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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno V, n. 48, agosto 2011

Zoom immagine In una Cuba astratta
un destino macabro:
passioni irresistibili
dalle “strane teste”

di Angela Galloro
Per Edizioni estemporanee, un amore
esiziale, violento, sensuale e corrotto


L’autore cubano, Miguel Mejides, scrittore contemporaneo tra i più famosi, sia nella terra natìa, sia in Italia, dove tutti i suoi romanzi sono stati tradotti con successo, ha pubblicato proprio nel nostro paese l’anno scorso il suo ultimo romanzo, sicuramente in linea con i precedenti quanto a stile, ma che stupisce e incuriosisce il lettore per via della sua trama insolita.

Già dall’inizio, dalla prima pagina, appare una scritta che catapulta immediatamente il lettore nella realtà del libro: «L’Avana, fine estate di un anno all’inizio del 0000». Annuncia il luogo, la capitale cubana, che costituisce il fulcro dell’intero racconto perché sembra guardare con occhi umani il viaggio della vita del protagonista; ma non ci da’ nozioni temporali, nessuna data e nessun anno scandiscono l’esistenza di questa città. Tutto è immerso in un dolcissimo tedio soleggiato, che anestetizza in qualche modo i dolori politici dell’intera isola caraibica.

 

Amor con cabeza extraña

È questo il titolo originale del romanzo, che sarebbe stato bello rimanesse tale. Quello dell’edizione italiana potrebbe essere fuorviante e forse meno incisivo, anche se Le due teste dell’amore (Edizioni estemporanee, pp. 196, € 13,50) ci inserisce comunque in un’atmosfera surreale, dove il lettore non deve pretendere di capire, piuttosto può lasciarsi trascinare e, al limite, interpretare.

«Io non sono pazzo» si giustifica Juan Tristá il protagonista già nell’incipit del romanzo: un’excusatio del genere non fa altro che ricordarci che c’è qualcosa di folle se non in lui, certamente in ciò che vive.

Come tutti i personaggi di Mejides, anche Juan Tristá, è imperfetto, zoppicante, tinge la sua esistenza di errori continui e stranezze inimmaginabili. Tutto il romanzo ruota intorno alla sua capacità, un dono per lo più, di staccare la propria testa e sostituirla con quella di chiunque altro, una macabra esperienza che ricorda il tema del doppio e dell’autocoscienza: come ci si guarda con gli occhi di un altro? Chi è che prende il sopravvento sui propri pensieri? Cosa succede quando la testa acquisita è notevolmente diversa dalla propria, con diverse aspirazioni, sentimenti? Quale paura ci può invadere all’idea che quest’ultima possa essere malata? Sono queste le elucubrazioni di Juan mentre passeggia per le vie della sua città, dando loro un nome, costantemente, come se avesse paura di perdersi. Tutti i personaggi, infatti, anche quelli minori, sembrano destinati a un viaggio di perdizione, in cui cambieranno strada, andranno lentamente verso il degrado, che può essere la stanchezza o la vecchiaia, o la perdita di ogni pudore nel caso delle donne. Proprio constatando l’imminente sfioritura della propria moglie, Juan si innamora della giovane Rebecca, la compagna di suo figlio, una pittrice, un’artista dalla sensualità disarmante, all’apparenza più nobile rispetto alle altre avanere disposte a darsi per poco. Per conquistare questo amore, che lo fa letteralmente impazzire, Tristá sarà costretto a macchiarsi di un delitto: ucciderà un aitante ballerino e “indosserà” la sua testa, con la speranza di sembrare meno vecchio e in questo modo conquistare la pittrice. Ma l’amore vero non ha bisogno di questi trucchi, sottintende Mejides. I nostri si ameranno su una nave che li porterà a Nuevitas, senza inganno né fine, ma una volta sbarcati, riusciranno a vedere soltanto la tristezza immensa della città.

Durante il suo percorso Juan incontrerà una serie di personaggi, anche solo sotto forma di visione, ognuno pronto a indicargli la strada; strade diverse, tutte giuste e sbagliate nello stesso tempo, che oscillano tra il senso di colpa e la furia devastante della passione, tra momenti di amarezza profonda e l’incoscienza di tale emozione: «ballavamo come gente che non conosce la musica, ma che segue solamente il ritmo delle debolezze e delle paure dell’anima».

 

La città, l’isola, il simbolo

Il lavoro di Juan si tinge di responsabilità: tocca a lui decidere, all’Oficoda, a chi offrire l’assistenza alimentare, sanitaria, le sovvenzioni statali. È a lui che si rivolge tutta la profonda miseria di un popolo figlio della rivoluzione fallita. Sembra odiare quel lavoro che gli dà da vivere, lo scaccia via ogni volta che può, e non si impegna abbastanza nell’organizzazione dei congressi del partito, che pure gli permettono di avere una buona posizione e “darsi un tono” anche nell’abbigliamento. Lui non è fedele, non serve nessuno e non serve “a” nessuno. Non si oppone apertamente, se non vogliamo considerare la sua ignavia come una forma di protesta (l’unica possibile), ma non asseconda il suo sistema politico. La sua sopita voglia di cambiamento si percepisce nella fiducia che ha in suo figlio, pronto a sfondare nel mondo della musica: una voglia di nuovo, di fiducia nel futuro e nelle giovani generazioni, che di romanzato non ha nulla perché riflette il vero sentimento attuale cubano. Ce lo fa presente Dario Claudio Bonòmini, il curatore del romanzo, nella sua Nota, dove non manca di spiegare la valenza simbolica di questo libro, il valore di critica sociale e politica, inevitabile – oseremmo dire – in un paese dove la possibilità di esprimersi e dissentire viene costantemente limitata. Come se non bastasse, alla fine troviamo un Glossario in cui, oltre al reale significato delle parole, abbiamo modo di realizzare ancora una volta lo “strato” metaforico di cui una lettura attenta necessita.

 

Un autore fedele

Se non in senso politico, Mejides resta totalmente fedele al retaggio della letteratura latino-americana; alla tradizione di Sepúlveda, di Márquez, della Allende, al loro realismo magico, al loro simbolismo. Danze e magie, apparizioni e sedute spiritiche colorano il grigiore della vita a L’Avana. Questa volta, però, il luogo è precisamente identificato, come se ogni piazza, via, cinema dovessero testimoniare il passaggio del nostro Juan Tristá.

Per il resto ogni personaggio ha qualcosa di malato, di torbido, di sospetto. Anche la moglie di Juan lo tradisce con Kardec, il filosofo spiritualista e il cieco Cleo «non possiede nessuna nozione comparativa, conosce solamente la notte, le sensazioni, il palpitare degli spiriti, lo scorrere del tempo, i suoni di una stella che muore, il tracciato del compasso che determina la lunghezza della vita. Solamente un cieco può immaginare l’infinito, perché l’infinito straripa di sensazioni» ed è proprio questo rifugiarsi in una spiritualità del tutto pagana, fatta di riti personali, di credenze inestinguibili e superstizioni a esorcizzare il destino di disillusione.

Mejides scava all’interno della psicologia dei personaggi come dell’intero popolo cubano: ogni uomo diventa terra, parte del luogo in cui è nato, con tutte le brutture e le negatività della storia. Anche la ricerca dell’amore o di ogni donna possibile si fa percorso per tornare alle proprie radici. In ogni pagina la metafora, l’ironia, la satira, la malinconia e l’amore, le parole “forti” e gli episodi scollegati raccontano di Cuba e delle attese della sua gente.

«Sai, disse Rebecca, questo posto non è poi male. Bisogna volergli almeno un po’ di bene e potrà restituirti il buono che possiede».


Angela Galloro


(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 48, agosto 2011)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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