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ANNO I, n° 0 - Agosto 2007
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè) . ANNO I, n° 0 - Agosto 2007

Zoom immagine Il rapporto tra sicurezza nazionale e democrazia
di Daniela Graziotti
Il tentativo di superare il paradigma alla base dell’Intelligence classica
tramite una ricerca che ripone al centro dell’azione il bisogno di etica


In tempo di crisi degli stati nazionali, tutti i soggetti che in qualche modo appartenevano a quel tipo di organizzazione cercano una nuova collocazione sullo scenario di una società politica che ha allargato i propri confini burocratico-politici. Per quanto riguarda i servizi segreti, ad esempio, cerca di ricostruirne le nuove ragioni di esistenza il politologo Alessandro Ceci, studioso da alcuni anni attento ai fenomeni di terrorismo transnazionale, nel recente Intelligence e democrazia. La relazione responsiva nella società della comunicazione (Rubbettino, € 14,00, pp. 178).

Usando un vocabolario colto, fatto di citazioni tratte dai classici della letteratura sociologica e filosofico-linguistica, pone al centro della sua riflessione il concetto di azione politica. Questo tipo di riflessione viene accompagnato anche da considerazioni di natura storico-politica (che a volte necessiterebbero di un’argomentazione meno sintetica). Ci riferiamo, ad esempio, alla ricostruzione sommaria della storia del nostro Paese: sostenendo che dal 1945 al 1983 la forma politica dello stato sia servita a imbrigliare ogni azione politica, ovvero che la forma della democrazia abbia garantito il potere sempre allo stesso ceto politico, Ceci afferma perentoriamente che la democrazia «è stata chiusa per sicurezza». Non lo dice esplicitamente, ma il riferimento cronologico del 1983 coincide con un cambiamento di rotta nella storia dei governi italiani (ricordiamo che proprio nell’agosto di quell’anno un socialista, Craxi, divenne presidente del Consiglio), secondo l’autore forse una boccata d’ossigeno per l’azione politica.

 

Il superamento del paradigma dell’informazione

Il lavoro che ha condotto a questo libro di Ceci parte da lontano se in questo stesso testo, pubblicato nel 2007, egli confessa: «All’inizio del mio studio io credevo come tutti che l’obiettivo dei terroristi fosse principalmente quello di scatenare un panico multimediale con una poltica di deterrenza. […] Dopo l’11 settembre ho capito che vogliono farlo solo in secundis […] è chiaro che il loro vero, nuovo, primario obiettivo è la produzione del vuoto».

Fondamentale per comprendere il pensiero di Ceci è il paragrafo 4.1 (I limiti dell’Intelligence) del terzo capitolo. Qui emerge la tesi-guida del libro: l’Intelligence classica si basava sulla raccolta delle informazioni, mentre quella moderna, se vuol essere vincente, deve appropriarsi del concetto di comunicazione, come paradigma interpretativo. L’autore dice di aver scandagliato tutta la letteratura in materia di “Intelligence”, o almeno «gli autori più significativi» (una curiosità: citandoli in un intero paragrafo, degli stranieri indica nomi e cognomi, degli italiani solo i cognomi che, per la cronaca, sono: Corneli, Germani, Grilli, Liguori, Marotta, Mini, Navarra, Ortolani, Pisano, Politi, Savina e Sidoti), e di aver trovato un solo testo in cui è tematizzata la distinzione tra comunicazione e informazione: L’osservazione per l’intelligence e l’indagine> (Erga Edizioni, 2003) di Amedeo Benedetti.

Grazie a tale impostazione, condivisa dunque con Benedetti, lo stesso Ceci avrebbe previsto, in un convegno del maggio del 2000, il tipo di attentato al centro di New York, poi verificatosi con l’attacco alle Torri Gemelle: «Eppure non avevo alcuna informazione aggiuntiva, anzi, presumibilmente ero ancora molto disinformato. È stato un colpo di fortuna? [sic!] È possibile. Ma io…». Non saremo certo noi a dare conferma che quello sia stato un “colpo di fortuna”.

 

La visibilità del potere: una necessità

Interpretando presumibilmente la società dello spettacolo non dal punto di vista delle masse ma da quello dei controllori delle stesse, l’autore afferma che non esistono più i poteri occulti e che, se anche esistessero, non sarebbero più poteri forti. Infatti, nella società della comunicazione, sarebbero forti soltanto se visibili. Anzi, questa la logica usata dall’autore, sarebbero forti perché visibili e viceversa. Egli dice allora: «Ha prodotto maggiore legittimazione – e quindi potere – all’Intelligence italiana – storicamente percepita come deviata (ma dipende dai punti di vista) – il funerale mediatico e visibile di Callipari [sic!] che la sua vita di prezioso funzionario occultato dalla quotidianità del lavoro». Ed ancora: «L’Intelligence moderno è visibile, sta in tutti i giornali, in mille riviste, in ogni televisione a rivendicare l’insuperabile esigenza della propria libertà di agire. E a evitare accuratamente, proprio con una eccessiva imposizione mediatica e una accurata impostazione paradigmatica, di farci capire».

 

Il concetto di “falsificazione critica” non falsificabile

Di alcuni fatti, usati come esempi, pare in verità che l’autore ci chieda di compiere un atto di fede, di credere senza l’indicazione di una qualsiasi fonte di riferimento, come quando parlando del concetto di “falsificazione critica” dice: «Ai funzionari del Pci […], veniva insegnato a costruire un sistema di comunicazione per il controllo dell’apparato inserendo un informatore in ognuno degli schieramenti contrapposti. Spesso questi informatori erano anche inconsapevoli di esserlo. Tutto doveva mantenersi sul piano dell’amicizia e, talvolta, dell’affetto personale, cioè della relazione interpersonale. Il funzionario doveva riuscire a falsificare l’interpretazione di uno con l’interpretazione dell’altro (connessione), direttamente (nodo), senza altra forma di mediazione che avrebbe potuto, in qualche modo, corrompere la procedura».

L’autore usa operare una sorta di montaggio di citazioni, tratte dagli autori di riferimento, funzionale al suo discorso. La nozione di “Intelligence” finisce in tal modo per assumere il ruolo di soggetto anche in argomentazioni tratte da altri autori e certamente distanti concettualmente. Citando ad esempio L’essere e il nulla di Sartre, Ceci spiega: «Svelare l’occulto sulla base esclusiva delle informazioni, così come è stato finora definito l’Intelligence, significa ritenere che ci sia un “reale nascosto”, una realtà precostituita e ignota che deve essere riconosciuta e conosciuta».

 

La speranza rappresentata dall’etica

Secondo l’autore, l’agire politico sarebbe oggi il solo modo per orientarsi nel mondo della comunicazione. Ricostruendo probabilmente un percorso personale, dice: «Hannah Arendt ce lo ha insegnato. Jurgen Habermas ce lo ha spiegato. Ma noi, grandi esperti della comunicazione e dell’Intelligence, non lo abbiamo capito. Molti di noi non lo hanno nemmeno mai saputo». Il finale del libro è una critica all’azione non indirizzata dall’etica. Il potere per il potere non è un fine giustificabile. Assistiamo ad una sorta di sfogo: «Io l’ho visto il potere. Quando improvvisamente ha colorato di alterigia il volto di uno, che prima era mio amico, e poi è diventato un ruolo. L’ho visto sul volto nella indifferenza colpevole di un rettore di provincia, il tiranno della ragione in toga di ermellino, che con un ghigno cancella mille speranze…» e così via fino a «E li vedi, questi individui che, unti di un qualsiasi potere che li ha trasformati in un ruolo, avanzano con la baldanza dei sergenti, contornati dalla titubanza delle reclute».L’etica rappresenterebbe dunque la possibilità di sperare ancora: «Ieri era l’inserimento dei proletari – come si diceva – nelle maglie della produzione di una società industriale che li escludeva e troppo spesso li uccideva. Oggi è il problema della comunicazione democratica, del luogo in cui poter scambiare identità e progetti. Domani lo chiameremo lo spazio di interattività della società che va esteso per permettere non solo la partecipazione, la realizzazione autonoma e forse automatica delle nostre reciproche speranze». La conclusione non potrebbe che essere pertanto: «Senza etica l’Intelligence è una costante minaccia alla nostra serenità e alla nostra democrazia».

 

Bonaventura Scalercio

 

(www.bottegascriptamanent.it,, anno I, n. 1, agosto 2007)

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