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Anno I, n° 3 - Novembre 2007
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè) . Anno I, n° 3 - Novembre 2007

Zoom immagine La succosa polpa acida di un’Arancia meccanica
di Alessandro Tacconi
Lindau e Aliberti pubblicano due libri dedicati ad un celebre cult movie,
e un’intraprendente analisi sul peso del controllo e della repressione


«Eccomi là. Cioè io Alex e i miei tre drughi. Cioè Pete, Georgie e Dim. Ed eravamo seduti nel Korova Milkbar, arrovellandoci il Gulliver per sapere che cosa fare della serata. Il Korova Milkbar vende latte+, cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quello che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto, e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza».

Ecco le battute iniziali indimenticabili di Arancia Meccanica, che è stato innanzitutto un film epocale diretto da Stanley Kubrick, costituitosi in seguito anche come evento letterario. All’uscita del volume omonimo di Anthony Burgess, nel 1962, fu relativamente scarsa l’attenzione che gli venne dedicata dai critici. E questo nonostante il lavoro di studio, analisi politica e invettiva morale proprio del manoscritto.

Lo scrittore inglese compose Arancia Meccanica (Einaudi, pp. 240, € 10,00) in un periodo drammatico della propria esistenza: infatti gli era stata diagnosticata una malattia incurabile, che nel giro di poco tempo lo avrebbe annientato. Tale notizia, dopo l’iniziale prostrazione, gli diede la spinta emotiva e artistica necessaria per comporre vari romanzi, in modo che i familiari potessero godere dei diritti della vendita dopo la sua prematura scomparsa. Uno di questi fu appunto la succosa “Arancia”. Fortunatamente, però, la terribile prognosi medica si rivelò errata, tant’è che la morte sopravvenne nel 1993.

Il romanzo racconta la parabola di Alex, un giovane delinquente per natura, «strambo come un’arancia meccanica», innocentemente dedito al godimento della violenza, paradigma dello stretto legame che esiste fra brutalità e potere, fra sopraffazione e civiltà, in un perpetuo alternarsi di anarchia distruttiva e repressiva e disperata tirannia.

 

La lingua rivoltata come un guanto di spine

Il lavoro linguistico svolto da Burgess per la stesura del romanzo attingeva direttamente dalla situazione politica mondiale dell’epoca: la Guerra fredda. Due blocchi politico-militari minacciosamente contrapposti: Stati Uniti e Unione Sovietica. Il linguaggio creato ad hoc è infarcito di neologismi, anglicizzazioni di termini russi ed espressioni che attingono direttamente all’epoca del bardo Shakespeare.

A Clockwork Orange è tra i romanzi più innovativi mai apparsi nel secolo passato. Lo si può affiancare a Lolita di Nabokov, Rumore bianco di DeLillo, oltre a celeberrimo Ulisse di Joyce.

Questo romanzo non è solamente un evento letterario, ma è anche un concentrato di modernissima dottrina morale umanista, come afferma lo stesso autore: «Attorno al 1960, in Gran Bretagna tanti cittadini rispettabili cominciarono a lamentarsi per l’aumento della delinquenza giovanile e suggerirono che i giovani criminali potessero essere una razza inumana, meritevoli perciò di un trattamento inumano... Allora c’erano persone irresponsabili che proponevano una terapia costrittiva... Alla società, come al solito, veniva assegnata l’importanza maggiore. I delinquenti ovviamente non erano abbastanza “umani”. Essendo minorenni, non avevano il diritto al voto… Erano i “loro” opposti ai “noi”, e questi ultimi rappresentavano la società. Fu il senso della linea di demarcazione che separava i “bene noi” dai “loro cattivi” che mi spinse a scrivere, nel 1960, un romanzo breve intitolato A Clockwork Orange… L’opera illustra con grande sincerità la mia avversione per un certo modo di giudicare che fa di taluni individui dei criminali, mentre tutti gli altri vengono assolti indiscriminatamente».

 

Sezionare la frutta viva

Se il cervello gioca la partita più importante sull’orlo del condizionamento, occorre una lama che ne sappia analizzare le fibre più sottili. E questo a livello sia letterario che cinematografico.

La succosa polpa viene, senza ombra di dubbio, sezionata in modo meticoloso dal volume curato da Flavio Gregori Singin’ in the brain. Il mondo distopico di «A Clockwork Orange» (Lindau, pp. 176, € 17,00). Il libro raccoglie saggi di Andrew Biswell, Fabrizio Borin, Giovanni Bottiroli, Giorgio Cremonini, Laura Tosi e quello introduttivo dello stesso Flavio Gregori.

Visione “distopica” – o “cacotopica” come Burgess preferiva chiamarla – della moderna civiltà tecnologica che condiziona la volontà e la stessa capacità di scegliere fra il bene e il male. I saggi del volume fanno parte di un convegno dal titolo omonimo svoltosi nel 2002.

L’introduzione, che già di per sé è un vero e proprio saggio, a cura di Flavio Gregori dal titolo «A Clockwork Orange» da Burgess a Kubrick è un’analisi molto dettagliata di quello che fu il rapporto tra lo scrittore e la sua opera: studio linguistico, metacontenuto socio-filosofico e passaggio dal testo scritto alla pellicola del regista. E poi le analisi del sequel teatrale a cura dello stesso Burgess, sorta di critica al celebre film, e i tagli e le modifiche decisi da Kubrick sul romanzo.

Segue Viaggi in distopia: nuovi mondi e grandi fratelli a cura di Laura Tosi che analizza alcuni testi fondamentali del genere: La macchina del tempo di H.G. Wells, Brave New World di Aldous Huxley, 1984 di Gorge Orwell. Per ognuno di questi romanzi, la relatrice stila una breve sinossi e analizza la tipologia di sistema politico in esso proposto, comparandola a quella del nostro romanzo.

«Lo concludiamo qua?»: nuovo succo da «A Clockwork Orange» di Andrew Biswell si sofferma su una questione apparentemente futile, ma che in realtà muta radicalmente il messaggio dello stesso Burgess: la presenza del ventunesimo capitolo. L’edizione inglese ce l’ha, quella americana no. Si dica per inciso che l’edizione italiana, pubblicata da Einaudi, contiene il ventunesimo capitolo.

Il finale, in effetti, diverge in modo radicale in base alla presenza di questo testo, senza di esso la conclusione non è certo rassicurante: l’ultima immagine, scelta anche da Kubrick, ritrae Alex immerso in una scena di “ultraviolenza cinebrivido”. Il ventunesimo capitolo propone, invece, l’incontro tra il protagonista e un suo vecchio drugo accompagnato dalla giovane moglie. Ormai sono vecchi, entrambi sono ormai diciottenni!

Segue Feto per sempre di Giorgio Cremonini, analisi suggestiva dal punto di vista linguistico, sia a livello letterario che cinematografico sia per l’indagine su come questi due ambiti si sono influenzati a vicenda.

Giovanni Bottiroli in Alex e il nostro inconscio procede a un’analisi ancora più complessa, in cui l’opera viene dissezionata  e decostruita a livello linguistico, filosofico per metterne nuovamente in circolo i terribili elementi perturbanti. È un contributo sostanzioso, quello di Bottiroli, che costringe il lettore su di un sentiero filosofico pseudospecialistico.

L’ultimo saggio a cura di Fabrizio Borin s’intitola Spicchi d’arance amare e ruvide scorze kubrickiane: «La rabbia giovane» («Badlands») di Terrence Malick. In questo viene analizzata la condizione giovanile a partire da un film americano e di qui il salto all’interno dell’arancia kubrickiana.

A conclusione di ogni saggio una dettagliata bibliografia, che amplia le possibilità di approfondimento delle differenti analisi offerte da questo volume, di quella che, a detta del suo autore, non era un’opera granché riuscita perché troppo didascalica.

 

Alex, oh Alex! L’occhio per sempre giovane

Malcolm Macdowell è senza dubbio l’attore che nei decenni si è imposto per la grande bravura e abilità, per il profondo rispetto suscitato nei colleghi grazie alla sua professionalità. L’esperienza avuta con i più grandi registi di sempre l’ha senz’altro messo nella condizione di migliorare costantemente, mettendosi di continuo alla prova.

La caraffa di succo acido dell’arancia kubrickiana è stata riempita grazie al suo notevole talento. Nessuna delle inquadrature lo ha risparmiato, perché è lo stesso Kubrick che non ha mai risparmiato nessun attore nei suoi film.

Marco Spagnoli ha raccolto in Malcolm Macdowell (Aliberti editore, pp. 221, € 13,50) una serie di interviste con l’attore che ha reso indimenticabili pellicole come Caligola e Gangster no. 1, Evilenko e Mr. Magoo. Il ritratto che ne esce è quello di un uomo molto rispettoso del proprio lavoro, dei colleghi e che ama raccontarsi. Ovviamente alle persone giuste e Marco Spagnoli è uno di questi.

Le varie interviste sono dei veri e propri racconti in presa diretta che ripercorrono le fasi salienti della sua carriera di attore: gli incontri straordinari e cruciali della sua vita, i film amati e quelli odiati, l’amore, i viaggi, i figli, i copioni difficili e quelli cari. Non si risparmia Malcolm, anzi.

E veniamo a sapere che Mick Jagger, all’epoca, stava pensando a un film per il libro di Burgess con la partecipazione dei suoi Rolling Stones. E che le sequenze in cui Alex era sottoposto alla “cura Ludovico”, legato e costretto per ore a visionare film violenti a occhi aperti, gli causarono una lesione alla cornea.

E poi lo scandalo che colpì la distribuzione del film. Anche allora, le accese critiche furono un ottimo veicolo pubblicitario per promuoverlo, anche se la censura aveva senz’altro maglie più strette di oggi. E la reazione inorridita del pubblico alla visione di tutta quella violenza. E Kubrick che dovette ritirare il film dalle sale anche se, con il passare degli anni, questo fu un altro tassello aggiuntosi alla sua notevole produzione registica.

La lettura del volume procede in modo veloce, tanti sono gli aneddoti, le vicende legate a un film o ad un altro, a quel regista o a quel gruppo musicale. Parole e azioni di un artigiano del grande schermo a portata di mano per tutti gli amanti di storie “cinebrivido”.

 

Alessandro Tacconi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 3, novembre 2007)

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