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Scienza politica (a cura di Mariangela Monaco) . Anno II, n° 5 - Gennaio 2008

Zoom immagine La riforma delle Nazioni Unite: i temi dibattuti
di Mariangela Monaco
Un interessante testo edito da il Mulino raccoglie le diverse tematiche
sui cui si discute, con particolare attenzione al Consiglio di Sicurezza


Si parla poco delle Nazioni Unite. Entrano in gioco, nei mass-media, solamente in momenti di crisi e, raramente, in determinate occasioni. Ultimamente, per esempio, si è data notizia dell’approvazione di una risoluzione (l’ennesima) in Assemblea generale che invita gli Stati Uniti a togliere l’embargo decennale imposto a Cuba, e della moratoria della pena di morte. Entrambe risoluzioni simboliche, in quanto non hanno alcun valore vincolante, ma apici di un’attività molto intensa. Infatti, l’Onu non è solo il Consiglio di Sicurezza chiamato ad intervenire (o scavalcato, come nel caso nella guerra irachena) in situazioni di crisi internazionali: è formata anche da altri organi e da diverse Istituzioni specializzate e fondi (come l’Unicef), che svolgono i compiti cui sono preposti. Dal punto di vista degli studiosi di Relazioni internazionali una questione molto dibattuta concerne, preso atto dell’impossibilità politica, politologica e giuridica che l’Onu sia il “governo” del mondo, la necessità di una riforma del sistema Onu. Certamente, non per diventare un sistema di governo (inteso come government) ma, perlomeno, sede reale della governance globale. Alle proposte teoriche della “democrazia cosmopolitica” e a quelle meno ambiziose, e più verosimili, dell’Onu quale espressione di un ordine internazionale basato sul concerto (per approfondire, clicca qui)è comune l’idea che le Nazioni Unite siano piene di potenzialità inespresse. Non bisogna dimenticare, infatti, che sono l’unico luogo considerato legittimo per prendere determinate decisioni da tutti gli stati, oltre ad essere sede di continui contatti, discussioni e lavori diplomatici.
Durante la Guerra fredda sono state l’arena in cui si è combattuta il conflitto medesimo, con veti incrociati, spaccature dovute alla bipolarizzazione del sistema internazionale e paesi che cercavano di uscire da tale logica (i non-allineati): nonostante ciò, le Nazioni Unite si sono adattate alle condizioni del Secondo dopoguerra e non sono cadute nella paralisi (come invece era successo alla Società delle Nazioni dopo il 1919). Ciò grazie al funzionamento previsto dalla Carta delle Nazioni Unite – caratterizzato da un certa flessibilità decisionale –, ma anche ad un adattamento “spontaneo” alle norme del diritto consuetudinario, ad un’interpretazione evolutiva della stessa Carta – nascente dalla teoria dei poteri impliciti (che si applica a molte organizzazioni internazionali, Unione Europea compresa) –, alle modifiche dei regolamenti interni degli organi dell’Onu.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, sono seguiti momenti alti, come la Prima guerra del Golfo, e bassi, come la missione in Somalia, che hanno reso ancor più evidente la necessità di una riforma, in particolare dell’organo che, dal punto di vista dell’azione, è sicuramente il più importante: il Consiglio di Sicurezza.

Quali riforme per le Nazioni Unite?

Un saggio di Andrè de Guttry e Fabrizio Pagani, dal titolo Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di sicurezza collettiva (il Mulino, pp. 224, € 12,00) affronta proprio, in maniera dettagliata, tutta la quaestio della riforma.

Dopo tre capitoli introduttivi, in cui, rispettivamente, vengono brevemente illustrate la genesi storica dell’Onu, i principali organi e compiti e le procedure e i meccanismi di riforma, si entra nel cuore della tematica. Si rileva intanto che le uniche modifiche formali della Carta finora approvate sono tre emendamenti (la procedura è disciplinata dall’art. 108) relativi uno alla composizione numerica del Consiglio di Sicurezza e due a quella del Consiglio economico e sociale, che sono diretta conseguenza della decolonizzazione e della volontà di Usa e Urss di avere nuovi “proseliti” per i loro rispettivi blocchi. Nonché delle riforme che gli autori definiscono «spontanee»: prima fra tutte, le missioni di peace-keeping, le quali non sono previste nella Carta.

Quindi si passa ad esaminare in maniera specifica le ipotesi di riforma, con attenzione particolare al Consiglio di Sicurezza, partendo dagli obiettivi: «Migliorare l’efficacia del sistema, aumentare la rappresentatività delle istituzioni, rendere la presa di decisioni più democratica e più rapida, modernizzare i principi e le procedure in linea con l’evoluzione del sistema internazionale».

Rilevano gli autori che tali obiettivi si traducono fondamentalmente in quattro proposte:

a)      la modifica della composizione del Consiglio di Sicurezza;

b)      la democratizzazione del suo processo decisionale;

c)      l’aggiornamento degli strumenti a sua disposizione;

d)      la modifica dei principi alla base del sistema di sicurezza collettiva.

In relazione al primo punto, risulta evidente che il problema è rappresentato dalla scarsa rappresentatività: quindici membri, di cui cinque permanenti (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna), in un sistema internazionale che sfiora i 200 stati! Al tale fine in particolare vengono analizzate cinque proposte:

a)      il quick fix, circolata per diversi anni, anche se mai formalmente, e che oggi sembra accantonata, che prevede di far diventare Giappone e Germania membri permanenti (sarebbe poi da vedere se con o senza potere di veto). Questo sarebbe lo scenario peggiori per i paesi in via di sviluppo, che non avrebbero alcun seggio, e anche per alcune medie potenze, come l’Italia, che si vedrebbero di fatto “scavalcate”;

b)      il 2+3, forse la più realistica, certamente la più discussa: due seggi permanenti nuovi a Germania e Giappone e tre seggi permanenti per i paesi in via di sviluppo, da assegnare uno ciascuno ad Asia, Africa e America Latina. Tale proposta comunque incontra alcune difficoltà oggettive: come individuare nei tre continenti il paese cui attribuire il seggio? Come scegliere, per esempio, tra Argentina, Brasile e Messico? Per risolvere questo problema si è pensato di introdurre per questi tre seggi il meccanismo della rotazione. Alcuni grandi paesi in via di sviluppo, che aspirano ad un seggio permanente, e stati europei, in primis l’Italia, che resterebbero esclusi, si oppongono. Questa ipotesi fu quella che, con un colpo di mano, bloccato proprio dall’Italia, si tentò di far passare nel 1997;

c)      la creazione della categoria dei membri semi-permanenti, sempre a rotazione ma estesa a tutte le aree del pianeta: otto-dieci seggi in cui si alternerebbero i principali paesi dei diversi gruppi regionali. Una proposta sostenuta fortemente dall’Italia e da molti stati africani;

d)      l’aumento del numero dei membri non permanenti, portandolo dagli attuali quindici a venticinque. Una proposta sostenuta dai paesi non-allineati e anche dall’Italia, ma che ha trovato la ferma opposizione degli Stati Uniti, contrari ad un Consiglio di Sicurezza troppo numeroso e “ostaggi” di una volontà di riforma più incisiva;

e)      la creazione di quattro nuovi seggi permanenti da assegnare ad ognuna delle maggiori organizzazioni di sicurezza regionale, ossia l’Organizzazione degli stati americani, la Lega Araba, l’Unione Africana e ovviamente l’Unione Europea. Questa ipotesi però trova un limite nella necessità di un’azione condivisa da tutti i membri della singola organizzazione su una tematica delicata come la politica estera; limite molto presente, ad esempio, proprio nell’Ue (basti pensare alle divisioni sulla guerra irachena).

Risulta essere ancora più complicato il secondo obiettivo, quello della democratizzazione del meccanismo decisionale, a causa dell’esistenza del diritto di veto dei cinque membri permanenti. Su questo aspetto, in particolare, si è discusso su tre ipotesi di riforma: l’abolizione del potere di veto (proposta soprattutto dai paesi in via di sviluppo); la limitazione delle possibilità di utilizzo del diritto di veto oppure l’introduzione, proposta dalla Colombia, del veto multiplo, cioè di avere due stati che pongano tale veto affinché sia effettivo; l’estensione del diritto di veto ai futuri membri permanenti.

 

Le missioni di peace-keeping e l’impegno dell’Italia

Il terzo e l’ultimo obiettivo sono, per certi versi, complementari, dato che un miglioramento del processo decisionale e della capacità di intervento passa anche dalla modifica di alcune norme e principi. I temi principali su questi aspetti sono cinque. Innanzitutto, il miglioramento dei meccanismi delle sanzioni: infatti, notano gli autori, «il loro frequente utilizzo negli ultimi anni ha sollevato numerose questioni, in termini sia di concezione dello strumento, sia di efficacia e trasparenza nella sua applicazione, sia di rispetto dei diritti umani».

Poi c’è la questione della riforma delle missioni di peace-keeping: come accennato, esse non sono previste dalla Carta, ma la discussione non verte sulla necessità di codificarle o meno. Anzi, trattandosi di uno strumento in continuo mutamento, anche in risposta alle sfide del sistema internazionale, codificarle significherebbe limitarne le possibilità. Invece, si dibatte su come rafforzarne l’efficacia. Altri temi sono la modifica del rapporto con le organizzazioni regionali e le coalizioni ad hoc e il miglioramento delle capacità di peace-building. Su questo secondo aspetto De Guttry e Pagani rilevano che «una delle lacune da più parti identificata tra gli strumenti di azione del Consiglio di Sicurezza è costituita dalle scarse capacità di assistenza alla creazione e al rafforzamento delle istituzioni politiche e sociali al fine di prevenire conflitti e di ricostruire società uscite da conflitti». Infine, la problematica dell’attribuzione di nuove competenze al Consiglio, in particolare per quanto riguarda le nuove minacce quali il terrorismo e la proliferazione delle armi di distruzione di massa.

Per concludere, il saggio si chiude con un capitolo dedicato all’impegno dell’Italia nelle Nazioni Unite, sottolineando in particolare le battaglie (come quella per l’abolizione della pena di morte, combattuta per 13 anni e giunta al successo, come dicevamo, il 18 dicembre scorso) e la centralità dell’Onu nella politica estera del nostro paese.

 

Luigi Grisolia

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 5, gennaio 2008)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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