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A. XVIII, n. 198, marzo 2024
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Editoria varia (a cura di Anna Guglielmi)

Zoom immagine Misticismo monastico
e simbolismo arcano
nell’arte sacra bizantina
sulle coste dello Jonio

di Guglielmo Colombero
Edito da Il Coscile un suggestivo itinerario artistico e culturale dentro
le chiese nel Cosentino medievale tra icone dorate e bestiari allegorici


Facciamo un passo indietro di circa mille anni, e proviamo a immaginare uno scenario di aspra e incontaminata bellezza: piccoli borghi medievali raggruppati sulle alture della Calabria, dove all’orizzonte il verde lussureggiante dei boschi si confonde con l’azzurro del cielo e con il blu dello Jonio, attorno alle mura di un castello fortificato che sovrasta una chiesetta bizantina, inondata dai colori sensuali delle icone e delle immagini sacre in cui il volto del Redentore si trasfigura nella mandorla d’oro soffuso in cui è racchiuso… A condurci in questa dimensione remota ma non dimenticata, attraverso parole e immagini contenute nel suo libro, è Francesca Dorato, giovane studiosa calabrese di archeologia, specializzata nel restauro dei beni culturali. Animata da una profonda passione per il recupero del passato medievale del Cosentino, l’autrice dedica una rigorosa quanto affascinante monografia all’eredità storica, letteraria e artistica lasciata dalla dominazione bizantina in quelle terre. In I Bizantini nel Cosentino. Aspetti storico-politici, letterari ed artistici (Il Coscile, pp. 150, € 15,00), la Dorato ripercorre il suo itinerario storico-culturale attraverso tre tappe fondamentali: il monachesimo basiliano, la letteratura agiografica legata alla Chiesa cristiana d’Oriente e le testimonianze artistiche scolpite e dipinte nelle basiliche e nelle abbazie.

 

Niceforo l’armeno ricongiunge l’Alto Jonio a Bisanzio

Una data fondamentale per il Cosentino è l’Anno Domini 886: un giovane montanaro armeno che ha fatto carriera nell’esercito bizantino, Niceforo Foca, riceve dall’imperatore Basilio I il mandato di difendere il Mezzogiorno d’Italia dai saraceni. Il papa Giovanni VIII (colui che diede adito alla leggenda della Papessa Giovanna, ma pare si sia trattato di una bufala messa in circolo dai suoi detrattori), constatata l’impotenza dei duchi longobardi nel contrastare le scorrerie degli arabi già padroni della Sicilia, ha inoltrato una disperata richiesta di soccorso a Costantinopoli, ed è stato ascoltato. Con una campagna folgorante, in cui rivive il genio di Annibale, l’armata di Niceforo estirpa la minaccia della Mezzaluna da Bari e Taranto nelle Puglie, e da Santa Severina, Tropea e Amantea in Calabria. Anche il ducato di Benevento e il principato di Salerno, ultimi feudi longobardi del Meridione, tornano sotto la giurisdizione imperiale. Niceforo non è solo un intrepido combattente: è anche un avveduto organizzatore politico. Spinge la popolazione costiera, terrorizzata dai predoni musulmani, a raccogliersi nei kastellion sulle alture: ogni città si trasforma in fortezza, e l’incubo dei saraceni razziatori e schiavisti si infrange contro i bastioni di pietra sui quali svetta la croce greca. Contrade un tempo inospitali e sperdute si popolano di monasteri, che insieme alla rinnovata fede cattolica portano anche spirito caritatevole e amore per la cultura. Prende così forma sul confine calabro-lucano l’Eparchia monastica del Mercurion (il cui nome deriva da S. Mercurio di Cesarea): intere comunità di monaci bizantini sfuggiti alle persecuzioni degli emiri musulmani della Sicilia danno vita alla Nuova Tebaide, galassia multiforme di anacoreti (dediti all’ascetismo solitario), di esicasti (fautori del raccoglimento in preghiera nelle celle) e di cenobiti (ligi alla regola dell’obbedienza assoluta). Sorgono le chiesette di Amendolara; la chiesa di San Marco a Cassano Jonio e quella di San Giacomo a Castrovillari; il cenobio di Sant’Andrea e i monasteri femminili di Santa Maria delle Armi e di Santa Maria de Cosma a Cerchiara; le chiese di San Teodoro a Laino, di Santa Maria di Mercuri a Orsomarso e di San Leone a Morano Calabro; il santuario ipogeo di Santa Maria di Sotterra a Paola; la cappella di Santa Sofia e la chiesetta di Santa Maria di Costantinopoli (dove è custodito il prezioso affresco della Madonna di Costantinopoli) a Papasidero; le chiese di San Marco, di Maria la Panaghia e della Madonna del Pilerio; la celebre abbazia basiliana di Santa Maria del Patir (fondata dall’anacoreta S. Bartolomeo di Simeri) a Rossano Calabro; la basilichetta di San Adriano (con i preziosi pavimenti decorati dalle figure del Bestiario) a San Demetrio Corone; la cappella di San Giacomo a Saracena; la chiesa dello Spedale di Scalea; il misterioso edificio absidato senza nome di Spezzano Albanese; infine la chiesa di San Nicola di Mire a Trebisacce.

 

Cinque santi alle soglie del Primo Millennio

Il monachesimo basiliano trae origine da S. Basilio, l’iniziatore del cenobitismo, nato nel 330 mentre sorgevano le mura di Costantinopoli, e morto nel 379 alla vigilia dell’editto di Teodosio il Grande che proclamava il cristianesimo religione di Stato, spazzando via brutalmente gli ultimi residui della cultura pagana. I monaci basiliani amavano la pittura (le loro icone a tempera brillano di colori vivaci, e spesso gli affreschi sono ricchi di elementi simbolici) ma anche il lavoro agricolo: bonificarono le paludi; insegnarono ai contadini nuove tecniche di coltivazione del grano, delle vigne e dell’ulivo; introdussero la gelsicoltura e l’allevamento dei bachi da seta. Osserva la Dorato: inizia così «il periodo in cui modi di vita, sentimenti, ideali, si integrano e si confrontano, in virtù dei continui scambi e rapporti che avvenivano fra queste sperdute zone calabresi e l’immenso mondo bizantino, ricreando delle cittadelle ascetiche di ispirazione e costituzione tipicamente orientale, quale riflesso del grande patrimonio culturale e religioso bizantino». Cinque figure di santi basiliani spiccano nel panorama agiografico cosentino: S. Saba da Collesano, diplomatico presso il Sacro Romano Impero germanico e pellegrino a Gerusalemme; S. Nilo da Rossano, morto quasi centenario e coinvolto nella ferocissima disputa tra papi e antipapi che rese torbida l’alba del primo millennio della cristianità; la sua compagna di fede Teodora di Rossano, badessa del monastero di Sant’Anastasia; infine i santi Fantino e Nicodemo, due asceti che mortificavano la carne e lo spirito mentre la minaccia saracena li spingeva in fuga verso la Lucania.

 

L’arte degli amanuensi ci riporta a Il nome della rosa

Scrive la Dorato: «l’Italia meridionale bizantina viene considerata quale anello di congiunzione fra il mondo culturale bizantino e quello latino, e lo studio delle biblioteche dei monasteri italo-greci permette di ricostruire il clima culturale in cui i loro monaci vissero, comprendendo in parte anche l’origine delle loro convinzioni religiose». La trascrizione dei codici salvati dallo scempio, nel bel mezzo di carestie, rivolte e invasioni, prosegue senza sosta a opera degli infaticabili monaci amanuensi. L’atmosfera è quella di austero raccoglimento e di silenzioso amore per la cultura, così magistralmente rievocata da Umberto Eco nel suo celebre romanzo Il nome della rosa. Sotto l’occhio vigile del Bibliophylax (il bibliotecario dei basiliani), nel vasto scriptorium del monastero di Santa Maria del Patir, ferve il lavoro di copiatura e di miniatura secondo i dettami della ferrea regola introdotta da S. Teodoro Studita. In quel microcosmo rarefatto di laboriosa devozione, l’unico rumore percettibile è lo strusciare del calamo contro la carta, mentre prendono forma i caratteri greci dei manoscritti rossanesi di Grottaferrata e del Codex Purpureus Rossanensis (il cui nome deriva dalla pergamena color porpora su cui fu scritto), quest’ultimo particolarmente prezioso, in quanto racchiude il più antico Evangelario greco, compilato in Terra Santa attorno al V secolo, dalle facciate rifinite in oro e argento, e con miniature che riproducono scene dei Vangeli di Matteo e Marco, compreso il suicidio di Giuda.

 

L’enigmatico Bestiario di S. Demetrio Corone

Dall’alto della collina del Monte Santo, la basilica di Sant’Adriano si affaccia sulle acque scintillanti dello Jonio. Sul pavimento di marmi e pietre dalle svariate tonalità cromatiche sono raffigurati un leone rampante che affronta una serpe, un altro serpente avvolto a triplice spira, una pantera multicolore, infine una terza serpe dalla coda bifida, con fattezze vagamente demoniache. Una teratologia raffinata, un’essenzialità delle forme che sprigiona un inquietante simbolismo: il leone e la serpe si contendono un terzo animale, non più riconoscibile, e l’allegoria, considerata l’epoca della composizione (databile fra il 1060 e il 1140), potrebbe rappresentare la Vera Fede (il leone) che lotta contro l’Eresia (la serpe) per l’egemonia sulla comunità dei credenti in Cristo (la creatura contesa). Sono gli anni in cui si consuma la prima devastante scissione della cristianità: lo scisma della Chiesa orientale, che, infiammata dall’ambizione del patriarca Michele Cerulario (più interessato al potere temporale che a quello spirituale), risponde alla scomunica di un papa dispotico e intollerante, Leone IX, staccandosi definitivamente da Roma. Una data fatidica, quella del 16 luglio 1054: da allora la comunità cristiana cessa di essere unita, e il Sacro Romano Impero d’Occidente, in bilico tra laicità e teocrazia, si contrappone al cesaropapismo degli autocrati di Costantinopoli. Non si può quindi escludere che quei misteriosi animali allegorici racchiudano una criptica invettiva contro la Chiesa cattolica romana (la serpe), insidiosa nemica del patriarca orientale (il leone), al quale tenta di strappare i fedeli (l’essere conteso).

Nota la Dorato come nel patrimonio artistico bizantino del Casentino «la mistione di elementi orientali ed occidentali su un fondo indigeno è caratteristica dei monaci italo-bizantini ed è anche documentata da espressioni artistiche, le quali mostrano l’incontro, la fusione e la giustapposizione di motivi ed elementi così disparati e lontani tra di loro». Emblematico, a questo proposito, l’affresco custodito nell’abside della chiesa di Rossano Calabro dedicata a Maria la Panaghia: raffigura S. Giovanni Crisostomo, recante in mano una pergamena su cui è scritto che gli schiavi dei desideri carnali sono indegni di accostarsi a Dio. Un’eloquente testimonianza delle pulsioni sessuofobiche che spesso si combinavano con l’ascetismo del monachesimo di matrice bizantina.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 35, luglio 2010)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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