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Anno III, n. 27, Novembre 2009
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Home Page (a cura di Anna Guglielmi) . Anno III, n. 27, Novembre 2009

Zoom immagine Lo ius sanguinis e il suo divenire
potere del sangue e violazione

di Angela Potente
Per Città del sole edizioni, la giornalista Paola Bottero racconta
le contraddizioni di una terra in perenne attesa di cambiamento


«I nostri sensi non sono in grado di percepire nulla di estremo, il troppo rumore ci assorda, la troppa luce ci abbaglia, una distanza esageratamente lunga o corta ci impedisce di vedere» diceva il filosofo e scienziato Blaise Pascal, e probabilmente il merito di Paola Bottero e del suo ius sanguinis (Città del sole, pp. 336, € 12,00) è proprio quello di restituirci la capacità di vedere la Calabria dalla giusta distanza.

Perché uno dei mali che affligge questa difficile terra è essenzialmente il “non vedere”, non riuscire a individuare i propri limiti, superarli e incrementare i punti di forza.

L’autrice piemontese (sottolineiamo che il lancio ufficiale del libro è avvenuto proprio a Torino, nel corso dell’ultima edizione della Fiera del libro a cui hanno partecipato anche l’editore Franco Arcidiaco e il direttore di la Bottega editoriale Fulvio Mazza in veste di moderatore) ha saputo raccontarci, con una scrittura agevole e dal potere evocativo quasi filmico, una terra il cui tessuto connettivo è permeato di grandi contraddizioni.

 

Uno stivale troppo stretto

Nelle primissime pagine del libro, l’autrice accoglie il lettore nella “punta dello stivale” e utilizza una metafora perfetta ricordando a chi legge la sensazione che si prova nell’indossare uno stivale dalla punta troppo stretta che impedisce i movimenti provocando dolore, e come l’unico martellante pensiero – per chi porta la scomoda calzatura – si cristallizzi nel riuscire a liberarsi di essa in qualsiasi modo nel minor tempo possibile. Ed in effetti per molti, moltissimi, il sollievo indotto da questo liberarsi è talmente forte che nulla li convincerebbe a resistere. Ma (volendo mantenere la stessa metafora), non capita a volte che ci siano calzature così belle che, anche se di una misura più piccola, fanno indietreggiare il pensiero della sofferenza, poiché l’unica cosa che conta è poterle indossare? Sì capita, e si resiste; eccome se si resiste!

E nel suo libro, la Bottero racconta di quanti resistono, con le scarpe strette e con il dolore, perché alla fine dei conti, toglierle quelle scarpe costerebbe più che indossarle.

 

A Sud del Sud

La Calabria non è un mostro che sonnecchia a Sud dell’Italia, è una terra con enormi potenzialità ma che non riesce a spiccare il volo proprio perché impossibilitata, come sotto un incantesimo, a vedere le grandi facoltà possedute. Ma l’incapacità più grande è quella che impedisce di realizzare che i mali che la affliggono non sono solo ed esclusivamente “made in Calabria”, ma fanno parte di un sistema che andrebbe riformato nella sua totalità. Un sistema sociale e civile che non comprende solo questo stretto lembo di terra proteso verso il mare, ma l’intero pianeta. Una società in cui la giustizia venga regolata secondo le leggi, dove la sanità possa essere garante di salute e non di morte, e nella quale il diritto alla vita, ai sogni, alla possibilità di realizzare il proprio sé sia riconosciuto come sacrosanto. La consapevolezza che certi mali non sono solo calabresi imporrebbe, forse, quel risveglio delle coscienze necessario e sotteso ad ogni sviluppo e ad ogni crescita.

E il libro della Bottero, andando oltre gli stereotipi e i luoghi comuni legati a questa terra, bella e strapazzata, ci regala un’immagine nuova; come una fotografia fatta da una diversa angolazione ci fa scoprire nuovi particolari cui prima non avevamo fatto caso.

 

Quattro racconti: epifania di quattro sentimenti

Le storie raccontate smuovono in chi legge sentimenti diversi che si mescolano tra loro riattivando sensori emotivi che probabilmente la quotidianità – fatta di quei mille piccoli pensieri concentrati solo nell’orbita del nostro vissuto – spegne, creando “rumore” nell’anima: rabbia, pietà, compassione, ribellione, sete di giustizia e verità.

Con una scrittura veloce e viva, l’autrice disegna quattro storie nelle quali il lettore si trova immerso senza accorgersene, e come in un film l’opera si compone di altrettanti quattro tempi. Le parole scuotono l’anima del lettore ormai preso, provocando un’epifania di sentimenti; sono parole che grattano, che spingono a fermarsi a pensare, a “vedere” ciò che per inerzia spesso rimuoviamo.

Ogni storia è uno ius sanguinis, un diritto di sangue, un diritto alla vita, che si trasforma in un potere del sangue e della sopraffazione e, dunque, in un diritto mancato.

La prima e l’ultima rappresentano la parte “romanzo” del testo infatti, seppure ispirate a fatti di cronaca realmente avvenuti, sono frutto della fantasia della nostra autrice, non di meno – forse proprio perché sappiamo che la realtà a volte supera la fantasia – ci lasciano indifferenti, anzi.

Le due narrazioni centrali sono casi giudiziari ancora aperti, in cui quel diritto alla vita è soppresso da mani assassine nel caso del giovane imprenditore Gianluca Congiusta e da incuria umana per la dolce studentessa vibonese Federica Monteleone, le cui storie hanno occupato, e purtroppo continuano ad occupare, le prime pagine dei giornali. Rappresentano il cuore pulsante del libro, quel cuore che non ha smesso di battere anche e soprattutto per loro, per quanto ci hanno lasciato e per quanto avrebbero potuto dare ancora.

 

I sogni di Alice

Nel primo racconto conosciamo Alice: una ragazzina piena di sogni e di talenti, avvolta dall’affetto dei genitori e dalla loro comprensione, probabilmente come poche, che si imbatte in un amore distorto, incarnato da Rocco, che le nega la potenza dei sogni e la possibilità di realizzarli. Un sentimento così totalizzante da risultare soffocante, fino al tragico epilogo – cui il lettore arriva sperando che non accada quel che si è presagito fin dal primo apparire del giovane – nel quale quell’amore adolescenziale, che dovrebbe essere come un fresco ruscello, si trasforma invece nella pericolosa rapida di una cascata.

Questo episodio di ius sanguinis fa fiorire diversi spunti di riflessione: uno tra tutti è il ruolo della donna. L’emancipazione femminile è costata tanto, e tuttora non è realmente e concretamente compiuta nei paesi per così dire “civilizzati” così come in quei paesi che per ignoranza spesso definiamo del “terzo mondo”. La piccola storia inserita dalla Bottero – come il pittore inserisce quel particolare che in un quadro ci fa bloccare ad ammirarlo – sulla violenza subita dalle donne in silenzio, in virtù di un frainteso senso dell’onore e del rispetto verso il proprio coniuge, ci spinge a riflettere sulla difficoltà del vivere al femminile. È innegabile come molte volte per l’altra metà del cielo il diritto alla realizzazione personale venga riconosciuto solo come diritto alla realizzazione familiare: essere madre e moglie.

E la storia di Alice è in un certo senso racchiusa in questo non esserle riconosciuto il diritto alla sua vita, se non in veste di futura moglie e madre. La giovane viene investita da un amore cieco che non riesce a “vedere” quante qualità, quante capacità lei possieda; e questa cecità trasformerà il suo mondo, e quello dei suoi familiari, perché neanche l’amore vero della madre riuscirà a impedire la tragedia annunciata.

 

La forza di Roberta

Attraverso Roberta conosciamo Gianluca Congiusta. Il processo per assicurare alla giustizia i colpevoli del suo omicidio è ancora aperto, ma non è questo il punto focale su cui l’autrice fa convergere il pensiero del lettore. È piuttosto la percezione di un vuoto, di uno spazio sospeso in cui ci si accorge che qualcosa è andato storto.

È il racconto di una mancanza, della presa di coscienza di quel che si era prima e dopo. C’è uno scarto, tra quel “prima”, fatto di vita e progetti, e quel “dopo” in cui niente sembra più al posto giusto. Come in una distorsione spazio-temporale. Ritrovare il senso della vita è il passo più difficile da compiere, perché si resta come immobilizzati in un determinato tempo senza la possibilità di poter tornare indietro o andare avanti. Come in una rappresentazione vivente dell’urlo muto di Munch, non si trovano più le parole per spiegare come possa accadere che qualcuno tranci di netto una vita, fatta di speranze, sogni e legami.

Ma Roberta va avanti perché nella forza del fratello ucciso ritrova la sua forza, la sua capacità di “vedere” oltre il dolore, anche perché non si può darla vinta due volte agli assassini.

Ai delitti di mafia si è cercato di trovare molte spiegazioni, ma anziché ascoltare le tante parole espresse dopo un fatto di sangue, bisognerebbe interrogarsi sul silenzio che assorda prima che questo avvenga. Nel nostro immaginario è impressa la figura del mafioso come di un uomo nero che impugna la sua pistola, ma la realtà è che la mafia è uno stato mentale, quello stato del pensiero che induce a giustificare ogni piccola sopraffazione e ingiustizia come un dato di fatto che non può essere cambiato. Accorgersi che invece si può cambiare è l’unico modo per uscirne, basta solo volerlo.

 

Federica

Ius sanguinis III è un pugno nello stomaco. Un caso di malasanità, uno come tanti, ma l’abilità dell’autrice è stata quasi unica: dalle prime battute il racconto sembra seguire i pensieri della mamma di Federica finché, proseguendo nella lettura, non ci si accorge che noi lettori diventiamo Federica. Siamo i suoi sogni spezzati e i suoi progetti mai realizzati.

Siamo con lei nella sala operatoria quando accade l’irreparabile, siamo con lei prima di entrarvi, quando la paura ancora non ha preso il posto della speranza. E siamo con lei dopo. Ma, al contrario di quanto ci aspetteremmo, in questo “dopo” le parole di Federica sono di una dolcezza infinita e riescono a proiettare fino a noi un riflesso dal mondo di luce cui ora appartiene. Non c’è rancore o rabbia, solo l’adulta consapevolezza che c’era una vita da vivere, fatta di danza e musica e suoni, e c’è adesso una vita fatta di sola luce.

 

Il difficile mestiere del politico

L’autrice nell’episodio conclusivo tratteggia la figura di un politico calabrese, esperto equilibrista che si destreggia tra il non nuocere a quanti sa di non potere nuocere e la gente comune, impregnata da una stolida mentalità clientelare.

La parte finale del libro provoca rabbia per l’inettitudine e l’inerzia di questo politico compiacente e compiaciuto, che si crogiola nei suoi piccoli privilegi preoccupato di non perderli, anche quando sa che il suo unico dovere sarebbe quello di produrre nuova linfa per la crescita della regione chiamato a governare.

Un ritratto che ricorda i personaggi di Honoré de Balzac ed Émile Zola, a metà strada tra il pavido e l’intrepido: pavido con chi riconosce come più forte e più potente, e intrepido nel sottrarsi al suo dovere.

Una particolare nota merita la figura della sua segretaria, Lisa, colei che tiene le redini della sua giornata di politico, che organizza le cene di gala e i presenzialismi al teatro cittadino, che alla fine simboleggia il “Grillo parlante”, la coscienza che all’improvviso si sveglia e senza timore mette in fila una dietro l’altra le parole giuste, senza infingimenti. Ed è lei che in un memorabile confronto con il suo capo, chiamato a parlare circa le condizioni degli immigrati che arrivano sfiniti sulle nostre spiagge, spiega cosa significhi veramente ius sanguinis o almeno quel che dovrebbe significare. La difficoltà del politico di comprenderne il vero senso ha fine quando riesce a conferire ai due termini un suo personale significato, e le ironiche parole di Lisa «essere calabrese significa maturare un diritto dovere. Quello di versare il proprio sangue senza lamentarsi. Senza ribellarsi. […] Solo perché questa è la Calabria. Perennemente in attesa di giudizio» suonano quasi sinistre.

 

Il cerchio si chiude

Quest’ultimo passo del libro chiude il cerchio apertosi con il primo racconto, perché è qui che conosciamo il destino di Rocco, il fidanzato accecato dall’amore distorto per Alice.

Ci rendiamo così conto che quanto nelle prime pagine del libro ritenevamo assodato, si capovolge e si trasforma: Rocco non è un mostro, è un ragazzino come tanti. Ma proprio questa normalità per contrasto ingigantisce la mostruosità del suo gesto criminale nei confronti di Alice.

E allo stesso tempo è colpevole anche la nostra capacità di considerare “normale”, per abitudine, per inerzia, o anche per paura, ogni atto criminoso, ogni piccola sopraffazione, perché fin quando sul pianeta, non solo in Calabria o in Italia, verrà perpetrata un’ingiustizia e calpestato un diritto non ci sarà sollievo per l’anima di nessuno.

Paola Bottero ha raccontato uno spaccato della Calabria ai calabresi e non, ma soprattutto ci ha dato modo di riflettere sul rispetto che ognuno di noi deve portare per la vita, perché questo è il nostro unico dovere e allo stesso tempo il nostro primo diritto.

 

Angela Potente

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 27, novembre 2009)

 

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