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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè)

Zoom immagine Pareto, libertario e ateo:
genio e sregolatezza
di un celebre pensatore,
enigmatico e seducente

di Guglielmo Colombero
Da Brenner un ritratto insolito e stimolante de il Solitario di Celigny,
una parabola intellettuale sulla sua concezione di politica e di società


Saggista ferrato in più discipline – ha già pubblicato due altre biografie, dedicate rispettivamente al filosofo Erminio Juvalta e all’umanista Paolo Raffaele Troiano, nonché un manuale sull’utilizzo di Intranet – Piero Suriano si cimenta con un personaggio enigmatico e affascinante come Vilfredo Pareto, universalmente conosciuto come il Solitario di Celigny (dal nome della località elvetica in cui trascorse uno sdegnoso esilio in compagnia di due gatti, e dove si spense nel 1923 all’età di 75 anni), la cui parabola intellettuale in materia di Sociologia e Politologia non ebbe praticamente continuatori in Italia. Anzi, fu da molti tacciata come criptofascista, mentre altri ancora etichettavano Pareto come il Carlo Marx della borghesia. In Vilfredo Pareto, l’incallito impertinente (Brenner, pp. 139, € 15,00), Suriano sottolinea subito che «la prolissità del linguaggio paretiano tende alla verbosità e alla ampollosità che appesantiscono il discorso e rendono, talvolta, astruso il significato dei concetti espressi». Per cui, penetrare nelle pieghe più nascoste della sua concezione della politica e della società, rappresenta una sfida di alto profilo esegetico e speculativo. Ma Suriano, scrittore brillante e disinvolto, non si perde d’animo ed entra subito nel vivo della questione. Pareto, individualista e libertario fino al midollo, ateo convinto e fautore della più ampia libertà sessuale (detestava i moralisti in blocco e la sessuofobia di certi cattolici), quali strumenti utilizzava per teorizzare le strutture portanti della società umana? In primis, un procedimento di analisi della pura e semplice realtà dei fatti. Niente metafisica, quindi, e porta sbarrata anche su qualsiasi dottrina politica o religiosa: idee preconcette e confezionate su misura che, per Pareto, portavano completamente fuori strada. Essendo, secondo lui, la società formata da elementi interdipendenti (passati, come il retaggio socio-culturale trasmesso di generazione in generazione, o presenti come la continua evoluzione tecnologica), occorre indagare sia sul versante oggettivo (analisi di una teoria in tutte le sue componenti) che su quello soggettivo (capire sulla base di quali esigenze la teoria è stata elaborata dal suo autore).

 

Sociologia e sentimenti. Un conflitto permanente

Nel suo Trattato di sociologia generale, opera monumentale e spesso concettualmente ridondante, Pareto sostiene che, come nella sperimentazione scientifica, anche in ambito sociologico, prima di enunciare un principio, è indispensabile dimostrarne la fondatezza con prove concrete. Si sforza quindi di elevare la Sociologia al rango di disciplina scientifica mediante il ricorso a tre essenziali distinzioni: separare le azioni logiche da quelle illogiche, la verità sperimentale dalle teorie astratte, la deduzione dall’istinto. E, su questa falsariga, procedere nella costruzione dei concetti: osserva Suriano che «Pareto sembra voler evidenziare come accanto alla pura razionalità coesistano nel processo di costruzione di una teoria la persuasione più o meno occulta, il ricorso a una simbologia di carattere metastorico, la connotazione pedagogica volta a una ipotetica e quanto mai velleitaria redenzione dell’umanità». In questo contesto si colloca la complessa catalogazione delle azioni in logiche e illogiche: sono logiche le azioni basate su un ragionamento rigoroso, non lo sono quelle determinate da opinioni fluttuanti. Scrive Suriano che per Pareto «la natura umana si presenta scissa in due parti ed è dal ribollire della seconda che nasce la vita e la morte per l’uomo, la gioia e il dolore. La prima parte (azioni logiche) presenta freudianamente l’aspetto della punta di un iceberg che nasconde gli interessi e i sentimenti latenti dell’uomo». Ne consegue che quanto esiste di istintivo e di illogico nella natura umana viene definito da Pareto come «residuo» e da qui scaturisce il dilemma sul perché spesso e volentieri la massa si lascia influenzare da ragionamenti errati, che però risultano maggiormente persuasivi di quelli scientificamente dimostrabili. Infatti, nota Suriano, la sociologia paretiana «misura il successo di una teoria dalla sua capacità di incidere sui cuori della gente, anziché sulla facoltà di sviluppare il loro modus ragionandi». Sono evidenti le analogie con la visione di Freud della psiche umana, basata sull’equilibrio fra Es, Io e Super-Io. Ancora, osserva acutamente Suriano, «la scienza, e quindi tutto il mondo logico e razionale che le sta dietro, non è, e probabilmente non sarà mai, il deus ex machina degli eventi terreni […] l’arcobaleno delle emozioni e dei sentimenti dell’uomo sfugge al controllo previsionale della scienza». Dibattendosi tra le spire di questo irrisolto dilemma, alla fine Pareto conclude che gli uomini «hanno un certo bisogno di logica, ma lo appagano agevolmente con proposizioni pseudologiche».

 

L’homo economicus paretiano. Un ibrido multiforme

Nel pensiero di Pareto, chiarisce tempestivamente Suriano, l’economia non può dissociarsi dalla politica: «l’economia politica rappresenta comunque la parte più progredita delle scienze sociali». Con un lampo di genio, che solo di recente è stato riconsiderato sotto una luce esaustiva, Pareto inventa il concetto di «ofelimità»: è ofelimo ciò che risulta conveniente, cioè in grado di soddisfare un bisogno o un desiderio, legittimo o meno. Usando un linguaggio più attuale, potremmo incastonare l’ofelimità paretiana nell’idea di benessere, intesa come approdo ideale della società consumistica radicata nel capitalismo e nella libera concorrenza. Un’ulteriore tappa dell’itinerario concettuale di Pareto consiste nella definizione di homo economicus, parallela a quella di homo ethicus per la morale, o di homo religiosus per la religione. Per il Solitario di Celigny, infatti, ci si deve rassegnare a «conoscere dei fenomeni ideali che si avvicinano sempre più al fenomeno concreto», per cui il suo «uomo economico» è una figura astratta, costruita a tavolino dagli studiosi, e nella quale si infonde addirittura la “premessa edonistica dell’economia” teorizzata da un intellettuale a lui molto vicino, Maffeo Pantaleoni: l’umanità tende a conseguire il maggior piacere possibile limitando al minimo i sacrifici. Per cui, in termini economici, si tratta di conseguire un certo risultato minimizzando i costi. Così l’egoismo individuale balza in primo piano, come incentivo di qualsiasi scelta esistenziale, e si trasforma in fenomeno politico.

 

Pareto liberista e dissacratore del marxismo

Pareto non condivide alla radice i pilastri su cui si fonda l’ideologia marxista: demolisce il materialismo storico sul presupposto che non è ammissibile assolutizzare il fatto economico elevandolo a deus ex machina del divenire storico e del vivere sociale. Nella gerarchia dei valori stabilita da Pareto, la libertà dell’individuo sta al di sopra della giustizia sociale marxista: per cui l’utopia egualitaria del filosofo di Treviri risulta incompatibile con il nucleo, per Pareto inviolabile, del sacro rispetto della libertà del singolo. In altri termini: secondo Pareto l’utopia marxista distrugge la libera concorrenza, per cui non può essere fonte di beneficio per il genere umano. Su questa contrapposizione si innesta la concezione paretiana del capitalismo e dell’imprenditore, che egli ampiamente rivaluta: chi dimostra capacità e merito, ascende al ruolo di pioniere dello sviluppo economico di una società civile, e, pur perseguendo lo scopo del profitto individuale, contribuisce al benessere comune senza minimamente intaccare le libertà individuali (che il comunismo statalista invece tende a cancellare). Bisogna ammettere che il Crollo del muro vent’anni fa ha dato torto a Marx e ragione a Pareto.

 

Una filosofia in bilico fra Machiavelli e Orwell

Pareto era italiano, anche se nato per puro caso a Parigi, ma non amava l’Italia. Suriano scrive che «corrotta, voltagabbana e ipocrita nell’essere forte con i deboli e debole con i forti, l’Italia a un certo punto, fu per Pareto la negazione degli ideali di libertà civile ed economica che lui professava, il trasformismo della sua classe dirigente gli faceva semplicemente schifo, la stessa gente che ci viveva gli appariva debole e infelice». Nell’esilio svizzero, continua Suriano, «il grido imperioso del reazionario Pareto è, in realtà, l’urlo strozzato del libertario deluso». Causticamente, l’esule stigmatizza il cambio di governo seguito alla Disfatta di Adua del 1896 come una rovina che sarà opera di un galantuomo (Antonio Rudinì) subentrato a un malfattore (Francesco Crispi). L’élite al potere in Italia, secondo Pareto, è una congrega di rammolliti, di invertebrati incapaci di assumere decisioni drastiche e impopolari. Quante analogie con la situazione che stiamo vivendo oggi… L’acre sarcasmo di Pareto, spesso corrosivo quanto lungimirante, scaglia i suoi strali contro la corruzione e il clientelismo, ma è una debole eco che si perde nel deserto. Una denuncia della partitocrazia troppo in anticipo sui tempi: la stagione di Tangentopoli è ancora distante, e sul Paese già incombe l’ombra sinistra del Duce, che Pareto purtroppo definì come «uomo che la sociologia può invocare». Ma probabilmente si era trattato di un abbaglio senile: se Pareto fosse vissuto fino al delitto Matteotti, avrebbe sicuramente cambiato idea sul fascismo. Il disincanto paretiano è certo venato di cinismo machiavellico ma anche di viscerale, orwelliana avversione verso il totalitarismo: impressionante l’analogia tra le classi degli Alti, Medi e Bassi di 1984 e il perenne conflitto di potere tra le élite A, B e C ne I sistemi socialisti. Conclude Suriano: «possiamo dire che ciò che caratterizza Pareto rispetto al tenebroso Orwell e all’angustiato Machiavelli è il profondo sens dell’ironie». Aristocratico disilluso del pensiero, refrattario verso qualsiasi slancio mistico e diffidente nei confronti delle utopie di qualsiasi colore, Pareto lascia crepitare il suo amaro sarcasmo sulla superficie della Storia, e, al crepuscolo della sua esistenza, confessa di preferire i suoi gatti agli esseri umani.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 37, settembre 2010)

Collaboratori di redazione:
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