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Anno IX, n 91, marzo 2015
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno IX, n 91, marzo 2015

Zoom immagine Anime affini
nel percorso
di rinascita

di Giovanna Bruco
Pubblicato da Longanesi,
un romanzo di felici incontri
tra realtà differenti


Sulla quarta di copertina la foto di Massimo Gramellini, che sta un pochetto più in su guardando in alto e dall’alto come si conviene a un angelo ispirato da un amore unico e insostituibile (è appesa a un filo sostenuta da una sola molletta), anticipa quello che sarà nel libro il suo vegliare sulla custodita affidatagli, Chiara Gamberale. In un’immagine appena più in basso, lei tiene gli occhi attenti e la foto che la ritrae è sostenuta da due mollette vicine che, nel corso della lettura, faranno pensare alla nonna deceduta da poco, nella cui casa si è rifugiata, e al suo angelo custode.
Gramellini e Gamberale sono gli autori di Avrò cura di te (Longanesi, pp. 192, € 16,00).

La ricerca dell’anima gemella al di là dei sogni
Dopo l’esergo tratto da Jung «In ognuno di noi c’è un altro che non conosciamo», quel che verrà raccontato è preceduto dal Prologo che qui sintetizziamo.
In una parte nascosta dell’universo, sotto un arco rosa, c’è una coppia di innamorati eterni ritrovatisi lì dopo che la vita li ha separati. L’arcangelo della cura, Rafa-El, si rivolge all’innamorato Filemone indicandogli la custodita che sulla terra ha bisogno del suo aiuto. Temendo di non essere all’altezza dell’intrapresa, l’angelo innamorato chiede assenso all’innamorata eterna che brilla al suo fianco «in un mondo non visibile agli occhi […] dove il cielo ha il colore degli oceani e le nuvole assomigliano a scogli innaffiati di schiuma»: immagine poetica che ritroviamo nell’Intermezzo e poi ancora nell’Epilogo, a suggerire l’esistenza di infiniti mondi possibili a cui attingere per restituire sulla terra «il senso del meraviglioso».
Il tema dell’abbandono, caro a Gramellini, viene a svolgersi attraverso immagini contrapposte nel rapporto uomo-donna, destinate a strutturare le rispettive diverse identità necessarie allo sviluppo dell’Io in relazione con gli altri: genitori, amici, amanti, che vanno accettati e compresi e non giudicati.
Dentro un dialogo schietto, torna l’interrogativo se esista e chi sia davvero l’anima gemella, e in che modo la nostra vita di ogni giorno, «quando le bollette da pagare, l’immondizia da buttare, le cene di famiglia da sopportare salgono con le loro scarpe chiodate sulla vita di coppia e frantumano il sogno di fuga dalla realtà che l’amore promette facendolo a pezzi», possa essere trasformata non tanto più dai sogni o dalle favole, ma da un più compassionevole rapporto con le realtà dei nostri simili, che possiamo investire di amore dopo aver ritrovato noi stessi: «Era il tipo di rapporto che cercavo: provare compassione e farla provare agli altri».

Il travaglio psicologico della protagonista
Gioconda, detta Giò, lasciata dal marito Leonardo (allegro gioco di nomi), che però quando era suo «sbatacchiava contro tutti gli spigoli e spesso non ricordava nemmeno dove lo aveva lasciato», trova nel cassetto della nonna, scomparsa da poco, un biglietto da lei scritto proprio il giorno di S. Valentino per ringraziare il suo «angelo custode» di averle permesso di incontrare e vivere un amore splendido ed eterno. Trovandosi in un momento di grande sconforto, Giò pensa di scrivere anche lei un messaggio all’angelo e, straordinariamente, lui le risponde «ispirandole pensieri che prendono forma sulla carta» e la guida fuori dalla caduta di quel buio interiore che prende dopo ogni separazione “fatta male”.
Scopriamo che Giò è figlia di una madre fricchettona affetta da irriducibile libertà euforica e di un padre troppo amante dei suoi rettili per essere capace di fermarla. Giò è cresciuta con un bagaglio di insicurezze che non le hanno insegnato a volersi bene e l’attenzione dell’angelo Filemone, che tenta di arginare la sua tendenza al vittimismo e al melodramma, addolcisce un po’ per volta il suo carattere che, «per sentire sempre tutto troppo», la spingeva a colpire a caso «roteando un’ascia tra le mani» rischiando tutte le volte di farla rimanere sola col suo desiderio cieco senza capirci mai niente.
Tuttavia, nonostante prima di Filemone nessuno avesse mai detto a Giò «avrò cura di te» e nessuno l’avesse mai ascoltata come lui sa fare, sembra che l’angelo a un certo punto non riesca a risponderle in maniera persuasiva.
Se è vero che ha imparato a prestare più attenzione agli altri – per questo ringrazia l’angelo – Giò, che ha perduto il suo Leonardo ed è fatta di carne, rivendica il suo bisogno di «calore umano». E certi ammonimenti (separare il cuore dalla testa, le emozioni dai sentimenti, e questi ultimi dai pensieri) la portano ad «annegare i suoi progressi nel tono di sfida», e a chiedergli con determinazione di raccontarle della sua vita sulla terra, quando ancora non era nel “Chissà dove”.

La vita di Filemone prima di divenire un angelo
È nelle pagine che seguono l’Intermezzo, dopo che l’innamorata eterna lo ha incoraggiato a proseguire il suo compito col suggerimento «parlale di Noi», che lo spirito non più incarnato «immerso nel calore della luce pura» racconta di quando era in vita. Ci troviamo così, improvvisamente, di fronte a uno scambio di ruoli, e ci consola scoprire che lo stare «oltre il velo» non ha fatto perdere all’angelo la memoria del calore umano.
Nel dirci di essere stato figlio di un falegname, che «lo aveva ribattezzato sciagura» per via di tutte le sedie che faceva storte tanto da sembrare a dondolo anche quando non dovevano esserlo, Filemone fa riaffiorare quella che è stata e continua ad essere (diversamente dalle anime “affini”, che non conoscerebbero mai la passione, e di quelle “complementari”, che sanno adattarsi alle evoluzioni dell’altro) la sua anima “prescelta”.
In una non casuale condensazione di figure femminili, l’immagine di quella figlia della fioraia di cui ci racconta essersi innamorato da ragazzo e «che andava a servizio in una casa di signori e con la sua paga cercava di tamponare l’appetito di una masnada di fratelli più piccoli, che il padre disperso in guerra aveva lasciato orfani» ci riporta all’innamorata indimenticabile che avevamo conosciuto nel precedente libro di Gramellini, Fai bei sogni: «L’adolescente bionda con le mani sporche di carta carbone, dattilografa in fabbrica» che aveva anche lei come fratelli «cinque orfani a stomaco vuoto che era toccato a lei, primogenita, riempire». Ed è certo perché sollecitata dalla freschezza delle domande di quel «groviglio di nervi» che è l'impulsiva Giò (più che una sensitiva protesa verso l'eterno infinito, la percepiamo come un'“anima” reattiva di fronte a quelle che sente come inspiegabili sopraffazioni terrene) che la storia di Goffredo Zanetti, angelo custode della nonna in una delle sue vite, ha il sopravvento sul filosofare del Filemone noto come l’angelo di Jung, dispiegando pensieri e sentimenti legati ad emozioni carnalmente vissute.

Angeli custodi dagli innamorati eterni
La voglia di fare la rivoluzione che Giò aveva fin da piccola e che stentava a ripiegarsi sull’accettazione degli altri, pur anche «senza rassegnazione» (dove ci sia prima un rifiuto interno), quella che le faceva dire «ma fare la rivoluzione non vuol forse dire cambiare le cose?», spinge la protagonista a chiedersi come la nonna Gioconda – che si chiamava proprio come lei – fosse riuscita a costruire col nonno, sua “anima complementare”, una cattedrale di fedeltà per sessantuno anni. Credere nella perfezione umana come facente parte delle leggi dell’universo sembra non calzarle bene addosso. E più che mai non la convince quando verrà a scoprire, proprio tramite l’angelo in cui aveva riposto fiducia, un segreto che la coinvolge mettendo in pericolo la sua propensione a una fedeltà che voleva durasse su questa terra. Lei che ha ancora difficoltà nel «saper distinguere gli amori».
Quando arriviamo all’Epilogo sugli innamorati eterni, il segreto di Filemone, che qui non possiamo svelare se non con un breve accenno a quel «credo di esserlo diventato quel giorno, un angelo», ci fa pensare che sempre, sulla terra, prima del rapporto uomo-donna, c’è quello tra madre e bambino. E questo lo sa bene Giò, quando rivolta al suo alunno Andrea gli dice che «l’amore di sua madre è sicuramente l’unico che non potrà mai sostituire», ricordandoci il padre che in Fai bei sogni dice al bambino «che una moglie si può sostituire ma una madre no». Ma che dire allora delle madri che reprimono i sogni, come quella di Giò, che «le aveva fulminato l’infanzia» e che non aveva capito che fare l’arbitro era il suo talento? Nel ripeterci che «una madre non si può sostituire», cosa vorranno dirci gli autori? Vien da pensare che, rispetto ai molti filosofi che nemmeno intuiscono, scrittori e poeti non sappiano di sapere.
Se la grande madre archetipo che sta a distanze eterne non la si può sostituire, quella sostituibile – e molta letteratura ce lo conferma – potrebbe ben essere un corpo vivente che trasmette un’immagine interna, originariamente concreta nella sua derivazione materiale di rapporto avuto nel grembo materno col liquido amniotico, che insorge quando il feto, dopo aver resistito alle pressioni subite nel canale del parto, crea la vitalità; che nel momento in cui alla nascita la luce investe la retina diventa “capacità di immaginare”. «Ti sei mai chiesta perché le corde suonano? Fanno la resistenza alla pressione. È da quella resistenza che nasce la musica migliore», dice il Filemone Zanetti a Giò, evocandoci il vagito che nell’essere umano diventerà parola dopo un primo pensiero che immagina se stesso nato per cercare incessantemente quel calore da cui proviene, che è certezza di essere nati per stare in rapporto con un altro essere umano. Un rapporto di cui il violino che fu di Zanetti, ritrovato da Giò nella cappelliera dell’armadio della nonna («lei così strana: uguale soltanto a se stessa») richiama all’eco di tanti altri amori possibili perché «è uno strumento delicato e potente, complesso e semplice, come la vita».

L’imperfezione dell’amore
Quando Giò si accorge che il segreto svelato che la sconvolge è lo stesso che la riporterà sulla strada di casa, sarà per aver succhiato il “latte parole” di un angelo che le è divenuto «voce dell’interiorità prima che dell’aldilà», e che le ha fatto capire che Madre vuol dire liquido amniotico da cui tutti ci separiamo alla nascita ma che possiamo ritrovare nel rapporto sessuale con il diverso da noi per la rinascita di un corpo che è mente così come la mente è corpo: «Diffida di chi ti dice che il rapporto sessuale abbassa la spiritualità […] L’anima dell’uomo risiede dentro un corpo e non può fare nulla se non attraverso il corpo». Madre insostituibile che ci fa uguali nel bisogno di latte fisico e poi, dopo uno svezzamento ben riuscito, nelle esigenze di sviluppare i nostri talenti. E nel libro l’identità femminile di Giò – grazie al Filemone figlio del falegname che da un albero oltre alle sedie sapeva farci un violino – recupera la propria immagine maschile: quella che voleva fare l’arbitro e che il padre ofiologo aveva forse dato in pasto ai rettili, complice la madre. La Giò che da bambina, «anziché raccogliere le margherite», dava calci al pallone è alla fine in grado di separarsi e distinguersi dal bambino che abbiamo conosciuto in Fai bei sogni; quello che invece di continuare a trotterellare verso la palla lanciatagli dal padre, per non rischiare di calpestare una margherita, si chinò a raccoglierla per donarla alla mamma trattenendo dentro di sé, in quella che sarà la sua identità maschile, un’immagine femminile mite ma non più troppo remissiva: una nonna Gioconda che tramite lui ha potuto vegliare su Giò riuscendo a «vaccinarla dai sensi di colpa».
Lo svezzamento ben riuscito, che è quello che fa vedere bene con entrambi gli occhi, a conclusione del libro, viene puntualmente rappresentato dai due gemelli annunciati da una ecografia, che saranno un maschio e una femmina, a confermare l’incontro felice e possibile tra maschile e femminile fin dalla nascita. Giò li aspetta sotto le ali di un nuovo angelo cui Filemone, dopo aver deciso di «rientrare nella dimensione della materia per trasmettere agli altri il segreto di un amore incondizionato», l’ha affidata.
Discenderà dal “chissà dove” per “reincarnarsi” con la sua innamorata eterna dopo aver accarezzato «le grandi domande dell’uomo», arrivando alla conclusione che «l’amore perfetto non esiste: quello reale è la somma di tante “imperfezioni”».
Avrò cura di te è un libro che invita ad essere buoni senza dimenticare di dover essere intelligenti per saper amare «senza togliere niente a nessuno». Un trattato delle cose umane che può aiutare le coppie in crisi attraverso constatazioni semplici e non impudiche come: «Ti sembra possibile che un viaggio lungo e accidentato come quello di una coppia possa essere esente da scivoloni e sbandate? […] Un tradimento uccide soltanto gli amori già morti. Quelli che non uccide a volte diventano immortali». Una seducente parabola della trasgressione come salvezza dell’amore eterno che offre leggerezza alla profondità. Una profondità che quando sia necessario passare da «l’aver cura» alla cura si può sempre approfondire. Perché le acquisizioni della moderna psichiatria, che si ispirano alla “teoria della nascita” dello psichiatra Massimo Fagioli, hanno messo in evidenza come l’uguaglianza per nascita degli esseri umani possa stare felicemente accanto alla parola diversità. Maschile col femminile così come ogni nativo con il diverso straniero.

Giovanna Bruco

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 91, marzo 2015)

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