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Anno IV, n. 30, febbraio 2010
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Home Page (a cura di Anna Guglielmi) . Anno IV, n. 30, febbraio 2010

Zoom immagine È Calciopoli:
appassionante
storia di falsità

di Simona Gerace
Un romanzo firmato Inedition
narra la storia di un pistolero
ribellatosi alla corruzione


Una storia ambientata nello scenario della calda estate texana del 1906, in una società western caratterizzata da giochi di potere, inganni e falsità, è quella narrata nel romanzo documentario, Il giudice e il pistolero. Una metafora di Calciopoli (Inedition, pp. 168, € 15,00). L’autore è l’esordiente Giuseppe Belziti, un programmatore informatico che fin dalla giovane età ha coltivato con tenacia la passione per la scrittura, la lettura e la letteratura in generale.

Il libro narra del mondo calcistico con le relative e consequenziali disparità di trattamento delle squadre all’interno del più grande scandalo di tutti i tempi, Calciopoli. Già nel Prologo l’autore esplicita con un linguaggio chiaro, asciutto e lineare, spesso diretto e colloquiale, l’obiettivo della sua scrittura: «questo libro intende essere una denuncia contro coloro che dovevano vigilare e non l’hanno fatto. Vuole essere un atto di protesta ufficiale contro chi doveva difendere i diritti di una società forte e solida […] e invece non l’ha difesa. E infine vuole essere uno strumento di biasimo contro quei canali di informazione che, invece di dare ai cittadini le corrette e imparziali informazioni, furono soltanto mero strumento nelle mani di coloro i quali, mettendo tutto in un perverso ingranaggio, avevano solo da guadagnarci».

L’opera, inizialmente pubblicata in forma ridotta su un blog e poi trasformata in un libro, è stata divisa dall’autore in due parti: una prima, composta dalla descrizione dello scandalo calcistico metaforizzato, traslato nel passato, con i nomi dei protagonisti camuffati, e una seconda, più romanzata, in cui l’autore-protagonista sceglie di trasformarsi in un “angelo di giustizia” e provocare la morte dei suoi nemici.

Belziti non vuole sostenere l’innocenza di Moggi, Giraudo e della Juventus, ma tiene a sottolineare che le altre società sono risultate meno colpevoli solo per la “fortuna” di un minore coinvolgimento nel gigantesco processo mediatico.

 

Il racconto di una società corrotta

L’autore parla anche dell’eventuale corruzione dei magistrati che «invece di assicurare alla legge i responsabili del degrado morale ed urbano delle città non fanno altro che mettersi in mostra, compiacendo i potenti e contendendo a soubrette e veline varie le prime pagine dei rotocalchi. Perché il calcio tira, il calcio fa notizia, il calcio è ricco e ti può donare quella notorietà che il semplice fatto di cronaca non ti può offrire».

Il libro non risparmia neppure i giornalisti, sostenendo che «I giornalisti poi erano una vera calamità, erano da sempre abituati a saltare sul carro dei vincitori e lo facevano senza alcuna vergogna. Sempre pronti a genuflettersi davanti a chi prometteva loro un avanzamento di carriera, sempre pronti a gettare fango sulle altre persone per soldi o per un proprio tornaconto personale. Erano ridicoli e sapevano di esserlo ma sembrava che non gliene importasse niente, volevano sempre e a tutti i costi compiacere i loro padroni».

Polemico è inoltre il giudizio verso quei giudici che, nei confronti di alcune squadre, pare ignorassero volutamente «tutti gli incartamenti sulla scrivania per anni» e sottovalutassero reati come «il traffico di clandestini, l’istigazione a delinquere, il falso in bilancio, lo sfruttamento della prostituzione, lo spionaggio industriale, la produzione e la ricettazione di documenti falsi». Mentre lo scoppio dello scandalo si ebbe quando la Juventus venne mediaticamente condannata nonostante dalla sentenza risultasse che non c’erano illeciti e che si era cercato di interpretare un sentimento collettivo.

 

L’autore e i suoi interrogativi

Questi eventi hanno suscitato qualche perplessità in Belziti, il quale si chiede: «Se si ammette che nel processo non ci sono prove, significa che non c’è alcun reato riscontrato. Come si è arrivati allora alla sentenza di condanna?». Questo e numerosi altri interrogativi trovano una soluzione nella seconda parte del romanzo in cui il protagonista si trasforma in un vendicatore che si diverte a programmare la morte dei suoi nemici, anche se spesso il suo progetto viene sconvolto dal fato che sembra allearsi con lui nella volontà di spargere violenza nella cittadina. A contrastare la corruzione del giudice, e riportare l’equità nel mondo, giunge quindi la sua antitesi, il pistolero, che arriva a lavare le ingiustizie col sangue «perché la legge aveva dimostrato di non esserci e, se c’era, era soltanto al servizio di chi la pagava profumatamente».

Ci si aspetterebbe un andamento ciclico del racconto, con un finale in cui il protagonista dovrebbe pentirsi delle morti provocate. Invece no, lui continua imperterrito il proprio percorso facendosi giustizia da solo. L’opera quindi – come espresso dall’autore – non intende avere alcuno scopo pedagogico, offrendo come unico insegnamento quello della vendetta, un insegnamento di cui Belziti pare non si penta né si vergogni.

 

Simona Gerace

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 30, febbraio 2010)

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