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A. XIII, n. 138, marzo 2019
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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XIII, n. 138, marzo 2019

Un vitalismo e un’analisi del senso:
le opere di Fabio Bacile di Castiglione

di Marco Gatto
Il travaglio letterario di una sperimentazione continua, priva di risposte,
carica di dubbi, perché alla ricerca della bellezza e di un motivo alla vita


Prosegue l’attività di Bottega editoriale relativa ai Saggi critici sulla migliore Letteratura contemporanea.
In precedenza sono state pubblicate due analisi critiche dedicate alle figure di Mimmo Gangemi (Mimmo Gangemi: poesia e narrazione tra natura, morte, vita e appartenenza, in: www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=235 ) e di Massimiliano Bellavista, facente parte del “Portafoglio Scrittori contemporanei di Bottega editoriale” (I labirinti poetici e narrativi di un autore coinvolgente: Massimiliano Bellavista in: www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=236). Autore dei due saggi è il critico letterario torinese Guglielmo Colombero.
Sul presente numero della nostra rivista pubblichiamo invece il saggio critico di un autorevole rappresentante della Letteratura contemporanea: Fabio Bacile di Castiglione che, con la sua presenza, dà lustro al citato “Portafoglio Scrittori contemporanei di Bottega editoriale”. Autore dell’analisi è Marco Gatto, docente universitario di Teoria della Letteratura presso l’Università della Calabria.
Questa analisi critica avviene in parallelo a quella su una personalità non facente parte del nostro “Portafoglio”, non vivente, ma sempre coeva: Albert Caraco (www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=237). Autore di tale saggio, dal titolo Lo scrittore più cupo del mondo: la figura del particolare Albert Caraco è il critico letterario bolognese Rino Tripodi.

Di fronte all’esplosione del molteplice che la postmodernità ha consegnato come esito nevralgico del suo estendersi e diffondersi a tutti i livelli del reale, la letteratura ha reagito in modi diversi. Il superamento di qualsivoglia norma e lo scardinamento dell’usuale patto con il lettore hanno prodotto una sorta di libertà illusoria – vissuta da alcuni quasi con impeto liberatorio – mediante la quale sentirsi finalmente in grado di rastrellare stili diversi e di farne addirittura presupposto di narrazione. Le difficoltà che si incontrano nello stabilire linee di tendenza o semplicemente significative esperienze di gruppo si collegano a questo nuovo quadro problematico. La libera volontà autoriale, dopo il tempo che ne ha voluto decretare la scomparsa o addirittura la morte, sembra essersi ora collocata in un orizzonte in cui è possibile stabilire, di volta in volta, una dimensione privata dell’esperienza estetica. Lo scrittore consegna al lettore un atto simbolico individuale, un remissivo messaggio nella bottiglia, quando non accetta di essere parte di un sistema che relega l’arte a un mero abbellimento esistenziale. Si fa strada, cioè, una nuova forma di presenza letteraria, per così dire, postuma, successiva all’idea del grande Io e del grande autore che aveva contrassegnato la modernità. L’opera stessa si fa brandello di un percorso più generale, non si attribuisce un destino o non si pensa, si sarebbe detto un tempo, come una totalità. Piuttosto, è, al pari di un frammento, una sorta di speranzoso tassello verso un quadro che potrebbe poi farsi nitido. Un frammento, in particolare, che ha bisogno costantemente di ripresentarsi in forme nuove per ricostituirsi. Allo scrittore d’oggi è dunque richiesto di confrontarsi con il problema formale di una reinvenzione costante, in una sorta di necessaria sopravvivenza dell’atto stesso di scrittura.
Per quanto si possa essere soli – e la solitudine della letteratura non è scontata in un tempo in cui l’arte diventa un meccanismo propulsivo, tutt’altro che innocente, del sistema culturale dei consumi –, ogni scelta formale presuppone un residuo di storicità. È sempre l’esito di un incontro con un passato che si è sedimentato. Perché ogni forma stabilisce un rapporto sociale, che vive, in controluce, nei materiali utilizzati. Cosicché scegliere di utilizzare una forma o l’altra rappresenta un modo per prendere posizione sulla socialità della letteratura, ossia su cosa lo scrivere rappresenti come atto simbolico. Da questo punto di vista, non esistono scritture private. Anche la più rarefatta e astratta delle forme si rivela sempre come disperato tentativo di comunicazione. E allora, in tempi come i nostri, che condannano la letteratura alla periferia o che semplicemente vedono la crisi dei valori umanistici e del rapporto con la tradizione, in tempi che sembrano non attribuire all’arte una funzione che non sia quella dell’intrattenimento occasionale, la necessità della solitudine, o, si direbbe, l’ineluttabilità di una condizione privatistica dell’esercizio letterario incontra sempre e comunque una dimensione più ampia, rimossa, sociale, che ha a che vedere con il tentativo di dare forma all’informe, di costituire cioè una qualche riconoscibilità pubblica a contenuti che altrimenti rimarrebbero segni indecifrabili.

Indagare l’informe sperimentando più forme
È dunque normale che uno scrittore si trovi oggi alle prese con un percorso che prevede anzitutto tentativi, in un orizzonte di senso in cui un’unica e sola esperienza formale sembrerebbe non potersi dare. Va forse letto in questa direzione lo sforzo di mettere a sistema, di volta in volta, le proprie necessità espressive. I testi di Fabio Bacile di Castiglione rappresentano proprio questo travaglio, accanto alla necessità di stabilire, anzitutto dal punto di vista contenutistico, dei punti fermi su questioni ideologiche, politiche, sociali e anche poetiche. L’adozione di una forma sempre diversa – dal romanzo breve di impianto tradizionale al dialogo, fino al tentativo di formalizzare una materia distopica – può essere interpretata come la scelta di esplorare campi ignoti, di cedere cioè a un tentativo formale che sia capace di dar conto del significato da esprimere. Questo carattere, si potrebbe dire, sperimentale – per quanto l’aggettivo sia carico di associazioni che, in tal caso, non troverebbero giustificazione, dal momento che la scrittura di Bacile è assolutamente priva di sperimentazione linguistica – si deve tuttavia a un bisogno originario, che trapela sia in Grafici di borsa (Negroamaro, pp. 104, 2013) sia in 7 pagine bianche (Negroamaro, pp. 78, 2015): quello di concepire la rappresentazione letteraria come uno scontro tra visioni filosofiche del mondo. Vale a dire che il testo – nei suoi elementi caratterizzanti e nei suoi assi portanti: prima di tutto, l’edificazione ideologica dei personaggi – è prima di tutto un’occasione di pensiero, cioè il veicolo di questioni ultime, che può lasciare o meno trasparire una qualche verità adottata come faro interpretativo dallo scrittore stesso; o anche porsi come un terreno di verifica, una disponibilità a confrontarsi con il lettore in modo assai aperto e democratico. E difatti, per quanto possano apparire moraleggianti certe considerazioni sulla vita, sul presente e sul futuro, la sensazione dominante è quella di una possibilità espressiva o filosofica che si dispone alla discussione.
Non diremmo tuttavia che i testi di Bacile siano degli esperimenti filosofico-letterari. Se a qualcosa devono per forza somigliare, forse richiamano alla mente un ideale di letteratura onesta e generosa, in cui lo scrittore non si concepisce quale voce fuori dalle parti. Siamo cioè in un contesto letterario in cui la rappresentazione di fatti e situazioni risponde alla necessità di comunicare un’esperienza di vita, senza che questa diventi esemplare, senza che debba incarnare un modello, sia esso positivo o negativo. C’è una misura che permette di arginare ogni pretesa di assolutezza: essa consiste nel modo in cui Bacile pone i suoi contenuti, scegliendo una prosa lineare, quasi priva di orpelli, per quanto a tratti ossessionata dalla necessità di porgere al lettore in modo diretto le proprie credenziali, quasi avesse il timore di essere tradita. Il lettore a volte percepisce di essere guidato, di avere davanti a sé delle scelte irrinunciabili. Ma in Bacile tutto è assai evidente, tutto sembra essere spiattellato con grande generosità: e pertanto il lettore può fidarsi e autorizzare se stesso a prendere una posizione, a farsi un’idea.
La tensione intima e filosofica si coglie in Dalla Luce al buio e ritorno inseguendo la Bellezza che sfugge (rielaborazione di un precedente testo, intitolato Vita, attualmente nel “Portafoglio romanzi inediti” dell’Agenzia letteraria Bottega editoriale), fra le cui intenzioni si evidenzia quella di allestire una sorta di soffuso e fantasioso romanzo di formazione. Difatti, alla usuale struttura che prevede la cronistoria delle esperienze decisive del personaggio, è affiancata una riflessione più incisiva sull’amore, sui sogni, con un omaggio assai estetizzante al concetto di Bellezza. Lo stile è più lirico e sentimentale; lo scrittore si concede una rilassatezza espressiva che nelle prove successive sarà attenuata, nella direzione di un maggiore controllo.
Già nel racconto per ragazzi Io non ho un sogno (Emersioni, pp. 124, 2018), come nota anche Renato Minore nella Prefazione, si va verso un’istintività più sorvegliata, se non altro perché il protagonista, Diego, incontra una serie di interrogativi e questioni che inchiodano la scrittura a un maggiore rigore, nonostante Bacile sia sempre pronto ad abbandonarsi al libero fluire del suo pensiero. Ha pertanto ragione Minore a sottolineare l’istintività filosofica che anima la scrittura di un autore che appare percepirsi sempre in formazione, la cui identità di scrittore va cioè offrendosi anche e soprattutto nel tentativo di darsi una ragione non solo stilistica ma anche argomentativa.

La sua idea del mondo
Quali sono, tuttavia, i contenuti mediante i quali Bacile esprime la sua idea di mondo? C’è anzitutto un’ambizione: fare i conti con un presente e assumere una posizione che non sia né di netto rifiuto né di placido accoglimento. Ma fare i conti con l’oggi significa rileggerne le condizioni e i presupposti. Ecco perché Grafici di borsa è il diagramma esistenziale di una generazione che attraversa gli anni di fuoco del Sessantotto, che incontra la rivoluzione sessuale, la politica, che assume posizioni diverse o ambivalenti sull’arte e, più in generale, sulla vita. I personaggi, come anticipato, rappresentano ciascuno un destino, un cammino, una posizione nel mondo. Certo, si tratta di una resa parziale, perché Bacile sceglie di rappresentare, per evidenziarne le contraddizioni, un’umanità che ha il privilegio di classe, che gode della ricchezza e dei suoi eccessi. Se in un primo tempo questa fortuna rappresenta il contrassegno di una gioia immatura, in un secondo diventa residuale, perché l’ingresso nella vita e nella società si dà come gioco terribile, come momento di scelta, come sprofondamento nella molteplicità del possibile.
In gioco, insomma, è il grande tema della volontà di costruirsi un destino; ma pure la difficoltà di combattere quel congenito nichilismo che nasce dalla tentazione di disperdersi e di eccedere. Le pagine che Bacile dedica alla stagione universitaria di un gruppo di ragazzi alle prese con comitati studenteschi, ribellioni di gruppo, amori libertini, sono sì il ritratto di una particolare generazione, ma anche di una specifica condizione esistenziale che ha contrassegnato non poche individualità di quel particolare momento storico. Bacile decide di attribuire loro un cammino, un percorso, quasi rappresentassero delle tipologie sociali attraverso cui ritrarre una situazione storica e antropologica. In Mario, fra i personaggi più riusciti e controversi, scopriamo la tensione dissolutiva, una sorta di nichilismo autodistruttivo, compiaciuto e sofferto a un tempo, un’incuria dei limiti, che lo condurrà, dopo una vita trascorsa a dissipare ogni ricchezza, al suicidio: «Lasciata alle spalle la triste visione del prezzo della modernità, Mario guardò la Città Eterna che riaccese con la sua magia l’animo di un uomo che non si sentiva più parte di questo mondo. Fu un attimo, l’istinto di chi si è sempre ritenuto superiore e lontano dalla massa e che ha sempre cercato di vivere al massimo. L’euforia di un ultimo volo, questa volta verso il basso, o forse verso l’empireo. Il delirio di chi si pensava superiore a ogni regola, anche alla morte. Mario finì suicida i propri giorni».
Di contro, Antonio e Domenico rappresentano due “tipi” diversi: da un lato, il comunista che scopre nella lotta di classe una ragione di impegno, fino a congiungersi completamente con la politica e a procurare un dissidio lacerante con il padre, che non ne accetta la supposta rigidità ideologica; dall’altro, un cristiano che riconosce nella mediazione e nella battaglia alle idee totalizzanti il suo credo. Si tratta di due sopravvissuti, di due reduci. Ed è forse questa la chiave di lettura di questo piccolo romanzo-apologo, che, come si diceva, non si trattiene oltre la soglia dell’investigazione filosofica e politica: un certo mondo è tramontato («non è più il nostro mondo», dice Antonio commentando il suicidio di Mario), ci si può abbandonare con nostalgia al «doloroso ricordo di un’epoca trascorsa […] che non si ripresenterà», oppure cercare di comprendere il presente, lasciandosi guidare da piccole utopie o forse persino lottando per esse. Certo, Bacile sembra ancorarsi eccessivamente, nel finale, alla speranza di una rinnovata democrazia (non avrebbe potuto forse prevedere gli attuali esiti politici del nostro Paese), ma, ancora una volta, non si tratta di una proposta assoluta, quanto di un tentativo di innescare una discussione.
A livello stilistico, la tensione argomentativa e la necessità di allestire punti di vista diversificati si traducono, nella prosa di Bacile, in un dispendio di particolari, per così dire, affettivi. La dimensione corporea e fisica è sempre centrale, sia perché lo richiede la scelta di mettere in scena un particolare momento della storia nazionale (il Sessantotto e l’ondata di liberazione sessuale che l’accompagna), sia perché vi è in Bacile un’attenzione marcata alle ragioni del corpo, che sarà cifra caratterizzante anche dell’ultimo romanzo, Dopo l’Apocalisse. È un fondo vitalistico, difatti, a contrassegnare le pagine dei suoi testi, quasi vi fosse un’ammirazione costante nei confronti di una fisicità vissuta senza fronzoli, in modo assai naturale, che solitamente libera la narrazione dalla pesantezza dei pensieri, o semplicemente convive in essa. Sono i momenti in cui la prosa di Bacile si fa più leggiadra.

Scrittura asciutta per un romanzo dialogico
Forse è questo il motivo per cui 7 pagine bianche gode di una maggiore asciuttezza e si presenta in una forma del tutto diversa. Si tratta di un romanzo dialogico. Due corpi si parlano allestendo una conversazione condita di riferimenti colti e di discussioni d’ordine filosofico. Nel Prologo, il narratore dichiara infatti di voler «scrivere un romanzo astratto, senza una storia da raccontare, ma con un’armonia d’insieme». E, in effetti, non esiste intreccio; esiste una situazione di fatto ed esiste un confronto continuo su posizioni e punti di vista che trasmigrano dal particolare al generale, e viceversa. Se c’è un protagonista, non è da riconoscere nei due dialoganti. Piuttosto, al centro è una forma di sapere o di interrogazione. Al centro, è quel che si chiama cultura o conoscenza: la validità che essa incarna nel sostentarci nella vita; il valore che essa assume nel guidare le relazioni tra umani; la possibilità che essa rappresenti, a ogni modo, un tentativo di cogliere l’assurdo o una pur larvale verità. Il lettore vi troverà però un invito a vivere (a proposito del fondo vitalistico di cui si parlava), al di là dell’arte stessa, che è comunque per Bacile una forma di godimento: «L’uomo nasce in catene, solo la morte può liberarci dal giogo delle pulsioni. Non credo che esercitarsi a schivarle porti ad altro che a soffrire per esse… meglio lasciarle scorrere senza farci troppo caso», sostiene l’uomo; che poi, in fondo, non si esime dall’aggiungere che «Bisogna trovare la misura», come accade nell’arte, e anzitutto in quella figurativa, nella quale si accetta il groviglio labirintico del senso, ma per farne appunto una visione. Queste 7 pagine bianche sono appunto un modo per inscenarla, al di là della loro effettiva riuscita.

Le sue abilità di scrittore
Bisogna forse aspettare l’ultima e più recente prova di Bacile per dar conto delle sue abilità di scrittore e per meglio comprendere in che direzione la sua particolare interrogazione culturale volgeva. Dicevamo della necessità di sperimentare la forma. In Dopo l’Apocalisse (altro testo attualmente in essere nel “Portafoglio romanzi inediti” dell’Agenzia letteraria Bottega editoriale), la forma assume su di sé il tempo della fine, della redenzione sperata, e sceglie di trasmettersi nelle sembianze di un romanzo distopico. Se nelle precedenti prove v’era stata una ricostruzione delle condizioni umane e antropologiche di certi cammini di vita, fino a giungere al grado zero di un dialogo senza trama, fondato solo sullo scambio di pensieri, qui si riabilita il lungo respiro della storicità, addirittura approssimandosi al futuro. E il confronto con i modelli – al di là della solita capacità di attingere dal repertorio culturale che veniva esaltata a suon di citazioni nelle prove precedenti – si fa più stringente, non fosse altro perché qui il tema trattato ha risonanze troppo invasive per ridurle a mero orpello. Chi scrive, come Bacile, un romanzo sul “dopo” assume su di sé, ancora una volta, una visione: una visione che ha a che vedere con la paura, non certo peregrina, che un sentiero si sia interrotto (come del resto esplicitava il finale di Grafici di borsa). Di questo timore la letteratura è sismografo, nella misura in cui all’esplosione finale viene associata, come accade in questo romanzo, un perpetuo andirivieni verso il passato, quasi a dire che il sentimento della fine rende paradossalmente possibile un disegno capace di mostrare la coesistenza di piani storici differenti. Non vogliamo spingerci a considerare categorie filosofiche come la contemporaneità del non-contemporaneo, ma certamente il lettore che si imbatte nelle pagine di Dopo l’Apocalisse ha esperienza di questo ricondurre un certo passato al presente e ha la percezione che, al di là di rotture e lacerazioni, esista un tempo storico che accomuna l’interezza dell’esperienza umana. Ciò cambia, se vogliamo, la postura del narratore, che, ricostruendo l’interezza, sconta la sua parzialità: artefice di questa complessità, lo scrittore non può esimersi da un giudizio morale sui tempi.

Il Dopo-mondo e il Dopo-scuola
Le pagine che Bacile dedica al “dopo”, all’uomo che, per mezzo della scienza, riesce addirittura a farsi Dio (e, così, a cancellare l’idea stessa del divino), sono in tal senso le migliori, perché rendono conto, all’interno di una macchina narrativa complessa, delle asperità cui si consegna un tentativo di questo tipo. Il “dopo” per Bacile è un orizzonte in cui tutto si è disperso, un Dopo-mondo in cui, al netto della storia, a restare intatti sono solo gli istinti basilari, che possono però trovare nei sentimenti – nell’amore, in particolare – un loro argine, quasi la scomparsa dell’umanesimo fosse anzitutto segno di uno scivolamento in un mero agire pulsionale. In tal senso, Dopo l’Apocalisse è anche una sintesi del suo percorso autoriale: sempre più chiaro appare come tale scrittore si definisca attento, da una parte, alle ragioni di un vitalismo che non sa estinguersi e che trova nella corporeità un irrinunciabile luogo di significato, e, dall’altra, al tentativo di superare la vita del presente attraverso un’astrazione che lo conduce alla ricerca di una verità che per tutti sia valida. Ovvero, viene a presentirsi un altalenante movimento tra ottimismo, dato appunto dalla resistenza del corpo e delle pulsioni vitali, e pessimismo, offerto dal sacrificio perenne incarnato dallo sforzo di comprendere una verità che vada oltre la fisicità. Dietro appare vivo un atteggiamento di fiera resistenza alla barbarie dei tempi, ma anche un dubbio nei confronti di una aprioristica resa.
Anche lo stile di quest’ultima prova appare nuovamente diverso. E così non poteva che essere, dal momento che Bacile accosta momenti storici differenti. Il capitolo d’apertura, che trascina il lettore nelle vicende di un eretico nel 1666, costringe Bacile a ricostruire un habitat, a operare secondo livelli di gestione narrativa certamente diversi: il dettato si fa più controllato, la descrizione puntuale la fa da padrona, la contestualizzazione guida il lettore verso gli eventi. Valga come esempio: «Aveva appena compiuto trentatré anni quando venne accolto. Non immaginava che quella scala che sembrava non terminare mai lo avrebbe condotto a quel punto. Ancora nitida l’immagine: mille e più gradini, stretti, bui, paurosi. Mille e più gradini verso il centro della terra. Mano a mano che scendeva cercava il coraggio per risalire, ma inevitabilmente continuava a scendere. Poi d’un tratto arrivò nella piccola stanza. Lì un teschio, del grano, del sale e una strana polvere giallognola. Una sola traballante candela e freddo, molto freddo. A lungo restò in quella piccola bolla nella pietra. A un tratto, quando ormai credeva di essere morto, quando già era fuori dal suo corpo davanti a un fresco ruscello, udì tre fortissimi colpi. Tornò in sé solo per vedersi perduto. Pensò che tutto stesse crollando, pensò che la terra stesse per inghiottirlo, invece d’improvviso, luce! Una luce che abbaglia. Ma come? Ripresa la vista dall’improvvisa e temporanea cecità scoprì molte spade rivolte contro il suo petto. Molti uomini neri sembravano volerlo uccidere. Dalla profondità della luce una voce lo tranquillizzò: le spade lo avrebbero protetto se lui avesse giurato fedeltà a quella confraternita, ma sarebbero state solidali nel punirlo se avesse tradito. Il suo dovere? Cercare. La fede? L’amore. Molti segreti gli furono rivelati, molto dovette studiare. Poi, quando venne giudicato degno, fu libero di iniziare la sua ricerca. Vagabondo attraverso valli e burroni, deserti e montagne, in un secolo pericoloso privo di qualsivoglia metallo sopravvisse. Anzi visse. Fu quella una stagione eroica. Ancora adesso poteva sentire la passione che lo aveva guidato attraverso il mondo; l’entusiasmo che lo aveva spinto a cercare. Uno scopo. Lo scopo. Molti uomini aveva incontrato. Uomini feroci, ai quali aveva dovuto placare l’ira. Uomini malati, che aveva curato con la sua conoscenza. Il cibo, l’acqua, i vestiti? Non erano problemi per l’uomo. Se curava un malato riceveva da mangiare; se placava una lite trovava una donna che, felice di non essere rimasta vedova, era pronta a tessergli degli indumenti. I fiumi erano le sue terme, i boschi la sua casa. Le stelle gli indicavano la direzione e nelle biblioteche delle abbazie cercava e cercava. Lo studio era continuo. Ogni essere, ogni pietra, ogni foglia, tutto indagava. Non scriveva. Le pergamene, i papiri, le carte, andavano apprese, ma le sue riflessioni non le aveva mai scritte. Aveva paura che qualcuno potesse cogliere ciò che non poteva essere rivelato al mondo. Il desiderio. Il segreto nascosto. Doveva rimanere occulto. Più procedeva nella sua opera di scavo, più intuiva, più per lui era difficile trovare il coraggio per risalire. Oggi, guardando il suo pesante fardello si ricordava dei libri proibiti che aveva scovato e della paura che aveva affrontato nel leggerli. Il primo testo che iniziò a farlo inghiottire dal vortice che porta all’abisso lo trovò a Cordova. Aveva già letto una copia clandestina del Picatrix conservata nella biblioteca dei monaci di Cassino. Ricordava bene la divisione del testo in quattro libri. Ricordava che dopo un’introduzione alla tradizione ermetica il libro spiegava l’arte di costruire talismani e il rapporto tra le piante, gli animali, le parti del corpo e i pianeti. Ricordava persino alcune formule per invocare gli spiriti dei pianeti. Ma quando prese tra le mani quell’edizione conservata nascosta in un buio annesso della Mezquita si rese conto che vi era aggiunta una quinta parte. Un quinto libro che non era stato copiato o un libro che perfino il benedettino che aveva trascritto i primi quattro non aveva voluto copiare? Lo aprì con voracità, ma era completamente illeggibile. Come se i fogli fossero stati imbrattati di sangue».
Quando il testo sposta la sua attenzione sulle vicende presenti, nel Dopo-storia in cui il protagonista, Giovanni e Barbara si muovono, riconosciamo il Bacile che ci aveva abituati a una cronistoria degli affetti fisici e morali.
«Quando mi svegliai pensai di aver fatto un sogno stranissimo in cui tempo e spazio erano spariti e i morti erano i veri viventi. Guardai al mio corpo come a una prigione di carne. Avevo voglia di squarciare quel bozzolo che mi sembrava tenere tarpate le mie ali. Volevo tornare in quel luogo di pace e di amore. Forse avrei fatto un terribile errore. Ma fortunatamente anche Barbara si stava svegliando. Era bella. Le baciai un capezzolo. Il suo seno era morbido e accogliente. Mi accarezzò la nuca e iniziò a raccontarmi il nostro strano sogno. Il suo racconto coincideva col mio ricordo. A un certo punto la interruppi e continuai io a raccontare ciò che sapevamo. Alla fine ci guardammo senza parlare: troppe domande senza risposta ci trascinavano in un turbine di inesprimibili pensieri. Ci tuffammo per ripulire i nostri corpi e le nostre menti. L’acqua fresca ci riportò definitivamente in contatto con i nostri corpi. Quelle carni che poco prima mi sembravano una prigione tornarono a essere la mia natura e la carne di Barbara il mio bisogno. Finimmo per fare nuovamente l’amore sul bagnasciuga. Questa volta l’uovo non era tra noi, io sentivo il piacere della carne e vivevo in contatto con la terra, il mare, il sole e l’aria come parte di essi. Spero anche Barbara abbia sentito quella nostra unione».
Sembrerebbero convivere due scrittori, ma è il testo a esibire questo carattere dimidiato, così riflettendo una frattura, che è anche cifra di una generosità stilistica. Bacile conferma una delle sue caratteristiche: una scrittura che è lavorio costante, ma anche esplorazione onesta delle proprie possibilità, tentativo di penetrare materie complesse, di conoscere la gradualità regressiva e progressiva delle esperienze umane. Scrittore che ama scandagliare punti di vista, renderli accessibili attraverso i personaggi, Bacile assume di sé con umiltà questo compito: il suo mettersi alla prova con diversi registri formali lo ritrae come aperto a ogni interrogativo, privo di certe verità, e proprio per questo capace di rinnovarsi.

L’autore
Fabio Bacile di Castiglione, salentino, si è laureato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma.
Amante dell’arte per tradizione familiare, ha restaurato l’antico e suggestivo ipogeo Bacile di Spongano, al fine di creare una fucina di idee artistiche ospitando mostre d’arte, concerti, spettacoli teatrali e presentazioni di libri.

Marco Gatto

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIII, n. 138, marzo 2019)

Collaboratori di redazione:
Antonella Napoli, Maria Chiara Paone, Gabriella Silvia Spadoni
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT