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Home Page (a cura di Angela Potente) . Anno IV, n. 36, agosto 2010

Zoom immagine Gli “squilibri”
internazionali

di Rosina Madotta
Da Manifestolibri
una riflessione
sulle guerre di oggi


Le chiamano guerre pacificatrici, guerre umanitarie oppure guerre costruttive. I conflitti armati d’oggi si nascondono dietro nomi apparentemente pacifisti, con intenzioni altrettanto buone, ma a ben vedere cosa possiede di tutto ciò la parola “guerra”? Ogni giorno i mass media danno notizia delle operazioni belliche che coinvolgono soldati italiani o delle coalizioni occidentali in cui attentati, bombardamenti, combattimenti, mietono migliaia di vittime militari e civili. L’uso delle armi nelle questioni internazionali è prepotentemente ritornato nella vita civile soprattutto dopo la Global war on terror (Guerra globale al terrore) dichiarata da George W. Bush.

Il sociologo Alessandro Dal Lago, in un recente saggio dal titolo Le nostre guerre (Manifestolibri, pp. 264, € 22,00) ha analizzato il fenomeno delle guerre nel XXI secolo, focalizzando alcuni aspetti sociologici e filosofici del fenomeno. In tre distinte sezioni del testo espone il pensiero dei filosofi – tra cui Platone, Kant e Hannah Arendt – in relazione al concetto di guerra; analizza i nessi tra dimensione strategica, sociale ed economica dei conflitti contemporanei e si sofferma sulle pratiche di controllo e sicurezza rivolte principalmente agli stranieri.

 

La guerra permanente

L’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, con il suo strascico di morte, terrore, distruzione, ha catapultato l’Occidente in un vortice di paura e diffidenza. Un nuovo equilibrio – o meglio squilibrio – globale si è affermato, caratterizzato da uno scenario militare e da una visione apocalittica del futuro. All’indomani del secondo conflitto mondiale le più grandi potenze, dopo aver riscontrato la devastazione causata dalla bomba atomica – la più potente arma di distruzione – auspicavano un equilibrio mondiale e una pace duratura. Ma la minaccia sempre impellente della Guerra fredda, e tutta una serie di conflitti armati sfociati in diverse zone geografiche, hanno distrutto l’illusione di un pacifismo mondiale. La caduta del muro di Berlino nel 1989 prima, e la disintegrazione della federazione jugoslava dopo, sembrano avere innescato molti focolai bellici che hanno coinvolto i Balcani e non solo. In seguito differenti alleanze occidentali, con a capo gli Stati Uniti, si sono adoperate in molti paesi del mondo per difendere la legalità internazionale (in Kuwait nel 1991), l’umanità e i diritti umani (in Somalia nel 1993, in Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel 1999), la libertà duratura (in Afghanistan nel 2001), la lotta al terrorismo (in Iraq nel 2003). L’autore parla addirittura di “guerra permanente” per sottolineare come nella vita quotidiana, e soprattutto dopo l’11 settembre, ci si stia ormai abituando a uno stato d’assedio continuo sia a causa dei numerosi attacchi di natura terroristica proseguiti nel corso degli anni, sia per il massiccio aumento delle forme di sicurezza negli aeroporti e alle frontiere internazionali,così come il sospetto continuo verso i cittadini stranieri in particolare d’origine araba e l’allestimento di campi per prigionieri come a Guantanamo.

E inevitabilmente il controllo sociale per fini di sicurezza ha portato a una militarizzazione nonché a due principali conseguenze come l’autore sottolinea: «la prima è che certe categorie di esseri umani, in quanto sospettate di connivenza con il nemico, sono sottratte alle normali garanzie giuridiche su cui l’occidente ha costruito la propria rappresentazione di culla del diritto. [...] La seconda conseguenza è la messa in stato d’accusa virtuale e reale di quei tipi umani, in particolare i migranti, considerati inclini, per la loro “natura” sociale irregolare, ad accogliere la propaganda dei nemici dell’occidente».

 

La civiltà della guerra

Ogni aspetto della cultura e della civiltà oggi sono condizionate fortemente dalle guerre in corso. Per esempio il campo dell’informazione e dei mass media ricade sotto una sfera d’influenza per cui molte televisioni, testate giornalistiche e altri mezzi si allineano all’orbita occidentale e in particolare degli Stati Uniti.

Anche determinati modi di pensare diventano “normali” per la popolazione civile: quando si è in guerra il nemico è semplicemente un bersaglio da abbattere, è completamente de-umanizzato; nasce così l’indifferenza verso le popolazioni coinvolte nei conflitti e le stragi, le violenze, i campi di sterminio sono coscientemente insabbiati dall’informazione e nello stesso tempo ignorate dall’opinione pubblica. Pochi si sono occupati delle vittime civili durante i bombardamenti in Somalia, Serbia, Kosovo, Afghanistan e Iraq. Alcune espressioni, poi, esprimono questi concetti. “Danni collaterali” è la tipica definizione per indicare le vittime civili cadute durante i combattimenti e racchiude tutta la superficialità e la svalutazione delle vite umane altrui coinvolte come per fatalità nella guerra; “nemico combattente” definisce i terroristi catturati in Afghanistan e prigionieri a Guantanamo; “risposta indiscriminata” è l’azione violenta volta a creare il vuoto sul terreno intorno al nemico distruggendo le città, le infrastrutture e la popolazione che potenzialmente vi si nasconde. Dal Lago definisce tutto ciò “guerra asimmetrica” «che si può definire come conflitto in cui una parte dotata di una forza schiacciante cerca di distruggere un nemico infinitamente più debole che combatte in modo non convenzionale e “scorretto”». Ma l’asimmetria di cui parla l’autore è anche di tipo antropologico per cui non si riconosce il nemico in quanto uomo ma solo come terrorista, barbaro e criminale, escludendone ogni aspetto umano: si combatte contro dei “non-uomini”. La sua inferiorità e i presunti fini superiori legittimano e giustificano qualsiasi azione violenta che abbia lo scopo di sopraffarlo e distruggerlo.

L’analisi di Dal Lago nella sua precisione e lucidità rappresenta l’equilibrio mondiale odierno in modo sconvolgente e realistico. Il mondo reale nella sua tragicità, rivela giochi di potere sulla pelle delle popolazioni, opinioni pubbliche e mezzi d’informazione imbavagliati dall’allineamento con le maggiori potenze mondiali, un equilibrio precario nel quale si è costantemente sull’orlo del baratro di una nuova guerra armata. E l’odio, la paura, la diffidenza verso lo straniero, considerato un nemico in mezzo a noi, il senso d’insicurezza, alimentano le scintille della violenza e, a volte, della psicosi collettiva che “normalizza” le azioni belliche. Difatti, la guerra è diventata normale esercizio del potere sulla scena internazionale ma nello stesso tempo rappresenta il retro oscuro della medaglia della società mondiale. Di fatto un movimento globale che contrasti e neutralizzi la guerra è un’utopia ma comunque «spetta a noi – sottolinea il sociologo – abitanti della costellazione imperiale, il dovere teorico e politico di iniziare a decostruire il razzismo globale su cui lo stato di guerra attuale si è edificato e che ne identifica sempre più esplicitamente il progetto».

 

Rosina Madotta

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 36, agosto 2010)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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