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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XVI, n. 179, agosto 2022

Contro l’isteria del non voto:
non bisogna temere le elezioni

di Alessandro Milito
Quando un governo cade suona subito un allarme contro le urne:
così si rischia di svilire l’appuntamento fondamentale della democrazia


A ogni crisi di governo si affaccia puntuale: lo spauracchio del voto. Non appena fa capolino la possibilità di nuove elezioni, ecco venir fuori un cordone sanitario pronto a scongiurarle, schierando i temi ormai noti a tutti. Non si può votare, serve che il governo rimanga pienamente in carica perché…
Di seguito possono essere aggiunte emergenze varie, calamità naturali, mercati finanziari crudeli, istituzioni europee esigenti, guerre, carestie, cavallette ed altre piaghe. Per intenderci: si tratta quasi sempre di motivazioni condivisibili, improntate a un sincero buon senso. Far cadere il governo senza una vera ragione politica che vada al di là di un tornaconto elettorale, con una guerra in corso in Europa, l’inflazione galoppante, una pandemia ancora indomita e un Pnnr costellato da obiettivi e scadenze ben precise, è da irresponsabili. Lo è ancora di più se non si ha nemmeno il coraggio di assumersi la responsabilità di una scelta politica carica di significati e conseguenze.
Non deve nemmeno sorprendere il principio della conservazione degli organi assembleari: prima di spirare definitivamente, un organo fa tutto il possibile per tutelarsi e strappare attimi di vita. Ciò comporta che i diretti interessati, deputati e senatori, a meno di avere la certezza (quantomai evanescente in politica) di una riconferma, faranno di tutto per rimanere in carica il più possibile. Anche il presidente della Repubblica, nell’esercizio delle sue funzioni di garante del sistema politico-istituzionale, cerca di preservare il funzionamento degli altri organi costituzionali, non ultime le due camere: lo scioglimento è, quasi sempre, l’extrema-ratio.

Parlamento, governo ed elettorato: un legame sempre più sbiadito
Tuttavia, lo spauracchio del voto ha un grande limite: sminuisce e svilisce il momento cruciale della democrazia. Specie in una repubblica parlamentare, in cui l’unico organo ad essere eletto direttamente dai cittadini è proprio il Parlamento, le elezioni assumono un significato fondamentale. Negli ultimi anni il governo, e quindi il presidente del Consiglio, sono stati espressione di accordi tra “nemici giurati” e voltafaccia più o meno clamorosi: nulla di tutto questo era stato sottoposto agli elettori. Nulla di incostituzionale, certo: ma è innegabile che nel corso degli anni la legislatura si sia incartata su se stessa, producendo soluzioni bizantine difficilmente leggibili per il grande pubblico, diverso dagli addetti ai lavori giornalistici e politici. Il Parlamento di oggi è una fotografia molto sbiadita di quello uscito dalle urne del 2018. Questo è fisiologico, man mano che ci si allontana dalle elezioni si ha una graduale perdita di rappresentatività dell’assemblea rispetto all’elettorato, ma è innegabile che con centinaia di cambi di casacca e ben tre governi si sia raggiunto un limite. Il governo Draghi, composto da quasi tutti i partiti, rappresentava l’ultimo tentativo di mettere in sicurezza questa legislatura.

Una campagna elettorale sotto gli ombrelloni: una scelta obbligata?
Adesso il paracadute contro lo scioglimento anticipato delle camere non si è aperto e si voterà il 25 settembre, diversi mesi prima della scadenza naturale della legislatura prevista per la primavera del 2023. Anche stavolta, non sono mancati i tentativi di – legittima – drammatizzazione della caduta del governo. Alla fine, ha prevalso la necessità di un ritorno alle urne ma tale alternativa è stata trattata con fastidio, quasi come se il voto fosse un adempimento burocratico necessario ma di cui si farebbe fatto volentieri a meno. L’indicazione del 25 settembre è stata giustificata con l’esigenza di limitare il più possibile i danni di un governo azzoppato e garantire l’approvazione, da parte del nuovo Parlamento, della legge di bilancio entro la fine dell’anno.
«Si voti il prima possibile», si è detto, senza considerare altri aspetti. Non si è parlato, ad esempio, di cosa comporti una campagna elettorale in appena due mesi, nel pieno dell’estate. Quanto tempo verrà dedicato all’individuazione di serie candidature? Quando si faranno i comizi? I cittadini/elettori avranno il giusto periodo di tempo per potersi informare e farsi una seria opinione sull’offerta politica? Che tipo di campagna elettorale sarà a Ferragosto? No, nessuna riflessione su questo, tutto rimandato alla scontata analisi post-voto sull’aumento dell’astensione.
Insomma, se proprio si deve votare, lo si faccia subito, cacciamoci il pensiero e via. Un atteggiamento che fa dimenticare completamente il significato autentico del voto: l’espressione principale della sovranità popolare. E non giova l’atteggiamento di chi, a sinistra, a lungo ha utilizzato la tesi del “così si consegna il Paese alla destra” per spostare in avanti l’appuntamento elettorale. Se il Paese vota destra, la destra deve governare: è la democrazia. Poi, chi avrà votato, dovrà prendersi la responsabilità di questa scelta: il Parlamento è sempre espressione del suo corpo elettorale, non viene calato dal nulla. Se esprime una classe dirigente mediocre, infantile e autodistruttiva, bisogna chiedersi chi l’ha votata. È proprio questa l’altra faccia della medaglia del voto: chiama tutti alla responsabilità, non fa sconti a nessuno.

Riscoprire e tutelare la centralità del voto
Proprio la sua autentica funzione deve far riflettere sul suo progressivo svilimento. Un Paese che rimanda, anche quando sarebbe politicamente necessario, il ritorno alle urne non è un Paese serio. Da quando è nata la Repubblica non si ricorda un solo periodo in cui non vi sia stata un’emergenza che minasse alla sua stabilità. Se si aspetta il momento ideale per votare, questo non arriverà mai. Se quando arriva il momento del voto questo viene trattato quasi come una catastrofe o un mero passaggio forzato, si contribuisce a far sembrare le elezioni una perdita di tempo o una iattura. Se non si può votare perché altrimenti non si riesce ad approvare la legge di bilancio o perché non si possono attuare gli obiettivi del Pnnr o le richieste dell’Unione europea, bisogna cambiare prospettiva: non è colpa del voto, c’è qualcosa da cambiare negli altri meccanismi tecnico-legislativi e politici. Il sistema politico-istituzionale trae linfa vitale e legittimazione dal voto: proprio per questo deve essere strutturato in maniera tale che sciogliere le camere e votare non sia un cataclisma.
Se non si sarà capaci di normalizzare le elezioni, anche anticipate, si creerà un cortocircuito che potrebbe avere effetti nefasti. E, perché no, se proprio è così pericoloso votare, perché farlo per forza?

Alessandro Milito

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 179, agosto 2022)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT