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Comunicazione e Sociologia (a cura di Ilenia Marrapodi) . Anno VI, n. 62, ottobre 2012

Zoom immagine Il linguaggio
nelle ere tv

di Angela Patrono
Da Carocci editore,
il piccolo schermo,
scrigno linguistico


Amata o denigrata, scatola magica o scatolone vuoto, la televisione ha indubbiamente contribuito a plasmare l’italianità nella sua essenza, non solo in virtù del suo iniziale intento pedagogico, ma anche per la sua capacità di aggregazione, attirando spettatori di ogni regione e strato sociale. Tale differenziazione sociolinguistica ha comportato un conseguente rimodellamento del parlato, sviluppando nuovi fenomeni di oralità. La televisione ricrea comportamenti linguistici grazie alle infinite varietà che la contraddistinguono: è questa la tesi espressa dalle linguiste Gabriella Alfieri e Ilaria Bonomi nel saggio Lingua italiana e televisione (Carocci editore, pp. 144, € 11,00). Il libro traccia una fondamentale distinzione, mutuata da Umberto Eco, tra «paleotelevisione» (1954-76), con intento principalmente divulgativo e destinata a pubblici differenziati, e «neotelevisione», che segna l’avvento della tv commerciale rivolta a un pubblico generalista. L’abisso tra le due ere televisive è notevole, in quanto quella contemporanea presenta una testualità all’insegna dell’ibridazione tra i media: ormai radicato è l’uso di ricevere sms, email o commenti da Facebook in trasmissione, nonché, dagli anni Ottanta, le telefonate degli spettatori, «con conseguente sdoganamento delle pronunce regionali e abbassamento dei registri lessicali». Il saggio di Alfieri e Bonomi presenta una carrellata di esempi tratti da vari generi televisivi della neotelevisione per descrivere la pluralità di registri e situazioni comunicative in essi presenti.

 

La sfida contemporanea: informare intrattenendo

Le autrici operano un primo distinguo tra informazione pura, quella dei tg e degli approfondimenti informativi, e infotainment, ibrido tra informazione e intrattenimento. Di quest’ultimo tipo fanno parte i talk shows (Porta a porta, Ballarò), la cosiddetta «tv del dolore» (Chi l’ha visto?) e vari sottogeneri come i contenitori di attualità (I fatti vostri, La vita in diretta) e i programmi satirici (Striscia la notizia o Le Iene). Sembra scontato che i telegiornali presentino un lessico più sobrio e misurato, una conduzione più pacata e più attinente alla testualità scritta che all’oralità, ma non sempre è così. Un conduttore come Enrico Mentana, che ha impostato il suo Tg La7 sul modello di un anchorman americano, produce un’oralità non priva dei colloquialismi tipici di un discorso a braccio. Ma anche i telegiornalisti classici, dalla fine degli anni Novanta, si sono scrollati di dosso quell’aria un po’ ingessata per avvicinarsi al linguaggio comune: è così subentrata una terminologia contraddistinta da voci come pizzini, sballo, farla franca, baccano, per un pelo. Lo stile di conduzione dei talk shows politici varia da quello pacato di Giovanni Floris in Ballarò a quello esuberante di Gad Lerner ne L’Infedele, fatto di voci colorite (sbolognare), metafore (rebus, lotteria, trappola) e neologismi (tremontismo). Se nella «tv del dolore» primeggiano l’aggettivazione (sconvolgente, eccezionale) e gli stereotipi (gesto estremo), nei programmi di approfondimento intrattenitivo come Apprescindere di Michele Mirabella predominano i cultismi e il registro oscilla tra serio-elevato e leggero, mentre nella controinformazione di Striscia la notizia domina un parlato improvvisato con frequenti concessioni al dialetto (come nella conduzione dei siciliani Ficarra e Picone). A questo proposito, tra le inflessioni regionali dei protagonisti televisivi è il romanesco a farla da padrone, sia nella fiction che nel linguaggio dei conduttori (come Paolo Bonolis, Pippo Baudo e Mara Venier, gli ultimi due non romani di origine), il che evidenzia la volontà precisa di localizzare a Roma la capitale linguistica del piccolo schermo. Nel frattempo, game shows come Affari tuoi e fiction geograficamente connotate come Un posto al sole e Il commissario Montalbano hanno veicolato pronunce e tratti linguistici regionali, spesso caratterizzati dal fenomeno della commutazione di codice o code switching, ossia la continua alternanza e mescolanza tra italiano e dialetto. Una nota a parte per il cosiddetto «doppiaggese», il “vizio” di tradurre alla lettera costrutti ed espressioni tipicamente inglesi nelle fiction importate, con risultati ormai entrati nell’italiano standard come Qual è il tuo nome?, traduzione letterale di What’s your name? al posto di Come ti chiami?.

 

Una lingua per tutte le stagioni… televisive

Alla fiction e alla sua capacità «rimodellante» di riprodurre un «italiano “oralizzato”» è dedicato un ampio capitolo del saggio. La fiction, infatti, «rientra nelle forme collettive di identificazione e fruizione simbolica della produzione narrativa»: per questo motivo il suo italiano ricalca il parlato medio, con una varietà di registri che rispecchiano gli usi della lingua contemporanea (come, ad esempio, i pronomi lui, lei, loro come soggetto, aperture al turpiloquio e abbondanza di segnali discorsivi: allora, va bene, insomma, cioè, ecc.).

Anche i programmi divulgativi come l’intramontabile Superquark, Ulisse o La storia siamo noi presentano un registro variabile a seconda dello stile di conduzione, serio e didascalico quello di Piero Angela, più informale e vivace quello del figlio Alberto, incalzante e metaforico quello di Giovanni Minoli. In particolare, l’accessibile linguaggio divulgativo degli Angela tende all’attualizzazione del passato e all’analogia (è una roccia durissima che si spezza come un biscotto), mentre lo stile enfatico di Minoli tende all’iperbole e all’elencazione.

In ogni caso, la bilancia televisiva pende decisamente in favore dell’intrattenimento. Una tendenza diffusa, che ha portato a coniare neologismi come il già visto infotainment, infosportainment, «compresenza di sport, informazione e intrattenimento», ed emotainment, indicante quei talk shows come C’è posta per te o Uomini e donne, basati sulla «teatralizzazione» dei sentimenti, contrassegnati dalla «totale assenza di registri espressivi e brillanti» e da tratti linguistici «al confine tra neostandard e substandard». Da qui al turpiloquio e alle volgarità dei realities, il passo è breve.

Scenari a tinte fosche per l’italiano del piccolo schermo, dunque? Non necessariamente. Il saggio di Alfieri e Bonomi mette in evidenza una lingua duttile e vivace che si presta alle più varie situazioni comunicative, spesso accompagnandosi alla dimensione iconica, ormai sempre più presente. Interessante il capitolo dedicato all’analisi della tv dei ragazzi, con l’incontro-scontro sul terreno linguistico tra cartoni per bambini come Winx club e cartoons destinati a un pubblico adulto come I Simpson e I Griffin. Colpisce inoltre l’elogio della “Ghigliottina”, il celebre gioco linguistico del game show di Raiuno L’eredità basato sull’associazione di idee, lodato perché stimola i telespettatori «alla riflessione metalinguistica». Qualche ombra, dunque, ma anche molte luci, su un mezzo di comunicazione dalle innumerevoli possibilità ancora da sfruttare.

 

Angela Patrono

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 62, ottobre 2012)

Collaboratori di redazione:
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