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Anno IV, n. 40, dicembre 2010
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno IV, n. 40, dicembre 2010

Zoom immagine L’odissea politica di Obama,
un “eroe” del nostro tempo
contro la crisi economica,
i potenti nemici e gli scettici

di Federica D'Amico
Un ritratto del presidente statunitense
in un volume delle Edizioni Settecolori


A fare la storia, la storia con la “s” maiuscola, spesso sono anche coloro che alle cronache non passeranno come “i grandi”. A fare la storia dell’America di oggi non sono stati soltanto, tra meriti e demeriti, George H.W. Bush, padre, e George W. Bush, junior, ma anche un uomo d’origini più popolari, un uomo che come Telemaco ha imparato, facendo di necessità virtù, a brillare di luce propria.

Quattro novembre 2008, mattina, questa è l’ora di Obama, l’eroe il cui arrivo, così come i risultati elettorali dimostreranno, gli Stati Uniti d’America sembrano aver atteso. Per molto tempo e da molto lontano.

È una storia nella storia, quella recente degli Stati Uniti d’America, riletta nell’ultima fatica letteraria di Alberto Pasolini Zanelli, la nota penna de il Giornale, attraverso i primi quattro libri di uno dei testi che la storia, reale e letteraria, l’ha fatta: l’Odissea. Inizia come una cronaca politica e si conclude con  un interrogativo, L’ora di Telemaco. Un’odissea americana (Edizioni Settecolori, pp. 316, € 18,00).

 

Un eroe dei nostri tempi

Protagonista di questo saggio che è anche un romanzo ma soprattutto è un “viaggio”, non è un moderno Ulisse a stelle e strisce, ma il personaggio vissuto all’ombra dell’eroe acheo, il figlio Telemaco, a cui l’autore dà un nome ed un volto tra quelli del XXI secolo. È il volto di Barack Hussein Obama.

Egli, nel ritratto che l’autore ci offre, è un uomo semplice, più semplice di quel Bush Jr. che a mandato concluso si scoprirà essere un solitario topo di biblioteca, ma “periglioso” è il viaggio che l’ha portato a diventare il primo presidente afroamericano della storia degli Usa.

La Telemachia di Obama, la sua corsa verso la Casa Bianca così come la ricerca di un’identità attraverso luoghi e culture diverse, dura ben quarantasette anni.

Nasce nell’incantata cornice di Honolulu, ma l’incanto dura ben poco: cresce senza un padre, ritornato in Kenya dopo il divorzio e poi tragicamente scomparso.

In compenso ha una nonna pronta ad allevarlo, Toot, così la chiamava, prima che anche lei se ne andasse morendo ad appena due giorni dall’elezione del nipote.

Dalla sua Itaca molto presto Barack Obama salperà alla volta della terra ferma: prima lo studio, poi il lavoro, infine il matrimonio con l’avvocatessa Michelle Robinson lo faranno viaggiare per gli Usa finché arriverà la sua ora. Il 20 gennaio 2009 ha fine la Telemachia di Obama. La Casa Bianca diventa la nuova Itaca del presidente.

 

Obama vs i Proci: Yes, we can?

O forse no. Forse il viaggio non ha realmente mai fine e la storia degli Stati Uniti d’America altro non è che una “odissea”, un viaggio, per antonomasia, lungo e difficoltoso.

Alberto Pasolini Zanelli con la sua scrittura piacevole e accattivante ci riporta indietro di un secolo e di duemila anni e più, con lo sguardo anacronistico di chi sa, del resto, che la storia del presente non potrebbe mai essere compresa a pieno se non alla luce del passato. Dal più remoto a quello prossimo.

Così la memoria recente degli Usa ci viene raccontata parafrasando passaggi dei primi quattro libri del poema omerico, appunto la Telemachia, il racconto del viaggio di Telemaco partito alla volta del mare alla ricerca del padre Ulisse non ancora tornato alla natia Itaca al termine della guerra di Troia.

Eppure, nonostante l’avventura di Telemaco si concluderà con un lieto fine, nel caso di Obama il lieto fine sembra lontano dall’essere scritto.

Telemaco è secondo l’etimologia greca “colui che combatte da lontano”. Ed Obama, colui che viene da lontano, geograficamente e culturalmente, è anche colui che combatte da lontano la guerra lasciatagli in eredità dal suo predecessore, Bush Jr.

L’Iraq è lo spettro con cui deve confrontarsi. Compito ancora più ingrato per il presidente di una superpotenza, gli “States”, il cui secondo nome è Hussein.

Non una sola guerra, infatti, deve affrontare il nuovo eletto, ci racconta l’autore.

La più ardua è quella contro coloro che non hanno mai avuto fiducia nelle sue potenzialità, coloro che nel suo nome d’origine chiaramente araba continuano a leggere la minaccia di un nuovo 11 settembre.

A voler ripercorrere la cronaca più recente, la ragione sembra andare però proprio a questo schieramento che, nell’azione e negli intenti, non è molto dissimile dai molesti occupanti di Itaca: i Proci. Obama è troppo giovane ed inesperto per poter gestire un così grande fardello. La guerra in Iraq non è semplicemente il revival del Vietnam in quanto a strategie militari e perdite umane. È soprattutto una guerra ideologica, quella iniziata e voluta da Bush Jr. e da un’America fedele alla propria immagine di superpotenza capitalista, che giustifica l’azione militare come l’azione di chi, paradossalmente, fa la guerra per portare la pace. La chiamano, per usare un eufemismo, “guerra preventiva”.

Ad Obama quindi, oltre ad un nome sospetto, i Proci non imputano altro che l’inesperienza dovuta forse anche alla giovane età.

Nico Perrone nell’appena pubblicato Obama. Il peso delle promesse (Edizioni Settecolori, pp. 154, € 13,00), analizza l’operato del neopresidente ad un anno dalla sua elezione.

In questa brevissima raccolta fatta di stralci di articoli tratti da testate nazionali ed internazionali intervallate da opinioni personali, Perrone ripercorre in maniera lapidaria il primo anno di presidenza di Obama e il giudizio dell’opinione pubblica in merito toccando i punti salienti della sua campagna elettorale e le linee programmatiche della sua politica per il quadriennio.

La conclusione alla quale si vuol far pervenire il lettore è appunto una e molto chiara: Obama è sì l’uomo dello “Yes, we can”, un uomo di cultura con un passato difficile alle spalle dal quale ha saputo risollevarsi, ma a voler tirare le somme qualcosa non sta andando per il verso giusto. Forse non tutto può Obama, e i Proci, sempre pronti ad occupare la sua Itaca, ne sono ben consapevoli.

 

I personaggi di un’epopea contemporanea

Uno dei pregi del libro di Pasolini Zanelli consiste nella gradevole ironia con cui l’autore racconta gli Stati Uniti d’America del Duemila, dall’11 settembre all’elezione di Obama, dalla tragedia alla gioia. Un’ironia molto velata dietro cui non si fa schermo la critica, ma semplicemente un modo rapido e accattivante di raccontare episodi della storia recente, anche machiavellici e poco piacevoli.

Ci sono tutti i protagonisti dell’Odissea nella storia recente degli Usa.

C’è una Cassandra che ha il volto di Bush Jr. Lui, il presidente uscente, non aveva predetto la tragedia né gli inciampi di Obama, ma di sicuro ne era consapevole.

Lo esprimeva, durante le fasi finali del suo mandato, quello sguardo angosciato tipico di chi sa d’aver commesso errori irreparabili che si ripercuoteranno sulle future generazioni. Cassandra aveva vaticinato la guerra di Troia. Bush Jr., ad una guerra di Troia aveva preparato il campo di battaglia.

C’è la profetessa ma c’è anche l’eroe per antonomasia; è un Achille il cui volto non poteva non essere quello di una star hollywoodiana. La pelle arsa dal sole nonostante sia d’origini austriache, un savoir-faire schietto e popolare lontano da quello delle alte cariche politiche: è il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, l’eroe reclusosi nel silenzio della sua tenda ma che ha sempre avuto a cuore il bene del popolo e la sua elezione, duplice, alla carica di governatore della “Terra del sole” dimostra l’affetto che ha legato gli elettori all’ex Terminator del grande schermo.

C’è l’eroe guerriero ma c’è finanche una guerriera, la regina delle Amazzoni, in questa rivisitazione della saga epica. È l’ormai ex first lady col suo seguito di donne al potere ed i loro ideali da suffragette. Hillary Clinton succede al marito, rimpianto dall’americano medio nonostante le scappatelle finite sulle prime pagine dei tabloid mondiali. È lei a concorrere questa volta per la Casa Bianca. Bill, del resto, non avrebbe potuto ricandidarsi, nonostante l’America ricordi i suoi 8 anni di mandato con nostalgia ed affetto. Un decreto del 1940 ne vieta, infatti, l’elezione per la terza volta alla carica di presidente. Ma per Hillary questa sarebbe la prima volta alla Casa Bianca. Almeno, non nelle vesti di first lady.

La regina delle Amazzoni ha però due rivali fin troppo potenti. Obama da un lato, giovane e animato da buoni propositi, e l’Aiace americano dall’altro. Faranno fuori l’unica concorrente donna ed anche l’ex sindaco di New York, l’italoamericano Rudy Giuliani. È stata l’America a decidere chi portare fino in fondo ai due anni di campagna elettorale. La regina delle Amazzoni, probabilmente non all’altezza del marito, ha perso.

L’altro rivale, quello che sulle prime incute più timore, è John McCain.

Antagonista del Telemaco stars and stripes, con lui non ha nulla in comune. Rappresentano i due volti di un’America che vuole guardare al futuro senza dimenticare il passato. E rappresentano le due anime degli elettori d’oltre oceano.

La campagna elettorale arriverà al suo termine sul filo del rasoio: vincerà il giovane oratore venuto dalla sperduta Honolulu che promette una città del sole d’oltre oceano, o l’avrà vinta il rassicurante ex combattente del Vietnam, repubblicano per giunta, con un’ammaliante Circe al suo fianco, una Sarah Palin meglio nota come Miss Alaska 1984?

L’America, diranno i risultati delle presidenziali del 2008, preferisce i «self-made men agli “ereditieri”»: anche per questo motivo Obama è il presidente in carica. Ma ad oggi, due anni dopo la sua elezione, gli onori della cronaca che anticiparono l’avvento al potere del primo presidente «coloured» degli USA, rischiano di trasformarsi in disonori della cronaca.

Le parole d’ordine nel sistema politico americano sono “salvezza” e “sicurezza”, espressione dei due sentimenti che animano il popolo statunitense: religiosità ed amor patrio. Negli intenti, con le sue doti da oratore «kennedyano» e le sue promesse vicine alle necessità popolari, il Telemaco venuto da Honolulu ha conquistato il cuore degli elettori. Promette sicurezza ma, lontano dal professare una religione in particolare, la salvezza di un popolo intero, quella no, non può assicurarla. Del resto l’Armageddon è ben lontano dall’arrivare ed è bene preoccuparsi del presente, di un “viaggio” attraverso i quattro anni di presidenza che si dimostra sempre più difficile. L’America del 2010 continua a perdere giovani sui campi in Iraq e il giorno del giudizio finale, a esempio del quale, gli USA si portano dietro come uno spauracchio le immagini sempre vivide di quell’11 settembre spettacolarizzato dai media, sembra incombere sui cieli d’oltre oceano. Forse è per questo che oggi l’opinione pubblica quasi rinnega il voto espresso nel 2008, ripensando con rammarico all’Aiace sconfitto.

 

Nessun ritorno ad Itaca

L’Iraq incombe materialmente e come uno spettro sulla sicurezza nazionale e mondiale, le perdite umane sono ingenti e la natura, dal canto suo, non rende certo più semplice ad Obama il compito di governare 50 stati.

Di New Orleans era stata cancellata traccia durante l’“impero” Bush, ma altre catastrofi naturali minacciano il paese: da Haiti alla California, madre Natura si ribella.

A ciò si aggiunge una crisi economica mondiale di fronte a cui il crollo di Wall Street e gli anni della Recessione sembrano essere stati eventi di poco conto.

L’11 settembre 2001 è sì un ricordo, ma non troppo lontano nella memoria della giovane potenza, e nonostante l’Hussein più famoso, ritenuto da Bush Jr. uno dei capi del terrorismo internazionale, sia stato pubblicamente cancellato dai registri dell’anagrafe rimane comunque come una spada di Damocle sul collo del presidente la minaccia del terrorismo internazionale. L’incertezza e la possibilità d’essere ancora una volta al centro del suo mirino impediscono una risoluzione del conflitto in Oriente.

Un compito ingrato è toccato a questo giovane venuto da lontano, prima accolto come un Cristo a Gerusalemme, ora a rischio di una crocefissione mediatica.

La Telemachia di Obama, non più il viaggio alla ricerca delle proprie origini ma il viaggio attraverso gli USA del 2009-2013, non prevede quindi alcun ritorno felice ad Itaca.

Come recita un’incisione sull’Archivio di stato di Washington «Il Passato è Prologo» e la storia di oggi degli Stati Uniti d’America, ricalcando le gesta d’eroi vissuti più di duemila anni fa, si ripiega sul suo prologo riproponendolo. Avrà mai fine questa storia? Sorgerà una Grecia dalle ceneri di Roma?

Questo è l’interrogativo con cui ci lascia Alberto Pasolini Zanelli.

 

Federica D’Amico

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n.40, dicembre 2010)


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