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Anno IV, n. 32, aprile 2010
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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno IV, n. 32, aprile 2010

Zoom immagine Una bellezza in fiamme
tra contrasti e grovigli

di Anna Guzzi
Per Ediesse, l’occhio ispirato dell’antropologo
ammira le rovine e gli incanti di una terra torturata


Tragicamente divisa fra il marciume consumistico, l’illegalità sistematica, il soffio apparentemente genuino dei dialetti, la Calabria non riesce a trovare un’adeguata espressione letteraria. Non ha scrittori attuali la sua natura traversata da spietati ossimori: l’odor di resina dei boschi e quello delle plastiche liquefatte; le sue «incasinatissime città provinciali», come Catanzaro, «terra slegata, slogata dalla modernità», che si eleva sul vero centro della regione, sui «tendini di cemento e asfalto», su un «groviglio di ponti, svincoli e carreggiate incistate sulla terra antica dei Greci d’Occidente e in mezzo ai due mari di Omero». Nel libro La Calabria brucia (Ediesse edizioni, pp. 190, € 10,00) dell’antropologo Mauro Francesco Minervino la Calabria è un inferno maccheronico.

La vita resta sempre «appoggiata sui lati delle strade tra i lembi di un vuoto che non raggiunge mai il senso di una qualche pienezza, né qua né là», secondo una dinamica schizofrenica in cui la città si sdoppia in campagna stuprata, in un presepe agonizzante.

Nei roghi che, puntualmente, lacerano la pelle di Calabria l’occhio di Minervino, occhio narrante, va precisato, vede lo stratificarsi di molteplici significati simbolici: la negazione d’ogni razionalità condivisa, lo scadere del governo democratico a oclocrazia senza qualità. Perfino una logica sadica associata alla macchina finzionale della comunicazione postmoderna dove ciò che conta è la messa in circolo di un messaggio, non il suo valore. «Bruciamo i boschi e acquistiamo notorietà, negativa e reificatrice, ma è pur sempre notorietà quella che si acquista dai media e dal sistema della comunicazione che identifica e rafforza anche con lo spettacolo devastante dell’incendio continuo dei boschi demaniali un’idea ‘maledetta’ di Calabria».

I nonluoghi della Calabria
Rivelando l’ampiezza delle sue varie letture, Minervino convoca la dépense di Georges Bataille, la perdita dei beni che si traduce in un acquisto, in tal caso, mitopoietico: la fiamma distruttrice alimenta il mito della terra maledetta o, meglio, uno degli stereotipi che l’antropologo cerca di sfatare. Ma ciò, e precisiamo qui perché mai fosse essenziale definire narrante lo sguardo di Minervino, non avviene solo rivolgendo strali velenosi contro le disfunzioni sociali e politiche della Calabria, troppe. La critica antropologica, invece, si lega intimamente alla tenuta letteraria di questa scrittura che ascolta i dettagli come fossero gli unici residui della concretezza spaziale e geografica. Diciamo spazio, pensando al fatto che Marc Augé, presenza costante ne La Calabria brucia, ne contrappone l’animazione all’indifferente impersonalità del luogo. Così la cittadina tirrenica di Paola assume il valore di un punto archimedico, di un’origine alla quale occorre sempre tornare, riacquistando un momento di indugio lirico, pur nella concitazione di viaggi e spostamenti. Paola è «uno di quei sipari intercambiabili e snodati della storia del Sud che può sembrare arcaico, ipermoderno e selvatico nella stessa successione di istanti. Ho una casa a Paola, e davanti mi si spalanca il Tirreno. Certe sensazioni ti vengono addosso come il mare, ogni volta che sale dall’orizzonte e dilaga come una distesa liquida che l’occhio è incapace di limitare». Nel rapporto dell’antropologo con Paola che, si badi bene, ha un nome femminile, «l’allucinazione seduttiva» convive con l’amarezza di chi incrocia i volti senza sguardo dei ragazzi paolani, ipercinetici, tutti simili tra loro, tutti insieme a far branco ma sempre soli, campione umano del nonluogo dove la contiguità non assicura l’incontro. Conosciamo il degrado al quale Minervino dà voce, i chiusi adolescenti ai quali la scuola, oscurata dal gossip mediatico, interessa poco, quel Tirreno dilagante, spalancato ai lati dell’auto, su strade ferite, non solo dalle voragini.
Nonostante il serpeggiare, qua e là, di un sottile compiacimento apocalittico, La Calabria brucia ha il merito attribuito allo scrittore Enzo Siciliano, alla sua geografia dell’anima resa vitale da parole pesate, «squarci di letteratura nitidissimi e puliti». Dal Sud proteiforme di Siciliano viene forse una briciola di speranza; la sua Calabria, infatti, rappresenta il grado zero di una modernità in cui tutto è adulterato, feroce, a rovescio, ma è anche «ineffabilmente complesso e sorprendentemente nuovo e vitale; un anticipo di non si sa quali destini planetari futuri, dovrei dire col gergo debolmente profetico del mio mestiere di antropologo». Questa accensione fortiniana o pasoliniana del libro suggerisce che le rovine della storia calabrese possano figurare l’allegoria di una bellezza audace, ancora da scoprire. Con l’ausilio, certo, delle virate descrittive e delle attente esplorazioni di Minervino.

 

Anna Guzzi

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 32, aprile 2010)

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