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ANNO I, n° 0 - Agosto 2007
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Scienza politica (a cura di Mariangela Monaco) . ANNO I, n° 0 - Agosto 2007

Zoom immagine Il ruolo del parlamento in Italia: vera centralità?
di Mariangela Monaco
Gianfranco Pasquino, sulla Rivista italiana di Scienza politica, riflette
sulla tematica dei rapporti tra l’istituzione bicamerale e il governo


Il tema della stabilità (o instabilità) del governo nel sistema politico italiano è al centro del dibattito forse più che mai in questi mesi, a causa dei risultati delle elezioni del 2006, che hanno dato al centro-sinistra una maggioranza ampia alla Camera dei deputati e una risicatissima maggioranza (158 a 156) al Senato. Certo, ciò è il frutto della sciagurata legge elettorale varata dal centro-destra (definita porcellum da uno degli stessi firmatari, il leghista Calderoli), ma riaccende la questione dei rapporti tra parlamento e governo (che si inserisce nell’ambito della ben più complicata tematica delle riforme costituzionali, caduta in realtà un po’ in sordina dopo il referendum del giugno dello scorso anno).

Infatti, l’opposizione di centro-destra da sempre auspica la centralità del primo, rilevando che se il governo non ha la maggioranza cosiddetta politica al Senato (cioè senza senatori a vita, appunto quota 158) dovrebbe dimettersi – ma tale rivendicazione non trova alcun fondamento costituzionale –, e criticando fortemente il ricorso diffuso alla fiducia da parte del governo in diversi casi e in entrambe le camere.

Ma, nella storia repubblicana, il parlamento è mai stato veramente centrale?

Un intervento del noto politologo Gianfranco Pasquino sull’ultimo numero della Rivista italiana di Scienza politica cerca di rispondere, riflettendo appunto sul rapporto tra parlamento e governo, anche a questa domanda (e sarà su ciò che ci concentreremo).

 

Leggi e governo

Se partiamo dalla definizione più diffusa di centralità del parlamento, ossia che «tutta la politica, tutta la legislazione, tutti gli accordi fra i partiti, di governo e di opposizione, debbono passare attraverso il parlamento», rileva Pasquino che in Italia tale istituzione non è mai stata centrale. È evidente infatti come la politica si è fatta e si fa nei rapporti tra partiti e dirigenti, al di fuori del parlamento. Sicuramente, quest’ultimo discute, influenza, emenda, approva le leggi, ma è altrettanto vero che ad introdurre gran parte della legislazione, e anche a ritirarla, sono sempre stati i governi.

Se il Congresso degli Usa è l’unica assemblea rappresentativa davvero centrale nella legislazione, il Parlamento italiano si trova praticamente agli antipodi. L’unico reale momento di centralità è rappresentato dal voto di fiducia d’investitura del governo che entra in carica (anche se è escluso dal processo di formazione del medesimo). Niente peso invece per quanto concerne la morte/decesso: a parte Prodi nel 1998, nessun governo è mai caduto sul voto di fiducia, e – nota ancora il politologo – tutte le crisi di governo italiane hanno avuto natura extraparlamentare.

Grossa differenza rispetto al Bundestag tedesco, dove il cancelliere e il suo governo, dopo aver ottenuto la fiducia a maggioranza assoluta, devono dimettersi se ricevono un voto di sfiducia a maggioranza assoluta e se, sempre a maggioranza assoluta, viene indicato un nuovo cancelliere: in questo caso, il parlamento è certamente centrale per quanto riguarda il processo di nascita e fine istituzionale del governo.

Il Parlamento italiano non può considerarsi centrale nemmeno in relazione alla rappresentanza politica. Quest’ultima, infatti, è stata esercitata dai partiti che «tuttora ne hanno, nonostante le loro difficoltà, la capacità e la possibilità che discendono anche dal loro apparentemente insostituibile posizionamento». Sono dunque i partiti che filtrano le domande della società.

Non tragga in inganno il fatto che il nostro parlamento, come quelli delle altre democrazie contemporanee, sia composto da partiti. Sartori, infatti, già agli inizi degli anni Sessanta, rilevava come il problema stia nel sapere qual è la sanzione più temuta dai rappresentanti: quella degli elettori, quella delle lobby o quella dei dirigenti di partito (che decidono delle loro candidature)?

Senza dubbio, per il caso italiano, la terza opzione. Situazione ancora più cristallizzata dalla legge elettorale del 2005 a liste bloccate: qui il controllo (e quindi la paura da parte dei rappresentanti) degli elettori è nullo, dato che sono i partiti che decidono le candidature (ruolo che, oltre ad essere esclusivo, con tale legge è diventato quindi anche decisivo).

 

Leadership e ruolo dell’opposizione

Se poi spostiamo il discorso sulla leadership politica, notiamo come questa non è mai di estrazione parlamentare. E il viceversa, rileva Pasquino, non è neppure concepibile. Non lo era a tempi di uomini carismatici come De Gasperi, Togliatti, Nenni, Moro, Craxi o Andreotti, non lo è neppure ora con Prodi e Berlusconi (che infatti non sono deputati, ma sono capo del governo e capo dell’opposizione): «i governanti italiani hanno la fonte del loro potere non in parlamento, ma nei partiti».

Quindi, in Italia la leadership è stata il frutto di carriere partitiche e non di battaglie nella nostra assemblea rappresentativa, e in conseguenza di ciò spesso la sua instabilità (e quella del governo) derivava da sconfitte interpartitiche che niente avevamo a che vedere con la perfomance o il consenso del governo di cui era espressione (o, analogamente, la crisi di un Presidente del consiglio non era dovuta alla sua attività di governo ma a lotte intestinali nel partito di appartenenza o a conflittualità tra i partiti ecc.).

Ciò si sta verificando tuttora: basti pensare, come ultimo di una serie di esempi, alla riforma delle pensioni, varata con apposito Ddl dal governo e in attesa di arrivare nelle aule a settembre, che ha già provocato frizioni e proteste da parte dell’estrema sinistra. E questo prima ancora, appunto, di giungere in parlamento, creando un grosso problema politico (gli stessi esponenti radicali, com’è noto, hanno parlato di un prossimo autunno caldo) – e quindi, di stabilità – per la coalizione al potere.

Non inganni la minaccia da parte dei politici di votare contro in aula: essa è usata come elemento di pressione sul governo, per indurlo a modificare quel disegno di legge prima che esso sia votato dall’assemblea. Quindi non inteso qui il voto non intenso quale forma di centralità del parlamento bensì come mezzo di ricatto (il che è anche molto grave).

La reale e concreta centralità del parlamento nell’Italia repubblicana – nota Pasquino –, invece, è probabilmente consistita nel mettere a confronto i governi con l’opposizione (comunista): «da questo punto di vista, il parlamento ha funzionato come arena di riconoscimento reciproco e di legittimazione sia dell’esistenza di un’opposizione e della sua attività sia del ruolo del governo nei processi decisionali».

Inoltre, spesso si è configurato anche come il luogo della mediazione e negoziazione politica, e quindi come un luogo fondamentale e decisivo: un’attività che forse è stata troppo costosa per il sistema economico, ma certamente utile per quello politico.

Per dare centralità al nostro parlamento, certamente è necessario cambiare la legge elettorale attuale (che elegge un’assemblea di partitanti, non di rappresentanti) e anche superare il bicameralismo italiano, e il suo farraginoso processo legislativo.

 

Luigi Grisolia

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 0, agosto 2007)

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