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Politica ed Economia (a cura di Alba Terranova) . Anno VI, n. 58, giugno 2012

Zoom immagine I “gattopardi”:
avida classe
dominante

di Giuseppe Licandro
Un romanzo edito da Rai-Eri
narra la storia di due famiglie
sul finire dell’Ottocento


«Gattoparderia» è un termine entrato nell’idioma italiano dopo la pubblicazione, nel 1958, del romanzo Il gattopardo (Feltrinelli) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Esso sta a indicare l’abilità trasformistica con cui la classe dominante borbonica seppe riciclarsi all’interno del Regno d’Italia, seguendo il motto pronunciato da uno dei protagonisti del romanzo, Tancredi Falconeri: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

La letteratura italiana ha dedicato ampio spazio alla trattazione di fatti e personaggi che si inserirono, a vario titolo, all’interno del Risorgimento. Tra i tanti libri, oltre a quello di Tomasi di Lampedusa, è doveroso menzionare, in ordine cronologico, anche il racconto La libertà di Giovanni Verga, contenuto ne La libertà e altre novelle (Mondadori), I viceré (Einaudi) di Federico De Roberto, la Signora Ava (Mondadori) di Francesco Jovine, L’eredità della priora (Feltrinelli) di Carlo Alianello, Noi credevamo (Mondadori) di Anna Banti, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Mondadori) di Vincenzo Consolo, Una storia romantica (Bompiani) di Antonio Scurati.

 

I Morelli e i Quinteri

Uno degli ultimi testi ad aver affrontato queste tematiche è Il monocolo (Rai-Eri, pp. 224, € 9,00) di Luigi Michele Perri, giornalista calabrese della Rai, che ha vinto nel 2011 la seconda edizione del concorso letterario/radiofonico “NarreRai”.

Si tratta di un avvincente romanzo ambientato in Calabria nell’ultimo quarantennio dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, nel quale si narrano le vicende, realmente accadute, di due potenti famiglie cosentine, i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei.

Il titolo del libro deriva dal monocolo di uno dei protagonisti, Donato Morelli, che, come spiega Perri nella Postfazione, «oltreché oggetto simbolo di appartenenza alla “casta”, vuole rappresentare anche una lente di ingrandimento utile [...] a favorirne, storiograficamente, la lettura e [...] a tener viva la speranza che il fenomeno della “casta” soccomba e venga seppellito per sempre come il monocolo del padre di Caterina».

Il romanzo, diviso in due parti, ha come suo motivo centrale il matrimonio tra Caterina Morelli e Salvatore Quintieri, rampolli delle due nobili famiglie, conclusosi con la separazione dei coniugi e un lungo processo che intaccò il prestigio di entrambi i casati. L’incipit contiene alcune interessanti riflessioni storiche sulla «gattoparderia», da Perri considerata una iattura, anche se assai vantaggiosa per l’avida classe dominante meridionale, in quanto funzionale «al rafforzamento del suo stato e all’incremento dei suoi beni».

L’autore, poi, racconta la storia dei due casati, mettendone in rilievo, insieme alle differenze, anche la contiguità economico-sociale. Se i Morelli vengono presentati come tipici esponenti della «casta agraria che aveva fatto la rivoluzione», i Quintieri sono descritti come rappresentanti del «ceto imprenditoriale che [...] aveva avuto tutto il tempo di elaborare e realizzare un proprio avanzato programma di arricchimento».

I primi appartengono alla «destra risorgimentale, monarchica e conservatrice, integralista, restauratrice degli antichi privilegi di classe»; i secondi sono schierati col «centrosinistra moderato, di stampo “ministeriale”, oramai aduso al trasformismo, al pragmatismo utilitaristico e al compromesso opportunistico».

Le differenze politiche, però, si ricompongono, in nome della difesa dei comuni interessi di classe, di fronte alle spinte riformatrici dei movimenti democratici e socialisti postrisorgimentali.

 

I gattopardi

I “gattopardi” per eccellenza de Il monocolo sono Donato Morelli e Angelo Quintieri. Il primo era uno dei dieci figli di Rosalbo Morelli, nobile di sentimenti borbonici, proprietario di grandi latifondi «che dalla Sila tirrenica giungevano alla Sila Greca sino alla costa ionica».

Donato, nato nel 1824, non seguì l’orientamento politico paterno, bensì, unitamente al fratello Vincenzo, si avvicinò alle idee liberali e prese parte ai moti del 1848.

Nel 1860 egli si schierò coi garibaldini, diventando, dapprima, capo di un «Governo prodittatoriale provinciale sotto la presidenza di Garibaldi», con sede a Rogliano, e assumendo, in seguito, la guida del «Governatorato della Calabria citeriore».

Fu a Rogliano che l’Eroe dei Due Mondi emanò, il 31 agosto 1860, i famosi decreti con cui aboliva la tassa sul macinato e concedeva ai contadini l’uso gratuito dei terreni demaniali. Tuttavia, fu proprio Morelli che, poco tempo dopo, «emise un’ordinanza per svilire gli effetti [...] dei decreti dittatoriali». E fu lui a gestire, sempre a Rogliano, il plebiscito che il 21 ottobre sancì l’annessione dell’ex Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia.

Nel 1861 il nobile cosentino fu eletto deputato del Parlamento italiano, schierandosi con la Destra storica, a cui rimase legato anche dopo la “rivoluzione parlamentare” che nel 1876 consentì ad Agostino Depretis, leader della Sinistra storica, di diventare presidente del Consiglio. Rimasto in carica fino al 1886, Morelli fu poi nominato senatore a vita nel 1889, ed ebbe da allora più tempo da dedicare alla famiglia, in particolare all’unica figlia, Caterina, nata dal matrimonio con Teresa Baroni.

L’altro “gattopardo”, Angelo Quintieri, era nato trentacinque anni dopo il primo e discendeva da una famiglia di proprietari terrieri di origine spagnola, stabilitasi a Carolei. Dopo aver compiuto gli studi universitari in Filologia e Filosofia, Angelo si affiliò alla Massoneria e riuscì a diventare nel 1883 consigliere comunale di Cosenza.

Egli, in quegli anni, si legò saldamente alla corrente politica “ministeriale”, allora diretta da Francesco Crispi, e divenne deputato alle elezioni politiche del 1890.

A differenza di Morelli, Quintieri aveva capito che la rendita agraria non era per niente produttiva e, insieme ai fratelli Luigi e Salvatore, aveva fatto cospicui investimenti nel mercato azionario, comprando innumerevoli titoli di stato e aprendo, infine, «conti correnti con importi a sette zeri nelle principali banche italiane, svizzere ed austriache». I fratelli Quintieri avrebbero avuto poi l’arguzia di costituire nel 1912 la Banca di Calabria, con sede a Cosenza.

 

Il patto tra Morelli e Quintieri

Nel 1892 divenne presidente del consiglio Giovanni Giolitti, il quale, non potendo contare su una maggioranza ampia, decise di sciogliere la Camera dei deputati.

La data delle elezioni fu fissata per il 6 novembre e Giolitti si prodigò affinché i prefetti favorissero i candidati della sua corrente politica. Morelli, essendo stato nominato senatore, non si candidò alla Camera, permettendo così ad Angelo Quintieri, nel frattempo convertitosi al giolittismo, di presentarsi nel collegio di Rogliano.

Pur considerandolo un parvenu, il vecchio gentiluomo decise di appoggiare l’ambizioso imprenditore, sia perché allettato dai soldi versatigli, sia perché «la diplomazia massonica si era messa tempestivamente in attività per blandire l’amor proprio e irretire il potere elettorale del senatore».

Tra i due ci fu un incontro formale, che si svolse nella residenza roglianese di Morelli, alla fine del quale «una vigorosa stretta di mano tra “galantuomini” sancì il patto». E fu così che Quintieri stracciò l’avversario, Francesco De Simone, esponente della Sinistra radicale, venendo eletto con più del doppio dei voti.

Tre anni dopo, dimessosi Giolitti in seguito allo scandalo della Banca romana, si andò nuovamente alle urne: questa volta Quintieri si schierò con la corrente di Crispi, tornato in auge, e fu rieletto, sempre grazie al sostegno del suo “grande elettore”.

Sciolto anche il terzo governo Crispi nel 1896, sull’onta dell’inopinata sconfitta patita ad Adua dall’esercito italiano, tornò al governo il liberale moderato Antonio Starabba di Rudinì, che l’anno seguente decise di indire nuove elezioni.

Anche in questa circostanza il patto tra i due “galantuomini” cosentini funzionò alla perfezione: Quintieri, passato tra i seguaci di Sidney Sonnino, venne ancora una volta eletto, sconfiggendo il candidato socialista Giovanni Domanico con uno scarto netto: «Su 1.884 votanti, 1.204 confluirono su Quintieri, 629 su Domanico».

Lo stesso risultato si ripeté nelle elezioni del 1900, quando il Parlamento venne prematuramente sciolto in seguito all’ostruzionismo scatenato dall’opposizione di sinistra contro la legge sulla pubblica sicurezza, voluta dal successore di Starabba di Rudinì, il generale Luigi Pelloux. In un’epoca piuttosto torbida della storia italiana, segnata dagli scandali, dalle crisi politiche e dal trasformismo più spudorato, Quintieri riuscì, in tal modo, ad acquisire un notevole potere in Calabria.

 

Il matrimonio tra Caterina e Salvatore

Il patto tra i due uomini politici fu suggellato dal fidanzamento tra la giovane figlia di Morelli, Caterina, appena tredicenne, e il ventiduenne Salvatore, fratello minore di Angelo Quintieri, che nel giro di poco tempo convolarono a nozze.

Non si trattò solo di un matrimonio d’interesse. Caterina, «timida, riservata, ma non introversa», si era invaghita dell’aitante Salvatore, «predone e bracconiere, ben più che cacciatore», il quale, almeno nei primi anni di vita coniugale, la ricambiò, pur non disdegnando avventure galanti e bisbocce con gli amici.

I giovani sposi vissero per qualche tempo a Carolei, in un’atmosfera serena, che però dopo un po’ venne turbata dal mancato arrivo di un primogenito. Fu per questo motivo che Caterina e Salvatore decisero di sottoporsi ad esami specifici e si trasferirono a Napoli, dove furono visitati dal dottor Antonio Cardarelli. Il referto dell’illustre patologo fu traumatizzante: «Salvatore “difficilmente” avrebbe potuto generare figli». Egli, infatti, risultò affetto da una ipotrofia dei testicoli che, pur non pregiudicando la funzionalità dell’organo sessuale, ne rendeva dubbia la fecondità.

Fu proprio in quel periodo che avvenne il diverbio che fece saltare il patto tra i due “gattopardi”. Morelli si prodigò nel 1890 per far rieleggere Quintieri deputato, pretendendo però in cambio «un sostanzioso prestito» da erogare alla sorella Checchina, che versava in precarie condizioni economiche. Quintieri dilazionò il pagamento a dopo il voto, ma, una volta rieletto, «sparì dalla circolazione», senza mantenere l’impegno preso, forse per vendicarsi di un presunto torto subito in precedenza (il senatore aveva testimoniato in favore di una famiglia che contendeva, legittimamente, alcune proprietà fondiarie ai Quintieri).

Il clima teso si rasserenò, qualche tempo dopo, quando Caterina, a sorpresa, «confidò al marito di essere incinta». Poiché Salvatore doveva recarsi a Napoli per ottemperare ai suoi obblighi militari, i due sposi decisero che la gravidanza e il parto sarebbero avvenuti nella città partenopea, dove si recarono insieme ad alcuni fedeli servitori e a un amico di Salvatore, Domenico Caroselli.

 

La denuncia e i processi

Nella seconda parte del romanzo, Perri cambia stile narrativo e Il monocolo assume i connotati del Courtroom drama (“Dramma legale”), nel quale emerge la figura dell’avvocato Luigi Fera, destinato a ricevere l’eredità politica del senatore Quintieri.

L’amore tra Caterina e Salvatore sfiorì rapidamente, dopo che la giovane donna ebbe partorito, il 4 marzo 1901, un figlio maschio, cui fu imposto il nome di Giovanni Donato. Appena sei mesi dopo, infatti, il marito, su istigazione dei fratelli e di Caroselli, denunciò la moglie al Tribunale di Napoli «“per adulterio” o “per falso in atto pubblico con supposizione di infante”».

Salvatore, infatti, si era convinto che Caterina lo avesse tradito, oppure che avesse simulato la gravidanza, acquistando di nascosto un neonato orfano da una levatrice partenopea, Maria Vitale, che l’aveva assistita durante il presunto parto.

Lo scandalo, a Cosenza e dintorni, fu grande. Per un po’ di tempo il “caso Morelli Quintieri” diventò l’argomento principale delle discussioni mondane.

Caterina accettò di sottoporsi a un’umiliante visita da parte del dottor Ottavio Morisani, noto ginecologo cosentino e perito di parte civile, il quale, nel suo referto, escluse che la signora Morelli avesse partorito e si dichiarò convinto che avesse finto. La pesante accusa fu contestata dall’avvocato Fera, difensore della Morelli, che presentò altri referti ginecologici di parere opposto, da cui si evinceva, invece, che la donna avesse realmente partorito.

Fera citò come testimoni i servitori della giovane coppia: dalle loro deposizioni emerse che sia la gestazione, sia il parto si erano svolti normalmente, senza dar adito a sospetti. La stessa levatrice confermò la tesi della difesa, scagionando Caterina.

Una delle prove esibite da Fera fu il referto medico del dottor Teodoro Morisani, figlio di Ottavio, nel quale egli, smentendo la perizia paterna, affermò quanto segue: «Ho visitato la signora Quintieri Morelli e ho riscontrato sui genitali esterni e sul collo dell’utero tali segni che mi permettono di affermare che ella abbia partorito».

Le ulteriori analisi mediche, disposte dalla Corte, diedero ragione alla difesa; inoltre, tutte le testimonianze esclusero tassativamente che la signora avesse mai avuto un amante. Pertanto, il pubblico ministero nella requisitoria finale formulò questa richiesta: «si dichiari non farsi luogo ad ulteriore procedimento a carico di Caterina Morelli per inesistenza di indizi sui reati ad essa ascritti».

Il giudice istruttore, quindi, dichiarò prosciolta da ogni accusa l’imputata per «inesistenza di indizi di reità». I difensori di Salvatore presentarono subito un’istanza presso la Corte di appello di Napoli in cui chiesero l’annullamento della sentenza, facendo soprattutto riferimento alla «accertata infecondità del querelante».

Il procuratore generale presso la Corte d’appello risolse salomonicamente la faccenda, sentenziando, alla fine del dibattimento: «la questione di stato che sorge nel procedimento penale non può essere risoluta dal Magistrato penale».

La causa fu rinviata al «competente Magistrato civile» e si aprì, pertanto, un doppio processo in sede civile: uno a Napoli, su richiesta di Salvatore, per il disconoscimento della paternità di Giovanni; l’altro a Cosenza, su istanza di Caterina, per ottenere la separazione dal marito.

La vittoria della donna, alla fine, fu completa. La paternità non venne disconosciuta e il Tribunale civile di Cosenza accettò l’istanza di separazione, disponendo che il bambino fosse affidato alla madre e obbligando il marito a pagare alla consorte «un assegno alimentare mensile di lire tremila». La controversia giudiziaria trovò la sua conclusione definitiva soltanto nel 1904, quando la sentenza emessa dal Tribunale civile di Cosenza due anni prima venne confermata.

 

L’ultima controversia legale

Nel frattempo, erano usciti di scena i due “gattopardi”. Donato Morelli, vecchio e malato, era morto il 9 ottobre 1902, e nel testamento aveva disposto che nella sua bara fossero riposti «un rosario, il mio monocolo e una bandiera tricolore». Angelo Quintieri si era ritirato dalla vita politica nel 1903, per motivi di salute.

A contendersi il seggio del collegio di Rogliano, alle elezioni del 1904, furono Luigi Quintieri, fratello di Angelo, e Luigi Fera, difensore di Caterina. Sull’onda emotiva del recente scandalo, l’elettorato roglianese volse le spalle ai Quintieri e premiò l’intrepido avvocato cosentino, il quale, nonostante si fosse schierato con la Sinistra radicale, vinse «con oltre il sessanta per cento, avendo ottenuto 1.385 voti contro gli 856 del suo avversario». Fera fece poi una brillante carriera politica, diventando, prima, ministro delle Poste nei governi Boselli e Orlando e, dopo la Grande guerra, ministro della Giustizia nel quinto governo Giolitti.

Caterina, in età matura, si legò sentimentalmente a un possidente cosentino, Gaetano Stumpo, che l’aiutò nella gestione delle proprietà, consentendole di superare il trauma dello scandalo e dei susseguenti processi. Giovanni studiò prima al Convitto nazionale di Roma e poi al Liceo-Ginnasio “Visconti”, ma non riuscì a completare gli studi universitari, dedicandosi senza successo all’attività di musicista.

Nel 1925, ormai in pieno regime fascista, ci fu un’appendice di questa grottesca vicenda. Caterina, gravemente malata, si sottopose a un delicato intervento chirurgico e morì poco tempo dopo, all’età di quarantadue anni, lasciando un’ingente eredità al figlio, ormai stabilitosi a Roma.

L’ex marito, tuttavia, ne impugnò il testamento, con un esposto al Tribunale della Capitale. Giovanni si rivolse nuovamente all’avvocato Fera, che si era nel frattempo ritirato dalla vita politica. Anche in questa circostanza l’imbelle Quintieri ebbe la peggio e, alla fine, il figlio «ottenne la piena disponibilità dell’intera massa ereditaria, di cui, però, non seppe essere buon amministratore». Con lui tramontò la stella dei Morelli, che non svolsero più alcun ruolo nella vita politica e sociale calabrese.

I Quintieri, invece, pur essendo stati temporaneamente travolti dallo scandalo, continuarono ad esercitare la professione di banchieri e ritornarono prepotentemente in auge dopo la caduta del fascismo, allorché Quinto, figlio di Luigi, divenne ministro delle Finanze e del Tesoro nel secondo governo Badoglio, poi membro dell’Assemblea costituente nelle fila del Partito liberale italiano e, infine, vicepresidente della Confindustria.

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 58, giugno 2012)

Collaboratori di redazione:
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