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Anno IV, n. 37, settembre 2010
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Letteratura contemporanea (a cura di Maria Franzè) . Anno IV, n. 37, settembre 2010

Zoom immagine L’autolesionismo di una giovane
come tragica reazione alla vita
e il forte messaggio di speranza

di Angela Galloro
Da Città del sole una maturazione
possibile solo grazie all’aiuto adulto


Il romanzo inizia con una citazione biblica, una ripresa dal libro dell’Apocalisse, con una specie di Epilogo, quindi, che lascia presagire al lettore qualcosa di tragico. In realtà lo scopo dell’autrice sembra essere quello di illuminare i problemi del mondo giovanile, attraverso una storia triste che però, auspica grandi speranze. Anche in copertina l’immagine del cielo cupo e del mare vuole rimarcare questa apertura verso il superamento di certe brutte avventure. Alice è un’adolescente che ha subìto un grosso trauma, e cioè la morte della madre dopo una lunga malattia e, come accade spesso in questi casi, in apparenza la cosa sembra non averla turbata eccessivamente. Suo padre e la zia, sorella della madre, tentano così di prendersi cura di lei nel miglior modo possibile ma la ragazza non se ne accorge e assume un atteggiamento distaccato nei confronti delle persone che ha intorno. È in queste circostanze che tutti cercano di fare o dire la cosa giusta, e nessuno, suo malgrado, ci riesce: le troppe attenzioni rischiano di soffocare, ma d’altra parte i suoi cari non se la sentono di trascurare i sentimenti di Alice ed è per questo che tutti si sentono sempre più spesso “sbagliati” nella sua vita. Alice va a passare i mesi estivi a casa di una grande amica della madre, Emanuela, la quale sembra essere la persona adatta a prendersi cura di lei in questo tragico momento. Il lettore è portato a pensare che la motivazione siano le due figlie di Emanuela, coetanee di Alice, o la sua casa in paese, al mare, rilassante e accogliente. Ma c’è qualcosa di più: la donna, moglie e madre impeccabile, si presenta dopo poche pagine come l’alter ego di Alice, e assume così il vero ruolo di protagonista dell’intero racconto di Daniela Orlando (L’età imperfetta, Città del sole, pp. 120, € 10,00). La sua personalità fluttuante la rende capace di estraniarsi dalla realtà, attraverso il sogno o il silenzio delle ore serali, e la vediamo tornare all’infanzia, all’adolescenza vissuta senza una madre accanto, e alle reazioni che, nonostante tutto, le hanno permesso di crescere.

 

Reagire alla vita stessa

Cogliamo il messaggio di speranza se pensiamo ad Alice come una futura Emanuela, brava a destreggiarsi tra gli impegni dei figli, il lavoro e un marito premuroso. Alice vive l’intera vacanza senza eccessivi entusiasmi, mangia poco, scherza poco con le figlie di Emanuela, che conosce da quando erano bambine, e si adatta alle circostanze senza prendere posizione. Le sue non-reazioni per ogni cosa la portano ad essere considerata “strana” dalle altre giovani della sua età, inadeguata soprattutto, e molti dei suoi comportamenti ce la descrivono come una bambina, costretta a crescere in fretta per via della perdita, ma ancora molto lontano dal farlo. Perché la morte della madre debba trasformarsi in rabbia nei confronti di se stessa e in indifferenza totale nei confronti del mondo, è materia degli psicologi. L’autrice tratta l’argomento con delicatezza, senza trarne giudizi e dando agli eventi il peso che meritano. E così enfatizza il momento in cui Emanuela comincia ad avere sospetti sull’autolesionismo della piccola Alice, proprio nell’attimo in cui dentro di sé affiorano domande come: «Diciassette anni, cosa si è, adolescenti? Donne in erba? Ragazze sull’orlo di una ribellione? O solo anime inquiete, senza capo né coda?». Probabilmente l’ultima affermazione è quella corretta, ma purtroppo non è una risposta. Stando a quanto leggiamo, il mondo adolescenziale è fatto di reazioni estreme, situazioni vissute al cento per cento, decisioni prese consapevolmente in modo affrettato, cambiamenti improvvisi di gusti e umore. Oppure niente di tutto ciò. La personalità di Alice infatti, per gran parte del tempo che viene a noi narrato, supera gli ostacoli, ripiega i traumi e li ripone nell’angolo, e assume i comportamenti di un’indole introversa ma normale, senza reagire. Questo, a quanto pare, spaventa l’occhio attento; l’occhio che sa che i sentimenti nell’animo umano devono riuscire a venir fuori, in un modo o nell’altro e che è giusto che sia così, nonostante il mondo intorno spesso costringa l’uomo ad “anestetizzarsi”, per non dare troppo nell’occhio.

 

Il motivo è l’assenza?

I disturbi di Alice non hanno storia. Lei stessa urla di non sapere da dove provengano, né quando sia iniziata questa sua voglia di farsi del male, anche se di sicuro prima della morte della madre. L’unica cosa di cui è consapevole è che si tratta di un bisogno insopprimibile. Non sembra cercare la morte e nemmeno il dolore, al contrario: dice di sentirsi viva solo alla vista del suo stesso sangue. Lungi da qualsiasi psicologia spicciola, è la vita che Alice cerca. E nello stesso tempo qualcuno che le insegni esattamente come viverla. Nel romanzo il personaggio adulto non biasima l’adolescente secondo i cliché che siamo abituati a sentire sui “giovani d’oggi”, ma ricorda le stesse situazioni, le stesse paure, lo stesso gioco contro se stessi e, in particolare, racconta come sia più facile e più naturale cadere nell’errore, nell’imperfezione, nel torbido mondo dello sbaglio, piuttosto che restare nell’equilibrio, nella mens sana, che tutti in apparenza danno per scontata.

Quella di Alice è un’imperfezione necessaria, che va curata con delicatezza e maestria ma non rimproverata o peggio, ignorata, come avviene oggi per molti disturbi adolescenziali più o meno gravi. Nel libro il problema è l’assenza della madre, quindi metaforicamente di una rotta, di un orientamento da seguire, che ognuno – lo voglia o no – infine, trova da solo. E i giudizi di valore come “giusto” o “sbagliato” non ne fanno parte.

Alice continuerà a non reagire (eccezion fatta per un pianto forsennato sul pavimento del bagno), fino a quando non vedrà da sola uno spiraglio e allora vorrà tornare a casa di Emanuela, con il pretesto di un campo scout. Non sappiamo se sia “guarita”, né chi sia la causa del suo nuovo stato di benessere, e se questo sia duraturo, ma siamo portati a pensare che sia uscita da sola da quel terribile modo di reagire.

Certo, gran parte di questo merito va ad Emanuela e al suo considerare Alice (in modo molto discreto) molto simile a sua madre: grazie a questo ha saputo trattare con lei, senza pretendere di capirla, come se la ragazzina fosse il riscatto della sua infanzia, come se lo dovesse a se stessa e all’amica defunta. Una prova di grandezza d’animo da parte sua, una prova di forza da parte di Alice.

Forse ogni età è imperfetta, sia quella delle madri che quella dei figli. Ma come nel caso di Emanuela e Alice, ogni categoria ha molto da imparare dall’altra.

 

Angela Galloro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 37, settembre 2010)

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