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Comunicazione e Sociologia (a cura di Cecilia Rutigliano) . Anno VI, n. 60, agosto 2012

Zoom immagine Un cammino verso Betlemme,
alla ricerca dell’atteso Messia

di Luciana Rossi
Un intenso romanzo storico che intreccia violenza e passione
e riconduce nella Palestina di duemila anni fa. Da Città del sole


«Velleio e Rufo si avvicinarono ancora, arrestando i loro cavalli a poca distanza dalla croce. Contemplata dal basso, sembrava enorme, con l’effetto di rimpicciolire il corpo inchiodato, che appariva discosto e proteso in avanti, quasi in bilico. Alcuni corvi affamati volteggiavano x sem­pre più vicini, e uno sciame di mosche variopinte pullulava sulla pelle del condannato, costellata di piaghe bluastre e di sangue raggrumato. Una massa impolverata di capelli unti e incrostati di sporcizia gli nascondeva la faccia. Velleio fis­sò attentamente il torace dell’uomo crocifisso, e un brivido gli serpeggiò lungo la spina dorsale, quando scorse un tenace residuo di vita palpi­tare in quel corpo martoriato.» L’atroce agonia di un ribelle ebreo crocifisso dai romani sulla strada per Emesa, nella Siria dell’“anno zero” dell’Era cristiana, è una delle prime immagini forti, che colpiscono il lettore come un pugno nello stomaco, in Ombre a Betlemme (Città del sole, pp. 336, € 15,00), terza fatica letteraria dello scrittore torinese Guglielmo Colombero (dopo Himilce la sposa di Annibale, 2007, e Tomyris la signora delle tigri, 2009, pubblicati da Falzea editore), appartenente al filone consueto di questo autore, il romanzo storico. Stavolta però l’impianto è corale, dato che nei precedenti romanzi le protagoniste erano due donne dell’antichità, rispettivamente la moglie di un grande condottiero e la regina di un popolo guerriero del Caucaso.

Ombre a Betlemme si articola invece attraverso un meccanismo narrativo assai più complesso. Spaziando contemporaneamente in quattro ambientazioni diverse (il palazzo di Musa a Seleucia sul Tigri; la città di Emesa in Siria; la dimora di Herodes a Sephoris in Galilea; la grotta che ospita la setta degli Zeloti presso Gamala, fra Siria e Palestina), Colombero incardina la sua storia su una meta comune a tutti i suoi personaggi: Betlemme, piccolo villaggio sperduto della Giudea, indicato secoli prima dal profeta Michea come il luogo in cui sarebbe nato il Messia del popolo d’Israele.

A Seleucia, Musa, regina di Persia, incarica l’anziano Balthasar, sommo sacerdote del culto di Zaratustra, di trovare il bambino di Betlemme ritenuto il Messia e di portarlo da lei: il suo trono vacilla, e siccome anche Zaratustra aveva predetto l’avvento di un Redentore, Musa intende servirsi di quel bambino per rafforzare lo scettro appena impugnato da suo figlio Phraatash. Il giovane tribuno romano Velleio (come Musa, personaggio storico realmente esistito, che in quel periodo si trovava proprio in Palestina, come riportato in una Storia di Roma che Velleio scrisse poi in età matura) viene invece spedito a Betlemme per ordine dell’imperatore Augusto: a Roma si è sparsa la voce che il bambino di Betlemme possieda la capacità di guarire le malattie, per cui Velleio dovrà rintracciarlo e portarlo nell’Urbe. Anche Qausanal l’edomita, uno spietato sicario assoldato dal tetrarca della Galilea HerodesAntipa, ha il compito di scovare quel bambino e di recidergli la gola, dato che potrebbe suscitare un’insurrezione del popolo ebraico contro la dominazione romana, di cui Herodes è vassallo. Infine, Yehouda, cinico e ambizioso capo degli Zeloti (anche lui storicamente esistito), manda a Betlemme i suoi due fratelli, Shimon e Menahem, perché trovino e conducano presso di lui il futuro Messia, sul cui capo intende porre la corona di David.

 

Un pellegrinaggio interiore che cambierà il destino di tutti

Le vicende personali dei singoli personaggi, quindi, s’intrecciano durante il cammino verso Betlemme, e il viaggio diviene emblematico, evolvendosi verso la ricerca non solo di un bambino che funge da catalizzatore, ma della vera identità di ciascuno, profondamente rimessa in discussione. Il teorema di fondo che emerge nell’epilogo del romanzo (attenzione! Con un’importante rivelazione contenuta non nell’ultima pagina, ma nell’ultima riga!) ribadisce la visione filosofica di Colombero: sangue chiama sangue, chi è contaminato dall’odio prima o poi ne resterà distrutto, mentre chi crede nella pulsione rigenerante dell’amore forse potrà continuare a vivere.

Le rifiniture dedicate alla descrizione dei paesaggi sono sempre in qualche modo simbiotiche con gli stati d’animo di chi li sta percorrendo: «l’aria profumava di pane all’orzo appena sfornato, e dalle stradine strette e tortuose che s’inerpicavano lungo la collina, su cui erano appollaiate le case, si diffondeva dappertutto l’odore inconfondibile del fieno secco e della pula appena sbattuta». E poi lo sfavillio delle gemme, il sapore delle spezie, la persistenza dei profumi nelle narici: Colombero stimola continuamente tutti e cinque i sensi del lettore, per immergerlo totalmente nell’epoca tanto affascinante quanto crudele che tenta di far rivivere nelle sue pagine. La violenza si scatena a intervalli cadenzati, con furia brutale e spesso incontrollabile: crocifissioni, torture, stupri, sgozzamenti rappresentano senza veli la cruda verità di un periodo storico in cui la vita umana non possedeva alcun valore, e i corpi di uomini e donne subivano ogni genere di oltraggi. E quando il furore bestiale dell’odio rifluisce come la bassa marea, Colombero ci offre squarci di soffusa tenerezza: «L’amaca oscillava lievemente a ogni suo respiro, e il corpo tiepido di Najeeba, quasi rannicchiata su di lui mentre dormiva placida come una bambina sazia di latte, gli infondeva un languore struggente in cui palpitava un barlume di malinconia. Le riflessioni di Velleio fluivano lente, come gabbiani che si lasciano trasportare dalle correnti ascensionali, e il profumo di mirra, diffuso dalla chioma di Najeeba sparpagliata sul suo petto, gli ristagnava deliziosamente nelle narici».

 

Eros e Tanathos, odio e amore, violenza e tenerezza

Ombre a Betlemme rappresenta una tappa fondamentale nel percorso letterario di Colombero, 55 anni, ex informatico che dal 2005 si è riconvertito come libero professionista nell’ambito dell’Editoria e della Comunicazione. Una maturazione stilistica, la sua, che aspira e si accosta alla pienezza: un ritmo narrativo incalzante, immune da sbavature e lungaggini, la capacità di concentrare in poche pagine moltissimi eventi senza mai smarrirsi in una trama notevolmente complessa. Abbandonato ogni compiacimento autoreferenziale, Colombero conserva intatto il raffinato involucro formale che riveste la sua prosa, ma la depura dagli orpelli e la rende più sobria e incisiva.

Il racconto si snoda scorrevole e avvincente: gli ingranaggi del page turner stavolta risultano meglio lubrificati. Conformemente ad una sua consolidata vocazione, Colombero tratteggia numerosi ritratti femminili con fine introspezione psicologica: Hadiya, la ragazza incinta dal viso simile a «una maschera setosa di borace in cui spiccavano le falci arcuate delle sopracciglia», innamorata di Qausanal dopo che l’edomita l’ha salvata da un tentativo di stupro collettivo; Najeeba, la sensuale ancella siriana dagli occhi «scintillanti come more selvatiche umide di rugiada» che fa impazzire di desiderio Velleio; Musa, la regina di Persia «astuta come una volpe e velenosa come uno scorpione» ma anche maternamente protettiva verso il giovane e fragile figlio Phraatash, da lei collocato sul trono; Erato, la seducente e malinconica principessa armena dall’attaccatura del seno simile a «una conca di pelle vellutata, intrisa di fragranza cipriata», invaghita di Velleio.

Anche le figure maschili lasciano il segno: nel personaggio del tribuno romano, l’edonista e disincantato Velleio, Colombero infonde una notevole simpatia, parteggiando apertamente per la sua tollerante laicità opposta al sanguinario fanatismo religioso dei suoi nemici Zeloti. «Il nostro non è il migliore dei mondi possibili, ma è anche abbastanza distante da quello che potrebbe essere il peggiore…» afferma infattiriguardo al dominio di Roma sul mondo conosciuto. L’ombroso e tormentato Qausanal, invece, che odia gli ebrei e si compiace quando ne uccide qualcuno a causa di un atroce segreto racchiuso nel suo passato, si dibatte in un insanabile conflitto interiore: «L’odio e l’amore si stavano affrontando dentro di lui, lo dilaniavano, lo spaccavano a metà, e Hadiya non riusciva a capire quale delle due forze fosse destinata a prevalere. Forse Qausanal sarebbe rimasto ancora in bilico fra lo slancio di generare una nuova vita e l’impulso di sopprimerne altre per affogare nel sangue quel ricordo che lo ossessionava.» E alcuni personaggi di contorno, delineati con pochi e rapidi tocchi dai toni estremi, difficilmente si dimenticano: Menahem, lo zelota balbuziente e deforme che uccide con una specie di sadica voluttà; Sevug l’armeno, l’impassibile torturatore al servizio della regina Musa che tormenta i corpi dei prigionieri con metodica precisione chirurgica; oppure il godereccio sovrano di Emesa, Shamsigeram, che, senza alcun imbarazzo, mescola i piaceri del sesso a quelli della gola nel corso di un banchetto orgiastico, con tanto di “sballo” finale a base di succo di papavero.

 

Un susseguirsi di emozioni contrastanti in puro stile barocco

Non è facile scendere a compromessi con il modo di raccontare di Colombero: lo si può apprezzare o detestare nella stessa identica misura. Chi ama le sensazioni intense, i colpi di scena teatrali, la densità dei dialoghi e la profondità delle riflessioni, non rimarrà sicuramente deluso. Chi invece ama la narrativa all’americana, volta a tenere desta l’attenzione con artifici ormai noti, ma pur sempre in voga, è meglio che non stia a perdere tempo con i romanzi di questo scrittore.

Ombre a Betlemme è una suggestiva tavolozza di sfumature ora tenui ora violente: può far accaponare la pelle con descrizioni raccapriccianti oppure soffermarsi con fine pudore su una carezza talmente delicata da sembrare quasi impercettibile.

Quattro diverse culture si confrontano, incarnate nei vari personaggi convergenti verso Betlemme: il monoteismo ebraico, con la sua ortodossia; l’edonismo pagano, che sprigiona già i primi miasmi di decadenza; il politeismo orientale, che fa convivere tante divinità senza credere in nessuna di esse; lo spirito tribale dei beduini, ancora legati agli idoli totemici del deserto. L’attesa del Messia, condivisa da tutti i personaggi più o meno direttamente coinvolti in questa svolta epocale, innerva una tensione quasi palpabile tra le pieghe del racconto: «Forse da Betlemme si sta levando il soffio premonitore di un vortice devastante destinato a travolgerci tutti…» pensa Musa leggendo una delle lettere che gli ha spedito Balthasar. E la conclusione del romanzo, che lascia spazio alla libera interpretazione del lettore, è una finestra aperta su un nuovo orizzonte della Storia.

 

 

Luciana Rossi

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 60 agosto, 2012)

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