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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 7 - Marzo 2008

Zoom immagine Il “caso Humbert” e l’ardua scelta
fatta dal dottor Frédéric Chaussoy

di Giuseppe Licandro
La inEdition editrice ha curato la versione in italiano di un libro scritto
da un noto medico francese su accanimento terapeutico ed eutanasia


Luca Coscioni, Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby sono stati, in Italia, i casi più eclatanti di persone inferme che hanno chiesto ai loro medici di interrompere un’esistenza ormai gravosa.  Pur rendendoci conto che il tema dell’eutanasia è molto delicato e ferisce i sentimenti e le convinzioni etico-religiose di tante persone, ci domandiamo come si possano biasimare i tetraplegici che chiedono espressamente di porre fine ai loro tormenti esistenziali o i malati terminali che rifiutano inutili terapie, spesso consistenti in trattamenti medici coatti e dolorosi, che finiscono solo per prolungarne l’agonia.

Nel 2004 Frédéric Chaussoy, medico responsabile del servizio di rianimazione dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, ha pubblicato lo scritto Je ne suis pas un assasin (Oh! editions), nel quale racconta il tragico caso di Vincent Humbert, un giovane pompiere francese di diciannove anni che il 24 settembre 2000 fu coinvolto in un grave incidente stradale.

Ricoverato presso l’Unità dei risvegli dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, Humbert, dopo nove mesi di coma, si ridestò in condizioni disastrose: tetraplegico, muto e quasi cieco. Qualche tempo dopo iniziò a muovere il pollice destro, per mezzo del quale riuscì a comunicare con la madre Marie e a rivolgere all’allora presidente della Repubblica, Jacques Chirac, un appello che fu diffuso dalla stampa ed emozionò la Francia intera.

In questa supplica Humbert chiese di poter esercitare “il diritto di morire”, ma la sua preghiera rimase inascoltata per tre anni, finché la madre non tentò di esaudire il suo desiderio, somministrandogli una forte dose di barbiturici. Trasferito d’urgenza presso il reparto di rianimazione, il giovane ottenne, infine, grazie all’intervento del dottor Chaussoy, quanto aveva lungamente richiesto.

Je ne suis pas un assasin – che ha avuto in Francia un gran successo editoriale, vendendo ben 100.000 copie – è stato ora tradotto in italiano col titolo Non sono un assassino. Il “caso Welby-Riccio” francese (Prefazione di Mario Riccio e Introduzione di Giancarlo Fornari, Edizioni di LucidaMente/inEdition editrice, pp. 176, € 10,00), a cura dell’Associazione “LiberaUscita”, che si batte per legalizzare il testamento biologico e depenalizzare l’eutanasia, e con la collaborazione di Valérie Péronnet.

Nella Prefazione Mario Riccio – l’anestesista che ha aiutato Piergiorgio Welby nella fase terminale della sua vita e che è stato protagonista in Italia di una storia molto simile a quella di Chaussoy – così presenta il libro: «È un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al problema ma lo affronta direttamente. Così come non poteva non fare un medico dell’emergenza».

 

Un’appassionata autodifesa

Non sono un assassino è l’appassionata autodifesa di colui che ha permesso a Humbert di porre fine ai suoi insensati tormenti.

Chaussoy narra tutta la sua vita e redige una sorta di diario, in cui ci fa capire come sia maturata in lui la decisione di aiutare Vincent a morire, alternando il racconto dell’affaire Humbert con brevi excursus sulla propria professione medica e su vicende personali.

L’autore, tra l’altro, ci informa, di un particolare molto importante: in un primo tempo, ha provveduto a rianimare il giovane pompiere il 24 settembre 2003, lo stesso giorno in cui la madre gli ha somministrato i sonniferi.

Due giorni dopo, essendosi nel frattempo interrogato a lungo sulla legittimità dell’eutanasia, decide di confrontarsi con l’èquipe medica del suo reparto per stabilire come procedere: Humbert, infatti, ha subito danni celebrali seri, non ha più ripreso conoscenza e sopravvive ormai tramite un respiratore meccanico. I colleghi convengono con lui sull’opportunità di «interrompere le terapie attive», cioè di non proseguire più il trattamento per mantenere in vita artificialmente il ragazzo.

Chaussoy, a questo punto, compie un gesto coraggioso, senza pensare alle possibili conseguenze legali: stacca la spina del respiratore che tiene artatamente in vita Humbert e gli somministra due dosi di un neurosedativo, che ne accelerano la morte (altrimenti il paziente, senza più ossigeno, sarebbe morto lentamente per asfissia, dopo un’atroce agonia).

 

L'accusa di omicidio e l'assoluzione

Tutti gli atti compiuti da Chaussoy testimoniano la sua serietà professionale e la sua scrupolosità: infatti, egli avrebbe potuto liberarsi subito da ogni impiccio, lasciando che Vincent, giunto nel suo reparto già in coma, morisse avvelenato dai barbiturici. Il suo primo impulso, però, è stato quello di rianimarlo, operando secondo l'usuale prassi deontologica; solo in un secondo momento ha deciso di comportarsi diversamente, assumendosi fino in fondo le responsabilità della propria scelta.

La notizia del decesso di Humbert rimbalza subito sui mass-media. E uno zelante giudice istruttore incrimina per omicidio Chaussoy, dopo aver ricevuto il verbale di un lungo interrogatorio cui è stato sottoposto dalla polizia locale.

Il dottore ha raccontato con lealtà l’andamento dei fatti, ammettendo di aver sedato il paziente dopo avergli sospeso la “terapia attiva”. La sua sincerità gli costa una grave imputazione, che rischia di rovinare la sua vita e quella dei suoi familiari (Chaussoy ha ben cinque figli da mantenere!).

Il medico di Berck-sur-Mer diventa, suo malgrado, famoso e migliaia di attestati di stima e di solidarietà gli giungono da vari colleghi, ma anche da tanti altri cittadini.

L’indagine si protrarrà per un paio di anni, concludendosi nel 2006 con la piena assoluzione di Chaussoy e della madre di Humbert, perché, secondo il giudice, hanno agito in base a ragioni di alto valore umanitario e «sotto l’influenza di una costrizione che esonera gli imputati da qualsiasi responsabilità penale».

 

L’“imprudenza” di Chaussoy

Una frase del libro riassume pienamente la filosofia che sta dietro la scelta di Chaussoy: «Dobbiamo sapere anche fermarci nella lotta contro la morte, con dolcezza e rispetto, quando si è provato troppo a prolungare la vita, e questa diventa indegna». Non sarebbe stato, dunque, un atto di violenza, bensì d’amore quello eseguito dal medico francese. Bisogna, infatti, essere altamente altruisti per trovare la forza di compiere un gesto umanitario che potrebbe comportare dure sanzioni penali.

Chaussoy ci fornisce, altresì, un significativo ragguaglio su ciò che spesso avviene, di nascosto, nei reparti di rianimazione degli ospedali: «La gente che muore nei reparti di rianimazione, superattrezzati di macchine per la vita, muore perché a un certo momento è stata presa la decisione di non utilizzare più queste macchine per mantenerla in vita». La cosiddetta “eutanasia passiva” – che consiste semplicemente nell’interrompere ogni cura per le malattie gravissime e irreversibili – è spesso praticata in silenzio, talvolta accompagnandola “attivamente” con iniezioni di anestetici che servono ad alleviare le sofferenze dei degenti e ne affrettano l’inevitabile decesso.

L’“imprudenza” del dottor Chaussoy, quindi, è consistita proprio nell’aver detto la verità: se avesse omesso i particolari e si fosse limitato a parlare di «sopraggiunte complicazioni», non sarebbe stato coinvolto nell’inchiesta sulla morte del giovane pompiere.

Sull’onda del dibattito fra “colpevolisti” e “innocentisti” suscitato dal “caso Humbert” (che ricorda in certo qual modo l’affaire Dreyfus di fine Ottocento), è stata poi approvata dal parlamento francese una legge che prevede la possibilità per i medici di interrompere le cure dei malati terminali, ma che non contempla, tuttavia, il ricorso ad alcuna forma di “morte dolce”.

 

Eutanasia e testamento biologico

Nelle Appendici del libro sono riportati, oltre a una serie di utili informazioni sull’Associazione “LiberaUscita”, anche la proposta di legge per la depenalizzazione dell’eutanasia e il disegno di legge per la legalizzazione del testamento biologico (i due testi sono stati già presentati in Parlamento nel corso della corrente legislatura).

Senza entrare nel merito delle due proposte di legge ancora da discutere, vorremmo comunque fornire ai lettori alcuni chiarimenti in merito agli argomenti che vi vengono trattati.

L’articolo 32 della Costituzione italiana dispone che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Un’interpretazione corretta di tale articolo dovrebbe comportare che ogni malato, purché sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, possa rifiutare le terapie che gli vengono prescritte, anche a costo di morire. Il disegno di legge sul testamento biologico recepisce questa norma, permettendo a ciascuno di esprimere per iscritto – come spiega Giancarlo Fornari nell’Introduzione del libro – «il proprio consenso o dissenso nei confronti di determinate cure, esercitando così il diritto concesso a tutti i cittadini dalla nostra Costituzione».

L’eutanasia, invece, consiste – usando sempre le parole di Fornari – nel «procurare, in casi prestabiliti e con tutte le necessarie garanzie, la morte di una persona, pienamente capace di intendere e di volere, che la richiede».

Quindi, le due questioni vanno ben distinte e opportunamente valutate.

Ci rendiamo conto che l’eutanasia è una pratica discutibile e assolutamente non generalizzabile. Ma questo non significa che, in talune situazioni di malattia e infermità particolarmente gravi e su esplicita richiesta dell’interessato, non possa essere quantomeno depenalizzata.

Ci pare, viceversa, certamente auspicabile l’approvazione del “testamento biologico”, cioè di una legge che consenta ai cittadini, tra l’altro, di decidere per tempo se accettare o meno il trattamento medico coatto nel caso in cui incorrano in gravissime patologie o in traumi estremamente invalidanti (impedendo così il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che in realtà è solo “accanimento” contro una persona indifesa, perché di “terapeutico” non ha un bel niente!). Sarebbe molto più intelligente, in alternativa, ricorrere per i malati terminali alle “cure palliative”, ossia alla somministrazione controllata di farmaci antidolorifici e anestetici, presso appositi reparti ospedalieri o in cliniche specializzate.

In conclusione, vorremmo citare un altro brano del bel libro di Chaussoy: « Al centro di ogni decisione deve essere l’interesse del malato, e di lui solo». Condividiamo pienamente questo punto di vista, perché siamo convinti che la medicina debba mirare a guarire gli infermi e a lenire il loro dolore senza porsi l’assurdo obiettivo di prolungare all’infinito la vita tramite opinabili artifici terapeutici, che forse servono solo a favorire i guadagni di gente senza scrupoli.

 

Giuseppe Licandro

 

NOTA DELLA REDAZIONE

Non sono un assassino. Il caso "Welby-Riccio" francese sarà presentato per la prima volta a Bologna venerdì 14 marzo, alle ore 17,00, presso la sede dell’Istituto storico Parri dell’Emilia-Romagna, via Sant’Isaia 20  (tel. 0513397211), all'interno di un incontro su: Bioetica e problematiche di fine vita: tra testamento biologico e diritto all’eutanasia. Il caso francese, il caso italiano.

Sono previsti interventi di: Giancarla Codrignani (Istituto Parri), Mario Riccio (prefatore del libro, medico specialista in Anestesia e Rianimazione), Paolo Vegetti (del direttivo nazionale di LiberaUscita), Christiane Krzyzyk (traduttrice di Je ne suis pas un assassin), Angelo Marchesini (consigliere comunale di Bologna) e Rino Tripodi (direttore di LucidaMente).

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 7, marzo 2008)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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