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Filosofia e religioni (a cura di Maria Grazia Franzè) . Anno V, n. 50, ottobre 2011

Zoom immagine Un dialogo filosofico
dove la disciplina
è compagna di vita

di Daniela Vena
Da Aliberti editore un’analisi acuta sulla
possibilità di conoscere se stessi


«Com’è possibile conoscere se stessi quando diventiamo funzioni di un processo che ci supera e ci incorpora, ma non ci considera? […] Com’è possibile credere ancora alla Verità con la “V” maiuscola? […] Quindi la tecnica fa davvero fuori l’uomo, lo riduce a ingranaggio? […] Perché fa riferimento agli adolescenti, se lei insegna all’università?». Queste sono solo alcune delle domande che articolano l’ultimo libro di Marco Alloni e Umberto Galimberti Il viandante della filosofia (Aliberti editore, pp.107, € 10,00) che, attraverso un interessante scambio di domande e risposte, descrive la realtà che ogni giorno ci sforziamo di vivere ma che, il più delle volte, subiamo passivamente. Il testo, diviso in sei capitoli, offre molti spunti di riflessione, grazie anche alla chiarezza con cui sono manifestati i punti di vista, senza ipocrisia o ambiguità alcuna. Nella prefazione, quando Alloni afferma che «questo piccolo libro è un percorso tra le ragioni che rendono la filosofia un'insostituibile compagna di ricerca non già delle ragioni ultime ma, nemmeno troppo paradossalmente, della ricerca come ragione ultima» esprime il motivo conduttore del testo. Galimberti è filosofo e psicoanalista, formatosi attraverso il pensiero di Jaspers, Severino, Heidegger, insegna all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, è membro dell’International Association for Analytical Psychology e vicepresidente dell’Associazione italiana per la consulenza filosofica “Phronesis”. Egli cura la rubrica epistolare di D la Repubblica, ha alle spalle numerose pubblicazioni di successo, tra cui Il corpo (1983), Paesaggi dell’anima (1996), Orme del sacro (2000) e I miti del nostro tempo (2009).

Alloni vive al Cairo da quattordici anni, dove lavora come scrittore e giornalista, ha pubblicato il romanzo La luna nella Senna (1990) e il saggio Lettere sull’ambizione (2005), è direttore della collana Dialoghi per Aliberti editore.

 

«La filosofia come erranza»

Il dialogo parte dalla constatazione secondo la quale l’oggetto della filosofia sono i problemi. Galimberti parla della nascita della filosofia ad opera di uno dei filosofi a lui più cari, Socrate. Nel Simposio, Platone fa affermare ad Alcibiade che Socrate non assomiglia a nessun uomo del presente o del passato. Si evince subito l’eccezionalità di tale uomo che parte dall’accettazione della propria non conoscenza. L’indagine filosofica di Socrate ha come scopo la ricerca di questo sapere attraverso il dialogo e la confutazione del falso. Il dialogo procede con la “maieutica”, ovvero con la capacità di portare alla luce le verità che inconsapevolmente, gli uomini posseggono. Socrate cercava d’insegnare al popolo «il corretto governo di sé». Da qui nasce la necessità d’ogni uomo di trovare la propria filosofia di vita che lo guidi all’autorealizzazione e al continuo miglioramento di sé. Continuando la lettura, si desume quanto, per il professore, sia importante sottolineare la natura pratica e concreta della filosofia, legata indissolubilmente alla “condotta di vita”. In uno dei suoi tanti libri, Parole nomadi, Galimberti definisce rivoluzionariamente il termine filosofia come: “saggezza dell’amore”, dove la parola amore è “intersoggettività”, è “scambio”. Il professore poi, citando Emanuele Severino, sostiene che la filosofia annulla il carattere definitivo della realtà, distruggendo la fondatezza d’ogni struttura immutabile. Platone prima e Lacan poi, affermavano che la filosofia al pari dell’amore derivava dalla mancanza, diventa allora chiaro che la filosofia è il luogo della ricerca, non di “risposte rassicuranti”, è dimora dell’incerto, distruttrice dei luoghi comuni, mira alle nostre verità, estirpa le ambigue credenze; ma più di ogni altra cosa, spinge ed allena l’uomo a guardare oltre l’ovvio e a cercare il senso delle cose, svincolandolo dagli schemi arcaici e sociali che ne ostacolano la libertà.

 

«E i giovani?»

In quanto filosofo, Galimberti, definisce se stesso come descrittore del mondo, un mondo in continua trasformazione, non più umanista, che sta depistando i giovani. Questi giovani, affetti dal vero nichilismo di Nietzsche e testimoni del crollo di quei principi e di quei valori su cui si ergeva la società, derubati di quella promessa che si chiama futuro che, i loro padri hanno già trovato preconfezionato, sono costretti a vivere soltanto “nell’assoluto presente”. Galimberti sostiene che questo disagio può e deve essere affrontato con il “nichilismo attivo”, in pratica bisogna «ricominciare a costruire apparati etici e politici, di governo di sé» nuovi.

Il dialogo continua quando Alloni chiede a Galimberti la definizione della parola “inconscio”, i contorni della condizione giovanile diventano più netti, «Ebbene, l’inconscio è costituito dalle esigenze della specie nell’individuo […] è la forza della specie sull’individuo». Poiché «l’uomo, oggi, non è più davvero il soggetto della storia» e i giovani, che sono «forza biologica, forza sessuale e procreativa e forza ideativa», sono parcheggiati ai margini di una società dove «il potere è in mano ai nonni», diventa salutare prescindere da questa realtà destinata ad estinguersi. In un frangente così drammatico Galimberti invita i giovani a trovare il loro “daimon”, il demone, nel senso di far fiorire la loro virtù raggiungendo “l’eudaimonia” cioè «la felicità intesa come autorealizzazione», allontanandosi dalla “rigidità della tecnica” che qualifica il loro futuro solo come «forme di sussistenza.» Quest’autorealizzazione avviene seguendo le proprie inclinazioni e non quei modelli di massa proposti dai media. Menzionando gli studi su James Hillman, il filosofo definisce questo “daimon” come ciò per cui si è venuti al mondo, ciò che custodisci dentro di te e che ti specifica come persona. Per riuscire nell’arduo compito di realizzare tale processo, è necessario conoscere se stessi ed individuare i propri limiti, per non superarli. Per conoscere se stessi, però, occorono molto tempo e tanta dedizione, è necessario accogliere i sentimenti e le emozioni, metabolizzarli e chiamarli per nome. Citando Heidegger, Galimberti afferma che «noi pensiamo solo a partire dalle parole che abbiamo in bocca e nella mente». Cosa alquanto difficile, visto che oggi un enorme impoverimento linguistico, legato anche alla nostra cultura che, fortemente visiva, penalizza la nostra capacità di astrazione. Tutto ciò ha accorciato i tempi, rendendo la realtà simultanea al pari delle immagini di un film. Ne deriva che un giovane che non sa chiamare per nome, e quindi riconoscere, un disagio o un’emozione che prova, che non ha il tempo di metabolizzarla, non ha neanche il tempo di conoscere se stesso. Dalla consapevolezza del nichilismo e dall’accettazione del collasso dei valori deriva «l’etica del viandante». Quest’etica si basa sul concetto aristotelico della “phronesis”, che vuol dire saggezza. Aristotele osservò che gli uomini adottano comportamenti diversi secondo le circostanze e a volte nelle stesse situazioni, assumono atteggiamenti differenti. Se ne deduce quindi, che l’uomo deve costruire la propria etica partendo da quella saggezza che lo induce a comportarsi in un determinato modo, prescindendo da ogni principio. Per cui bisogna «risolvere i problemi di situazione in situazione», visto che «non c’è orizzonte che non sia provvisorio».

 

La tecnica e la scienza

Il dialogo prosegue incentrandosi sulle parole “tecnica” e “scienza”. Husserl sosteneva che la scienza e la tecnica fossero ideazioni dell’uomo e che il giorno in cui quest’ultimo fosse definito anche soltanto da una delle due sarebbe stato terribile. La visione del filosofo, secondo Galimberti oggi è più viva che mai, tanto da sostenere che «la tecnica fa fuori l’uomo come l’abbiamo conosciuto e lo riproduce come macchina», mentre «con la scienza assistiamo alla traduzione delle qualità in quantità». L’uomo contemporaneo infatti, consapevole di vivere nell’epoca della tecnica e della scienza, crede di avere una maggiore libertà di scelta, in realtà può realizzare i suoi sogni soltanto tecnicamente e scientificamente, perché la nostra vita è strutturata, e quindi governata, tanto dalla tecnica, quanto dalla scienza. Persino aprendo il frigo e guardando qualsiasi prodotto in esso contenuto non possiamo non ricondurlo a qualcosa di tecnico o scientifico. Il potere della tecnica, collima poi con il rapporto tra identità e libertà, infatti, Galimberti afferma che «l’identità di una persona confligge la sua libertà». Pertanto «la tecnica ha completamente modificato i concetti di verità e libertà». Non stupisce che, ormai di una persona apprezziamo più l’aspetto “funzionale” che quello “umano”. Si profila la necessità di non guardare più la tecnica con “occhi cristiani”, poiché la tecnica non salva, non redime, non dà la terra promessa, la tecnica funziona e basta. Discorso assai diverso per la scienza, che rinnega le proprie radici teologiche. La scienza, infatti, si sviluppa maggiormente nel periodo umanista, quando il mondo doveva diventare a misura d’uomo. Essa quindi nasce come strumento per ottimizzare la vita di quell’essere che Dio aveva messo a capo del mondo creato. Esplicative sono in tal senso le parole che chiudono il Novum Organum di Francesco Bacone: «Col peccato originale l’uomo ha perduto lo stato d’innocenza e di dominio sulle creature, l’una e l’altra cosa devono essere recuperate almeno in parte in questa vita: la prima mediante la religione e la fede, la seconda con le arti e le scienze». In conformità a tali constatazioni, il professore rileva che occorre rivedere le peculiarità con cui si è cercato d’intendere e definire l’uomo contemporaneo.

 

Daniela Vena

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 50, ottobre 2011)

Collaboratori di redazione:
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