontanamento dei riformisti. Da qui, il 21 gennaio una frangia del raggruppamento politico, optato per la scissione, diede vita ufficialmente al Partito comunista d’Italia (Pcdi).
Il libro Livorno 1921. Dentro e oltre la classe operaia (4Punte edizioni, pp. 152, € 15,00) di Olimpia Capitano indaga le genealogie di questa dottrina economica e politica focalizzando l’attenzione sul panorama livornese e rifiutando ogni sorta di semplificazione che possa indurre a recidere le complesse sfumature che il tema solleva. Infatti, proprio tramite le varie gradazioni, passate in rassegna, e in dettaglio, dall’autrice, si giunge al nucleo della questione.
Ne emerge una realtà molto articolata, un comunismo la cui militanza risultò palese con la Seconda guerra mondiale, con la Resistenza e, in seguito, con la costruzione di una nuova quotidianità, ma che agì anche prima, durante il ventennio fascista, in un fase di clandestinità.
Così, nei contenuti, l’attenzione è riposta anche e soprattutto sui momenti antecedenti quel riscontro lampante. Pertanto, Capitano discute soprattutto di quella città rossa prima «popolare, ribelle, sovversiva, aliena a qualsivoglia tipo di autorità costitutiva e, in un secondo momento, comunista».

Pluralità e avversione nei confronti dell’ordine costituito
Ci sono alcuni elementi che caratterizzano la Livorno descritta accuratamente da Capitano. Su ogni altra cosa, l’autrice passa in rassegna l’attitudine ribellista che comparve ben prima del movimento operario. Nel testo ne viene sottolineata la conformazione fatta di «pluralità, radicamento popolare e radicalismo politico».
Di sicuro, tra il XIX e il XX secolo il comune italiano situato sulla costa del mar Ligure registrò uno sviluppo industriale che, per ovvie ragioni, incise anche dal punto di vista sociale ed economico. Eppure, in quel periodo la propensione dissidente che Capitano tratteggia nel libro, era ben radicata e già fortemente connessa al pluralismo. Infatti, quest’ultimo si può collocare approssimativamente tra il finire del Cinquecento e l’inizio del Seicento, nello stesso periodo in cui Livorno acquisì lo status di città, accadimento che avvenne nel 1606.
Proprio in quel momento storico, sia per la sua configurazione geografica che ne faceva lo sbocco a mare più importante del Granducato di Toscana, sia, soprattutto, per le immunità figuranti sui bandi concessi da Ferdinando I de’ Medici tra il 1590 e il 1595, Livorno divenne approdo di miriadi di rifugiati. Così, in un contesto siffatto, afferma Capitano, «fu naturale per la città trasformarsi nel simbolo del ribellismo anarcopopolare».
Compiuto questo itinerario storico, di cui l’autrice sottolinea come un altro momento fondamentale furono le rivolte risorgimentali, è possibile notare come fin dal primo decennio del XX secolo Livorno presentò alcuni aspetti che irrobustiscono quanto affermato in merito al pluralismo e alla natura ribellista del luogo e che segnano una sorta di filo rosso che caratterizzò anche gli anni a venire. Infatti, quella tradizione anarcoide e quella spinta del popolo minuto verso l’azione spontanea non vennero mai a mancare. Al contrario, divennero sempre più vigorose e rilevanti.
È il tema del sovversivismo che Capitano approfondisce affermando che si trattò di un «atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell’ordine costituito, dei poteri forti». Quest’ostilità emerge a chiare lettere dalla commistione delle forze rivoluzionarie. Nei vari capitoli risulta evidente la chiara e ripetuta mescolanza della spinta repubblicana con quella anarchica, socialista e comunista in diversi importanti snodi storici. Il tutto sempre tenendo conto delle priorità e delle differenze di ogni forza in campo. In merito, per esempio, sia lo schieramento socialista, sia quello repubblicano apparvero senza dubbio sempre più istituzionalizzati rispetto alla componente anarchica, la cui unione aveva «finalità di sommossa».
Sta di fatto che con questa varietà sociale e culturale dovettero scontrarsi necessariamente anche i fascisti a cui venne complicato far attecchire la loro «ideologia nazionalista e intrinsecamente razzista».

Tensioni, divisioni e ascesa del fascismo
Le differenze interne che vennero a formarsi nei vari partiti non evitarono divisioni nelle medesime ideologie politiche. Nel Psi i contrasti furono evidenti fin dal 1917. Infatti, in quel periodo, fa notare Capitano, si cominciò a pensare alla rivoluzione socialista «in termini più diretti e politicamente immediati». Così, si prospettarono già altre divisioni, proprio nel momento in cui il contesto bellico mostrava la sua fattezza catastrofica.
L’autrice passa in rassegna la precarietà del Dopoguerra, l’astensionismo rilevante delle elezioni del 1919, il successo politico socialista e le affinità tra i gruppi intransigenti e anarchici. Questi ultimi legati soprattutto allo spontaneismo che attecchì sia nei contesti lavorativi, sia in quelli di piazza. Infatti, nel testo viene mostrato lucidamente come in questi ultimi spazi «il controllo fu pressappoco impossibile», così come emerge dai moti per il caroviveri scaturiti da disordini del tutto spontanei.
I risultati che si ottennero in quel periodo non ricucirono mai le lotte intestine, che emersero ancora più chiaramente dalle riunioni e dalle manifestazioni del Psi avvenute nel dicembre del 1920. Inoltre, sin dai primi giorni susseguenti al successo elettorale socialista si dovette far fronte allo squadrismo fascista che, sebbene fosse ancora una componente marginale della destra e del militarismo locale, rispetto ad altri contesti, era già caratterizzato «per una sostanziale assenza di pretese socialisteggianti e intonazioni sindacaliste».
Capitano sottolinea che si trattò di un dispositivo attraverso cui conservare le strutture di potere. Va evidenziato che, sin dal primo momento, Livorno si mostrò ostile all’ascesa del fascismo, percepito al pari di un corpo estraneo. Il tutto richiamando quell’«estraneità al principio di autorità» che si è sottolineata in precedenza e che formò un «legame di miserie e solidarietà di classe che accorpava i quartieri separati dal centro cittadino, identificato con le istituzioni e i ceti benestanti, disegnando la geografia della guerriglia urbana che avrebbe attraversato il territorio negli anni a seguire».

Il comunismo livornese
Tutte le controversie segnalate finora portarono alla celebre scissione del 1921 di cui si è discusso in apertura. Il Partito comunista avrebbe dovuto adeguarsi completamente ai 21 punti sanzionati al II Congresso del Comintern. Eppure, a ben vedere, le differenze che contraddistinsero ogni contesto nazionale e, ancor di più, locale portarono a modalità d’azioni che cozzarono con quell’omogeneità apertamente richiesta. Su questo aspetto l’autrice insiste molto nelle pagine del testo mostrando come sia fondamentale sottolineare la portata di questa diversità, in particolare «dopo decenni di narrazioni totalizzanti, complici della costruzione di percorsi di memoria attraversati da vuoti e da istanze di demonizzazione».
Ne emerge un comunismo complesso, ben lontano da ogni canonica raffigurazione, da quel presentarlo come «rigidamente dogmatico e poco attivo in senso antifascista». Considerarlo anche nelle realtà locali e non esclusivamente in una visione globale che può risultare aberrante, permette di capire tutta la complessità delle dinamiche sociali. Per esempio, nel contesto livornese emerge un nucleo ribelle, libertario e antifascista.
Così, proprio in merito alla scissione, Capitano chiarisce come nell’immediato non incise molto sugli equilibri politici locali. I motivi principali furono la ridotta consistenza numerica e l’importanza politica assunta dai pochi scissionisti all’interno del Psi. Sta di fatto che l’attenzione riposta dall’autrice si rinviene in particolare verso il passaggio dalle azioni antifasciste a quelle clandestine, momento in cui i militanti comunisti – al pari di quelli anarchici, socialisti e degli Arditi del popolo, cioè di tutto il tessuto popolare labronico – ebbero terreno fertile.
Così, anche nel periodo susseguente alla marcia su Roma non fu affatto semplice normalizzare rioni e zone periferiche, tanto che, afferma l’autrice, «dovettero intervenire direttamente gli organi di Pubblica Sicurezza, il ministero dell’Interno e lo stesso Benito Mussolini, per esortare a monitorare la “piazza comunista”».
Le azioni clandestine continuarono pure negli anni Trenta. In quel periodo, anche le donne fuoriuscirono spesso da quel disciplinamento sessista che caratterizzò il fascismo. Ne derivò un fenomeno di resistenza femminile che emerge in modo lampante dagli archivi di polizia. Così, Capitano mostra chiaramente come la resistenza antifascista coinvolse chiunque. Fu una guerra che «non smise mai di essere armata». Dunque, afferma l’autrice, «per quanto la storiografia ufficiale collochi la resistenza armata tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, gli attentati e le azioni armate che anticiparono le lotte dei gruppi partigiani continuarono per tutto il ventennio».

La classe come storia in continuo mutamento
Nel testo, l’esperienza storica del primo comunismo livornese tracciata da Capitano sfocia nelle considerazioni sul significato di classe. In merito, l’autrice afferma: «La classe è questo aggregato multiforme di individui e collettività subalterne e marginali. La classe è storia in continuo mutamento. È dentro e oltre la classe operaia. Si articola all’interno della persistente compatibilità del capitalismo con tante e diverse forme di sfruttamento salariato e non, di lavoro libero e di nuove forme di schiavitù, di lavoro instabile e precario».
La particolarità del contesto livornese fatto di solidarietà e di resistenza plurale (maschile, femminile, proletaria e sottoproletaria) spinge l’autrice a concludere che si ha a che fare con una città rossa segnata da un’ostilità ben radicata rispetto alle forme di sopraffazione. Il tutto sfociante in un comunismo «lontano dalle interpretazioni di rigida ortodossia».
Leggendo il testo di Capitano si comprende come dal fermento e dall’opposizione possa sempre nascere qualcosa. Infatti, il persistente agire di attivisti sul territorio, anche quando il fascismo distrusse gran parte dell’organizzazione comunista, portò a una forma di resistenza condivisa che può essere presentata tramite l’operato di figure quali Ilio Barontini e Mauro Nocchi a cui l’autrice inevitabilmente dedica ampio spazio.
Di sicuro, al pari della classe, anche nel definire il comunismo si deve concludere che fu «molte cose». Così, su tutto il resto, a favore del rispetto storico, l’autrice mostra come sia fondamentale rifiutare risposte semplici. Da qui, porsi continue domande diventa uno strumento indispensabile per creare un «futuro alternativo, fondato sulle potenzialità della conflittualità di classe, negli spazi del locale e del globale».

Mario Saccomanno

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 179, agosto 2022)

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