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Anno V, n. 48, agosto 2011
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Alba Terranova) . Anno V, n. 48, agosto 2011

Zoom immagine Giovani forze
combattono
la malavita

di Vincenzo Femia
La ribellione dell’anima narra
la lotta per un futuro migliore
e libero, da Città del sole


«La lotta che i miei personaggi fanno, innanzitutto con loro stessi e poi con chi li circonda, è metafora della lotta dell’intera comunità: si tratta di lottare contro un nemico di cui non si conosce il volto, e non sappiamo dove esso si nasconda. È difficile trovare un nemico che si nasconde dentro di noi; il nemico non è la mafia come una visione semplicistica ci porta a pensare: il nemico è quello che ci porta a ragionare come se fossimo tutti mafiosi, il nemico è la nostra arroganza, la prevaricazione di alcuni sugli altri, il non dialogo, l’arroccarsi su posizioni difficilmente difendibili da un punto di vista etico e morale».

La Prefazione di Anime Ribelli (Città del sole edizioni, pp. 336, € 15,00), il primo romanzo di Giuseppe Jacopetta, “artigiano-scrittore” – come ama definirsi – di Gioiosa Jonica (Rc), delinea il quadro entro il quale si dipaneranno sei storie diverse. Le vite di Silvia e Antonio, Maria e Martina, Francesco e Simona, si riveleranno oltre che legate le une alle altre nel percorso e tra le pagine del libro, anche accomunate da un’identica urgenza interiore: quella di affrancarsi dal pensiero mafioso, humus ideale e necessario alla mafia stessa. La mafia che confonde la paura con il rispetto; la mafia che considera la prepotenza come un obbligo “morale” nei confronti di chi non è della famiglia; la mafia che dispensa imposizioni a chi della famiglia fa parte, ma solo in funzione della salvaguardia dell’“onore” da tutelare anche spargendo sangue altrui.

 

Silvia e Antonio, Maria e Martina, Francesco e Stefania

Silvia Cariddi è la figlia di don Ciccio Cariddi, boss dell’omonimo clan della cittadina di Gramone. Silvia ha diciotto anni e frequenta l’ultimo anno del liceo scientifico quando, riuscendo per la prima volta a imporre la sua volontà e i suoi bisogni sulle meschine e limitanti convinzioni e consuetudini della sua famiglia, partecipa alla gita scolastica a Vienna. Antonio, studente del suo stesso liceo, ma di una sede distaccata della vicina Mafrano, è l’unico ad avvicinarla, a parlarle, a interessarsi a lei e al suo bisogno di emanciparsi dalla sua stessa vita. Antonio è l’unico a non sapere di chi è figlia Silvia Cariddi.

Maria è la zia di Silvia, sorella di sua madre. È sposata con un affiliato al clan Cariddi, ma il marito si trova in carcere per scontare una lunga condanna. Maria la propria personale condanna la sconta fin da quando, giovanissima, ha sposato suo marito e, con lui, la famiglia. Al marito detenuto si unisce la suocera: è lei a ricordarle continuamente la forza snervante e l’ineludibilità di quel legame, a darle i soldi per vivere; è ancora lei a rinfacciarle continuamente che il marito si trova in carcere per permetterle di abitare in una bella casa ed essere rispettata e invidiata da tutta Gramone; ed è sempre lei a rimproverarla duramente di non essere una buona madre, incapace di evitare i capricci di Martina, la sua bambina. È per offrire a Martina la possibilità di una vita diversa dalla sua che Maria diventerà una «pazza» e una «puttana».

Francesco è il figlio di un mafioso ucciso quando lui era solo un bambino. All’uccisione del padre, sua madre e le sue zie lo mandano a vivere da alcuni parenti nel Nord Italia. Francesco cresce dunque lontano da Gramone e, soprattutto, dalla mentalità mafiosa che quelli come suo padre usano per assoggettare un’intera comunità, soggiogandone il modo di pensare prima ancora che quello di agire. La madre e le zie di Francesco, però, non dimenticano l’uccisione di suo padre e la pretesa che il loro “onore” sia vendicato cresce col passare degli anni. Solo il tempo necessario per diventare adulto impedirà a Francesco di farsi carico dell’istanza tribale della sua famiglia di pareggiare i conti col killer di suo padre. Solo il periodo trascorso in carcere a guardarsi dentro e l’incontro con la psicologa Stefania, gli permetteranno di capire come diventare una persona migliore, e di conoscere l’amore.

 

Il risveglio della coscienza e il viaggio circolare verso una vita nuova

Silvia e Antonio, Maria e Martina, Francesco e Stefania saliranno tutti sullo stesso treno. Lo faranno da fermate diverse, ma con la stessa motivazione: la necessità di vivere una vita nuova, dove la propria anima e la propria coscienza non siano più considerate anormali e amorali da chi conosce e riconosce solo la “moralità” mafiosa. La terra dalla quale avevano programmato di allontanarsi il più possibile, tanto da aver tutti acquistato il tipico biglietto dei senza meta – quello a tariffa chilometrica –, li metterà di fronte ad un’altra difficile prova: rimanere lì, a Gramone e tra i gramonesi, per diventare «protagonisti del rinnovamento». Al termine del viaggio che da Gramone li riporta a Gramone, Antonio si domanda e domanda a Silvia: «Noi vittime dobbiamo essere creatori di un mondo nuovo?». Silvia gli risponde: «Esatto, proprio così! Da sempre le vittime hanno gettato il seme di una nuova etica: è la sofferenza che genera nuovi modi di essere, che dà impulso alla sopravvivenza. I vincenti si adagiano, la vittoria infiacchisce corpi e menti. Noi abbiamo sofferto e siamo alla ricerca della serenità»… attraverso la ribellione al sistema “mafia”, del quale erano parte integrante fin da quando erano nati o si erano sposati.

 

I personaggi al servizio dell’antropologia e della psicologia mafiose

Giuseppe Jacopetta, da buon padre dei suoi personaggi, si augura che essi percorrano strade prefissate nel corso della loro vita. Come autore, e dunque come padre-padrone dei suoi personaggi, è chiaro che sia lui stesso a indicare le strade da far loro percorrere. Niente di nuovo sotto il sole della letteratura. Ciò che non ci convince è piuttosto il fatto che l’autore si avvalga delle vicissitudini con le quali caratterizza le biografie dei suoi personaggi per avvalorare una serie di tesi che affondano nell’antropologismo “mafioso”, finendo per far diventare il suo volume un composto poco fluido di vari generi letterari: il romanzo ad un certo punto viene permeato da un saggio sull’antropologia del mafioso e della mafiosità, che poi tracima in un trattato di psicologia, fino a concludere la sua metamorfosi letteraria in un crescendo auto-psicoterapico, senza farsi mancare una puntata anche nel mondo della citazione dei passi biblici. Francamente, troppa roba per un solo volume, che peraltro si propone – “semplicemente” – come romanzo. Un romanzo pervaso dalla forza interiore dei personaggi, dalla loro capacità di ribellarsi alla mafia “dal di dentro” e dalla tempra morale che li accomuna, elementi così nobili da essere già sufficienti a renderlo apprezzabile.

 

Vincenzo Femia

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 48, agosto 2011)

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