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Anno IX, n 91, marzo 2015
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Problemi e riflessioni (a cura di Mariacristiana Guglielmelli) . Anno IX, n 91, marzo 2015

Zoom immagine Umanitarismo e business:
un pamphlet su Bono

di Guglielmo Colombero
Da Alegre, un’indagine impietosa sulla filantropia
e la beneficienza ostentata dal frontman degli U2


«Bono è più di un semplice dispensatore di beneficenza. Anzi, la sua fama in questo campo non ha niente a che fare con l’uso della sua considerevole fortuna a vantaggio dei poveri. Piuttosto, è un “portavoce” dei poveri, e in quanto tale è diventato un simbolo del carattere essenzialmente benevolo della ricca élite occidentale, che è sempre pronta ad aiutare i poveri del mondo e attende solo un piccolo incoraggiamento e qualche buona idea per eliminare fame e povertà. Questo fa di lui il frontman ideale per un sistema basato su sfruttamento imperialistico e guerre, un sistema che non ha mai cessato di saccheggiare e corrompere». L’autore di The Frontman. Bono (nel nome del potere) (Alegre, pp. 288, € 15,00), Harry Browne, è stato ormai ribattezzato l’anti-Bono. Giornalista e libero docente alla School of Media del Dublin Institute of Technology, è nato in Italia e cresciuto negli Usa, ma da un trentennio vive in Irlanda. Cosa si propone Browne in questo velenoso pamphlet che, con vampate di sarcasmo corrosivo, smantella pezzo per pezzo il mito, apparentemente consolidato, del leader degli U2, filantropo e paladino degli ultimi sulla terra? Lo afferma espressamente nel preambolo: «Niente di personale, Bono, ma temo che uno dei primi passi per chi cerca la vera giustizia sia smettere di comprare il messaggio che vendi».

Poca trasparenza nei bilanci della band
Nel primo capitolo del libro, dedicato alle origini irlandesi degli U2, Browne si propone di «districare i fatti della vita di Bono dalla sua retorica». Nato nel Northside di Dublino, enclave operaia della capitale irlandese, da padre cattolico e madre protestante (entrambi morti prematuramente), Paul Hewson, in arte Bono, si diploma alla Mount Temple. «Niente di più fico e popolare dell’essere un rocker adolescente alla Mount Temple, col suo corpo di studenti più che benestanti» chiosa Browne, sfatando così il mito della futura rockstar cresciuta in mezzo alle strade fangose della periferia. Anche l’atteggiamento pacifista di Bono rispetto alla violenza nell’Irlanda del Nord non convince l’autore: dopo la pacificazione degli anni ’90 «gli U2 e gran parte dell’establishment irlandese e britannico appresero una lingua retrospettiva da “processo di pace”, fatta di rispetto, dialogo e inclusione. Ma non era la loro madrelingua». Gli strali di Browne sono ancora più acuminati in materia patrimoniale e fiscale, un’architettura finanziaria, quella degli U2, che non poca stampa definisce opaca e intricata, perennemente avvolta in una coltre di nebbia fumogena. «Data la struttura e rilevanza planetaria della band, la documentazione consultabile sulle società degli U2 in Irlanda ci dice solo una parte della storia delle loro finanze, e dice ancora meno sul patrimonio personale di Bono. Anzi, i dettagli su cosa facciano queste società non solo lasciano perplessi, ma sono anche alquanto scarni. A un occhio non esperto, il grosso delle attività di alcune di esse sembra consistere nel farsi prestiti a vicenda». Le complicate acrobazie contabili degli U2 che emergono dall’indagine scrupolosa di Browne, con tanto di cifre e di date, generano un gorgo di attivi e passivi che lascia abbastanza frastornati i lettori profani: un gran calderone di investimenti speculativi, titoli bancari tossici, progetti tanto faraonici quanto fallimentari (come la visionaria chimera di erigere la Torre U2 a Dublino). E sulla nomina di Bono a cavaliere dell’Ordine dell’Impero britannico serpeggia l’ironia acida di Browne: «Bono, in ogni caso, rifiutò l’impossibile “Sir” ma accettò riconoscente l’onorificenza, posando per i fotografi in tutto il suo ridicolo splendore, facendo il segno della pace mentre mostrava nella loro custodia aperta i gioielli di quello che Eamonn McCann chiama giustamente “bigiotteria” che indica complicità nello stupro dei continenti».

Un concerto per il cuore di tenebra africano
È opinione largamente diffusa che il concerto Live Aid, tenuto in simultanea a Londra e a Filadelfia nell’estate 1985, abbia coinciso con l’apoteosi degli U2. Browne lo demistifica dall’interno: «L’apice giunse durante Bad, quando Bono saltò giù fino alla transenna che separava il palco dal pubblico, prese tre ragazze dalla folla assiepata e ne abbracciò una in una sorta di ballo lento. Per capirci, la schiena della donna fu inquadrata dalla telecamera più a lungo del batterista Larry Mullen Jr. Rivedendo la sequenza, a colpire di più è il fatto che, in quei diciotto minuti, l’uomo che in seguito associò così saldamente la propria immagine all’Africa non faccia nulla per collegarsi alla missione africana di Live Aid, e ancor meno con la carestia in Etiopia per cui era stata organizzata la raccolta fondi. Se non fosse per la familiare sagoma scura dell’Africa sullo sfondo del palco, non sarebbe possibile distinguere questa da qualunque altra esibizione». E prosegue stigmatizzando duramente sia il narcisismo di Bono («talmente facilone, borioso, auto-compiaciuto ed esibizionista, che ogni legame creato dura un istante») che l’artificiosa amplificazione mediatica del suo viaggio in Etiopia («Bono, nonostante l’attento lavoro fatto nel frattempo nei circuiti degli aiuti all’Africa, non sembra avere alcun problema con l’idea che due giovani europei di città e senza figli possano avere un’influenza tanto duratura sulle pratiche agricole e le gravidanze delle comunità rurali etiopi, concetto disgustosamente coloniale»). L’interesse di Bono per l’Africa assume, agli occhi di Browne, i connotati di un’astuta operazione di marketing finalizzata alla rimozione, all’insegna della solidarietà internazionale, del sedimentato senso di colpa dell’Europa per tre secoli di sfruttamento schiavistico e coloniale del Continente nero: «L’Africa, anziché essere un luogo reale e differenziato, viene trasformata in un progetto per la coscienza occidentale, una specie di vocazione (con o senza connotazioni religiose). Molte analisi acute, elaborate in parte da studiosi africani, criticano senza pietà le strutture politiche e i valori entro cui si colloca il marchio di Bono dell’umanitarismo delle celebrità, sull’Aids e su altre questioni. Dal loro punto di vista, non è eccessivo definire l’attività di Bono come una forma di “imperialismo cognitivo”».

Combattere l’Aids attraverso lo shopping di lusso
Anche su un altro dei più conclamati cavalli di battaglia di Bono, il progetto “(Red)” 2006 per la lotta contro l’Aids, Browne disseziona impietosamente il congegno allestito per ricavarne una poderosa cassa di risonanza: «Di fatto (RED) non è altro che un logo concesso su licenza a un certo numero di partner associati […] che viene impresso su un prodotto o una linea commerciale, con l’impegno che una parte dei profitti finanzino direttamente il Fondo Globale, sostenendo l’acquisto di medicine anti-Aids per gli africani». In pratica, sostiene Browne, ogni donazione filantropica viene abbinata a prodotti superflui quanto costosi, nell’ottica di un consumismo sfrenato: mp3, pc portatili, scarpe sportive, stringhe firmate. «Così le imprese ricevono iniezioni della medicina depurante di Bono mentre il capitalismo consumistico transnazionale ottiene una notevole visibilità sul suo ruolo vitale nel rendere il mondo un posto migliore» sottolinea Browne, e conclude che «la pratica della donazione è sempre più risucchiata nel flusso mercificato del “filantrocapitalismo”».

Il solerte “leccaculo” delle corporation
Anche il sodalizio di Bono con la Apple innesca alcune delle pagine più mordenti del pamphlet di Browne. «Dopo aver definito Steve Jobs il “Dalai Lama dell’integrazione”, Bono disse: “Ecco perché sono qui, per leccare il culo di una corporation. E non lecco il culo a una corporation qualsiasi». Spiega l’autore più avanti: «E per leccare il culo di quell’azienda erano ben retribuiti, sia da Apple che dai media perlopiù accondiscendenti, che vedevano la band, con quella mossa, avvicinarsi a un punto di svolta […] Dovendo infatti valutare la relazione d’amore fra i media da un lato e l’industria dall’altro (con Apple nei panni del santo salvatore e gli U2 al suo fianco), non bisogna sottostimare la profonda integrazione, radicata da decenni, tra i tradizionali media mainstream e il modo in cui le aziende fanno affari e ricompensano i giornalisti». Il teorema di Browne è facilmente intuibile: il marchio (Red) di Bono doveva escogitare una copertura “etica” per poter impunemente comparire, due anni dopo, sull’iPod Apple: «Mentre altri artisti hanno lottato contro l’industria discografica, costruendo itinerari alternativi per raggiungere i propri ascoltatori, una delle più importanti voci sulla scena […] ha deciso di concedere il proprio appoggio a un sistema aziendale di distribuzione musicale altamente centralizzato e closed-source, che utilizza le nuove tecnologie per riprodurre i peccati delle vecchie tecnologie».

La sostanziale ambiguità di fondo del divismo messianico
In chiusura, Browne attenua il tono della sua requisitoria e concede al leader degli U2 perlomeno il beneficio del dubbio: «Non si può dire che il suo impegno non sia sincero, anche se le necessità di una rock band da mezzo miliardo di dollari e la sua società di diritto privato da due miliardi di dollari possono in certo modo interferire con la bontà delle cause che sostiene. […] A queste cause ha dedicato gran parte del suo tempo, accumulando una discreta esperienza politica e organizzativa. Il suo lavoro e le sue campagne sono collegate a effettive conquiste, sia nella riduzione del debito marginale dei paesi africani che nella diffusione dei farmaci contro l’Aids, fino all’alta visibilità della miseria africana che è riuscito a rendere esplicita in alcuni circuiti celebri del mondo occidentale. In queste pagine non abbiamo messo in discussione l’esistenza di questi risultati, quanto il loro significato e gli interessi che rappresentano».

Guglielmo Colombero

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 91, marzo 2015)

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