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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VI, n. 60, agosto 2012

Zoom immagine Echi insondabili
e specchi interiori
in versi incalzanti

di Angela Patrono
Fermenti ci offre un’antologia poetica
costellata di enigmatiche suggestioni


Ammettere di fare poesia, al giorno d’oggi, è sintomo di nobile spavalderia, di sublime incoscienza. Non solo perché, com’è noto, Carmina non dant panem, ma soprattutto perché essere poeti richiede un requisito dolorosissimo ma necessario: l’avere «troppa vita nel sangue», come Antonia Pozzi confidava alla carta. Proprio la poetessa milanese, morta suicida a soli 26 anni, è una delle guide ispiratrici di Alessandro Vetuli, classe 1989, studente di Lettere moderne a Roma. Numerose sono le influenze del giovane autore: da Charles Baudelaire a Arthur Rimbaud (definito da Vetuli «fratello»), da Alda Merini a David Maria Turoldo. Il suo variegato percorso si traduce in un pellegrinaggio in versi sulle tracce dei grandi che l’hanno preceduto nella ricerca di poesia e spiritualità. Nasce così la silloge Come la pietra e il vento (Fermenti editrice, pp. 92, € 12,00), ideale prosieguo ai due precedenti lavori L’invisibile (2009) e Lo spirito e il corpo (2010).

Il libro si divide in tre parti: La pietra, Il vento e Frammenti per Arthur Rimbaud, quest’ultima un’elegia dedicata al poeta francese e alla sua esistenza breve e sregolata.

 

Una pietas che riconosce la “persona” dietro il “personaggio”

La pietra e il vento, due temi antitetici quanto complementari: materia grezza ed etere inafferrabile, pienezza e leggerezza. Eppure, la pietra, pur levigata e scalfita dal vento dell’eternità, resiste alle intemperie, diventa runa divinatoria, monile dipinto, per chi sa riconoscere la sua dignità. Allo stesso modo, una persona cara al poeta è «l’olmo e la quercia / il tronco infrangibile / condannato a vedere amore in tutte le cose / è la radice estirpata da tutti i terreni / perché troppo sensibile». Uno sguardo ricco di pietas quello dell’autore, che riesce ad estrarre intatta l’essenza vitale di cose e persone, specchi parlanti che riflettono di rimando il suo sentire e la sua carica di umanità. L’empatia di Vetuli avvolge anche il mistero del suicidio e le grandi poetesse che compirono questo gesto estremo (Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli), a cui l’autore si rivolge con un disarmante «tu», tracciando un unico cerchio perfetto ad accomunare queste sorelle nello spirito. Si scava con delicatezza nella psiche di queste donne, prima che letterate, dal carico emotivo ed esistenziale troppo ingombrante, che si sacrificarono «nella non accettazione di un male / che è frumento d’ombra, / patiboli preparati all’alba».

Diversi sono gli omaggi ad altri tormentati giganti della letteratura, tra cui Dylan Thomas. La commovente Corpo di poesia, dedicata ad Alda Merini, colpisce per la ricchezza delle immagini e per la tenerezza con cui viene ricordata la grande poetessa, «albero secolare dell’ironia», lucida e irrazionale insieme, con la sua spiritualità scandita da picchi mistici e slanci terreni. La lirica delinea la sacralità di un verbo poetico fatto carne nel corpo di quel «goffo angelo in pigiama» che con i suoi versi ha scosso le coscienze dei benpensanti.

 

Sulle orme di eremiti e mistici

L’autore è consapevole che «ogni volta che leggi una poesia / scuoti rami, radici e ancore». Poesia, dunque, è continua rivoluzione interiore, guizzo dell’intelletto e capacità di adottare le mille potenzialità della lingua. Ma soprattutto illuminazione. «Sono andato nell’orfanotrofio della poesia / miriadi di bambini di luce / mi hanno guardato / Ma uno solo mi ha sorriso / e mi ha preso per mano».

Anche lui ha provato a «scrivere sull’acqua come Keats», altro grande nome e altro giovane virgulto poetico sradicato troppo presto. Nelle liriche di Vetuli, i sensi si affinano, diventando rarefatti, autentici, nella consapevolezza che «il silenzio è la miglior poesia / che sia stata mai scritta». La sola musica da ricercare è quella che produce il «sandalo dell’eremita» o «l’arpa millenaria di muschio», per tendere all’esperienza della levità, quando i calzari ormai consunti si distaccano dal suolo.

Il poeta sente forte il contatto con lo spirito del luogo, incarnato in viandanti che hanno tracciato le loro orme per ripidi sentieri di montagna, aprendogli la strada della conoscenza. Questi mistici non luoghi si schiudono all’iniziato con l’intervento di singolari compagni di viaggio: S. Bernardo Tolomei all’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Dino Campana e S. Francesco al santuario della Verna. Nascono così liriche come Il letto di San Francesco e Il saio di San Francesco, ispirate dalla visita alla Verna dove si conservano il “giaciglio” di rocce e la logora veste del Poverello di Assisi. L’autore dipinge un ritratto del santo diviso tra ascesi, tormento e amore per gli ultimi: «Continuavi a cercare una posa / sul cuscino secolare della montagna», «Correvi perché avevi fame, / fame dell’uomo strisciante / annidato nelle latrine, nei vicoli e nei nascondigli». Altro compagno di letture mistiche è David Maria Turoldo, celebrato in una lirica che ne mette in luce la triplice essenza di frate, poeta e viandante.

 

Il pathos dei poeti, un interrogativo irrisolto

Vetuli sente il grido universale dei poeti, straziati da una domanda pressante: «Dove finisce il poeta ed inizia il martire?» E l’eco di quel grido viene da lui tradotta in versi dolenti ed ispirati, ricchi di immagini incalzanti ed efficaci. Ma l’interrogativo ultimo non accenna a sbiadire: «Ancora ce lo chiediamo / perché i poeti / sono sempre i primi a morire / e gli ultimi a vivere». Una domanda senza risposta, che può trovare conforto solo in un’epifania illuminata: «Gli scalpelli del vento / si insinuano nell’immobilità della schiuma / dove si modella dolcemente / il volto azzurro della pace».

 

Angela Patrono

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 60, agosto 2012)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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