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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VI, n. 53, gennaio 2012

Zoom immagine Passione e guerra,
sangue e vendetta:
La Terra rossa

di Rosina Madotta
Gli anni postunitari del Meridione
nel romanzo edito da Rubbettino


La storia non la raccontano solo i manuali; talvolta l’inarrestabile corso degli eventi affiora in maniera lucida e impietosa anche dalla prosa, genere forse più “leggero” ma non per questo meno adeguato a riportare una fotografia della realtà.

«In terre ingiuste, c’è chi sempre ha solo preso e chi sempre ha solo dato. Questa storia è dedicata a chi ha sempre dovuto dare».

Questa è la storia di don Ciccio d’Alessandro, nobile e ricco medico in un paese senza nome della Calabria meridionale, che ha sempre preso e sempre voluto tutto e tutti solo per sé, al suo servizio. È la storia di Antonia, giovane donna vittima della povertà, la “mantenuta” del medico, una delle sue tante amanti, fedele nel corpo e nell’anima pur senza esserle moglie. È la storia di Saverio, figlio illegittimo del ricco signore – figlio “mulo” come si diceva a quei tempi – che vede negarsi ancor prima di nascere un padre, una famiglia, un cognome.

Dopo il successo avuto con Artemisia Sanchez (Mondadori editore) – romanzo dal quale è stata tratta una serie televisiva firmata Rai – e Leonzio Pilato (Rubbettino editore), Santo Gioffrè, Assessore allo spettacolo, cultura e beni culturali della Provincia di Reggio Calabria, torna con un nuovo romanzo storico, La terra rossa (Rubbettino editore, pp. 158, € 16,00).

 

Le storie nella Storia

È la vicenda di pochi protagonisti, i cui avvenimenti si dipanano tra il 1890 e il 1935, scanditi dalla nascita e dalla morte di don Ciccio, nato da famiglia nobile, medico, potente signore e proprietario terriero – «Don Ciccio d’Alessandro era medico e aveva svolto la sua professione in un paese e in un’epoca in cui la medicina era potere e privilegio; il potere derivato dal privilegio di possedere l’arte della scienza capace di preservare il bene più prezioso degli individui: la vita».

Eppure potrebbe essere la storia di tutti quei poveri disgraziati nati nel posto sbagliato, quale era l’Italia meridionale e in particolar modo la Calabria, nel momento sbagliato, il periodo post unitario; nati con il destino già scritto dalla Storia, quella con la “S” maiuscola, che non dà a nessuno la possibilità d’un riscatto di qualsiasi genere: culturale, economico, morale o sociale. Figli di una terra in cui sembra che l’unico destino possibile per i suoi discendenti si giochi su due sole alternative: essere ammazzati o ammazzare, diventare vittima o carnefice. Una terra in cui l’uomo diventa bestia più degli animali in preda a istinti primordiali e irrazionali, disumani e indescrivibili: «Tra selvaggi, ricchi o poveri che fossero, l’istinto sottometteva spesso la ragione, tanto che i misfatti venivano compiuti soprattutto di giorno, contraddicendo, così, un detto caro agli antichi secondo i quali solo la notte porta a delinquere poiché, buia com’è, non riesce a illuminare la coscienza e l’intelletto che dettano giusti modi al comportamento umano».

La natura e le forze ataviche pervase nella terra che ospita le vicende del romanzo guidano l’uomo, oltre la sua volontà, a vivere la vita al di là d’ogni regola civile e sociale, a perdere la cognizione di se stesso: «l’uomo di quelle terre, durante le periodiche tempeste di scirocco, si smarriva. Perdeva la certezza del tempo ed entrava, semplicemente, in una dimensione fatta solo di spazio».

Fa da sfondo la storia dell’Italia e della Calabria, nei primi decenni dopo l’unità: il terremoto del 1908; l’ondata migratoria che ne seguì verso l’Argentina, il Brasile e il Nord America; la Prima guerra mondiale; l’arrivo dei profughi friulani a Reggio Calabria dopo la disfatta di Caporetto; il Ventennio fascista.

 

Prigionieri per sempre?

Anche la ‘ndrangheta influenza i già precari equilibri esistenti nei rapporti tra ricchi signori e servi al loro servizio che vede questi ultimi stritolati come in una morsa tra due necessità contrapposte seppur simbiotiche: la necessità di vivere, ancor più sopravvivere al dolore della vita iniqua e crudele in modo onesto e “in grazia di Dio”, e la volontà di riscattarsi dalle sopraffazioni perpetrate da chi ha sempre e solo privilegi. La figura di don Ciccio d’Alessandro rispecchia bene questi meccanismi: «Ci sono uomini – scrive l’autore descrivendo il tragico destino che spetta al medico – che incutono paura anche quando non ci sono più e diventano come un pesante respiro immortale nell’inconscio di chi è stato loro vittima». Anche Antonia è tra le sue vittime, donna nella quale non vede nessuna forma di tenerezza e che maneggia a suo piacimento anche nei suoi momenti più tragici, come la morte d’una figlia: «Come si riprese le sue terre, una volta insalubri, così fece con Antonia, che considerava tra i beni di sua proprietà. Dopo sei mesi dalla tragica morte della bambina, tornò a martoriare una donna distrutta dal dolore, scossa, dimagrita e che non smetteva mai di piangere; ma ciò non lo turbò affatto».

Storie vere e verosimili, quindi, tanto che il romanzo potrebbe essere facilmente accostato a un’opera verista, nella quale la realtà – in questo caso riportata alla luce tramite la documentazione del passato e archivistica – è presa a ispirazione per la costruzione d’una narrazione dalle tinte forti, cruda, rossa come quella terra intrisa del sangue della sua popolazione. Bambini soprattutto, figli illegittimi nati da relazioni clandestine ed extraconiugali, destinati a essere abbandonati nei brefotrofi e a morire di stenti. Saverio è uno di questi bambini, già “grandi” e temprati nell’affrontare la vita dalla tenera età: ha il coraggio di chiedere un cognome al padre e non ottenendo nessuna risposta, decide di farsi giustizia da solo. «A tredici anni, per un ragazzo o, peggio, per un mulo, o si era già adulti, dimostrando di possedere la risolutezza d’imporre il diritto di pretesa, o non si diventa più nulla per tutta la vita». E naturalmente il diritto di pretesa si otteneva con la forza.

Ma se durante la narrazione l’autore fa emergere la sua personale critica e denuncia ai meccanismi di potere e alla mentalità dell’epoca, inserisce poi a fine testo una riflessione sul destino della Calabria: «la verità è che quella è una terra che non libera mai i suoi prigionieri. [...] Il ragazzo si piegò sulle gambe e rimase intontito con la schiena poggiata contro la quercia che non si capì mai cosa ci facesse in mezzo a quella foresta d’ulivi. Come tutte le cose strane di quel mondo che, forse, non sarebbe dovuto mai esistere». Una condanna, dunque, quasi a volere annientare ogni speranza di riscatto, d’evoluzione della regione e della sua gente nel corso nei decenni passati e futuri?

 

Rosina Madotta

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 53, gennaio 2012)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT