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Anno III, n.25, Settembre 2009
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Home Page (a cura di Anna Guglielmi) . Anno III, n.25, Settembre 2009

Zoom immagine Laici e fedeli
intesa difficile

di Marika Guido
Rubbettino espone
un’analisi sul ruolo
della religione oggi


Il tempo storico che oggi viviamo sembra rappresentare, oggettivamente, un disagio per il cristiano che ha smarrito la sua identità e si vede costretto a ridefinirla, per l’incessante pressione cui la cultura postmoderna lo costringe. Molti studiosi, eminenti teologi, s’interrogano sulle cause e le effettive conseguenze di siffatto fenomeno su tutta la comunità credente e il dibattito pare esibirsi come un ragionamento a largo raggio, capace di coinvolgere non credenti, protestanti, persino ebrei. Rubbettino propone, a questo proposito,  l’interessante riflessione Come forestieri. Perché il cristianesimo è divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo (Prefazione di Gianfranco Ravasi, Armando Matteo, pp. 78, € 8,00). L’autore, assistente nazionale Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) e docente di Teologia, s’inserisce felicemente in una discussione molto complessa, divenuta un vero e proprio fenomeno culturale, che ha le sue migliori rappresentanze in filosofi come Massimo Cacciari, Umberto Galimberti o Salvatore Natoli, nonché personalità di spicco del mondo ecclesiale, Carlo Maria Martini, con la sua recentissima pubblicazione Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, o lo stesso papa Benedetto XVI che ha esordito nel confronto più volte, in particolar modo con il suo Perché siamo ancora nella chiesa. Come si vede il parterre è ricco, vario per gli esponenti, molti dei quali stranieri (Jürgen Habermas e John Rawls), e significativo, poiché tutte le voci in campo si chiedono in che modo reagire allo smarrimento dell’uomo in generale di fronte a uno scetticismo imperante e di massa. Persino Habermas, da non credente, ha ipotizzato un ritorno alla professione pubblica della fede personale per fronteggiare efficacemente il fenomeno del neonichilismo moderno. «La fede cristiana non s’intende più da sé. È […] estranea alla mentalità vigente. Forse è giunta l’ora nella quale il cristianesimo, non lasciandosi imporre più come comandamento morale o dogma, potrebbe essere proposto come motivo e come invito, come possibilità di configurazione e di stile». L’imbarazzante citazione di Elmar Salmann viene proposta dall’autore come ouverture al suo lavoro, il quale si snoda su due fronti: un esame delle ragioni di disorientamento del credente rispetto alla cultura moderna, delineandone l’andamento, la decadenza e i possibili errori, anche da parte della chiesa; il secondo fronte è tutto nella riscoperta della proposta cristiana, stimolante e capace di comunicare ancora qualcosa di irrinunciabile per la vita dell’uomo, la sua dignità, il suo diritto, antica e novella custode del suo più genuino messaggio di salvezza per il mondo.

 

Il raffronto con la postmodernità

Matteo descrive un orizzonte entro il quale fede e secolarizzazione s’incontrano, si scontrano, tentano un probabile dialogo. Scuotere la tiepidezza e la debolezza della religiosità in cui è caduto l’uomo contemporaneo si prospetta una sfida affascinante e nessuno studioso cattolico, che ami coniugare le ragioni della fede con la ragione stessa difficilmente si sottrae, spesso prendendo linfa da pensatori a lui coevi, sovente non prescindendo dal messaggio evangelico per indicare vie di fuga a trappole noetiche che hanno generato il progresso del pensiero. È il caso dell’autore che da subito, senza aver ancora guadagnato neppure una sola ragione di discussione, allinea la sua critica teologico-filosofica all’esperienza dei Magi, che accompagna le sue valutazioni, indicando in essi il modello a cui guardare con speranza per superare con favore il confronto amaro tra postmodernità e fede, sceverando una possibile tensione, senza smarrire i dati dottrinali, né quelli razionali. I Magi erano re, saggi e scienziati (quindi avvezzi ai dati di ragione), i quali da stranieri, forestieri, si mettono in cerca del Messia a detrimento di un mondo che non lo aspetta quasi più, un popolo che non sa leggere nei tempi i segni dei profeti (la stella cometa era stata profetizzata nella scrittura), in una terra rassegnata e stordita dalle contingenze (ricordiamo la scomoda dominazione romana su Gerusalemme all’epoca dell’Incarnazione), la stessa condizione che caratterizza molti cristiani di oggi, smarriti, scontenti di tutto. L’uomo postmoderno, per l’autore, porge il primato all’attimo, all’istantaneità sul riflessivo, al corporeo sullo spirituale, alla singolarità sull’universalità e la sua legge aurea è l’esercizio totale della libertà, generata dal motto sessantottino «vietato vietare». È anche un uomo liberato dal dominio dell’Onnipotente e della chiesa, emancipato, la sua vita non è “con Dio, né contro Dio, ma senza Dio”. La categoria di postmodernità non è accettata pacificamente da tutti gli studiosi e necessita ogni volta una precisa declinazione in base ai significati che assume. Chi aderisce alla sua semantica, ravvisa nella Caduta del muro di Berlino l’evento storico che ha accelerato la condizione descritta da Nietzsche ne La gaia scienza «Dio è morto!». Egli è «l’illustre dimenticato», al punto che è solo «oramai un affare di chiesa, e non tocca la vita quotidiana di migliaia di persone». Se dunque l’uomo di oggi si muove eticamente sganciato dai condizionamenti del magistero ecclesiale, esercitando la sua libertà a partire da se stesso, e cioè non riconoscendo più un creatore (teorie darwiniane), non percepisce più il Vangelo quale «sostegno a un progetto di vita piena». Alla luce dell’analisi sconfortante, corroborata dalla testimonianza editoriale di Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), il quale asserisce che il cristianesimo, con le sue regole «è contro l’uomo», Matteo ricostruisce con pertinenza la storia della trascendenza di Dio nel mondo, per capire il tempo e il modo di uno scollamento dalla parola di Dio da parte del singolo, fenomeno al quale la chiesa non ha saputo reagire tempestivamente fin da quando la rivelazione cristiana si alleò col platonismo, che permetteva la resa razionale di contenuti difficilmente decifrabili per gli uomini del passato. L’alleanza occorse in seguito, nel Medioevo anche con il diritto romano che autorizzò la chiesa a trasformarsi in un ente politico. Tuttavia è Agostino che ha concepito uno spessore etico della fede, sulla scorta di Paolo, permettendo all’uomo e alla donna di rafforzarsi anche antropologicamente. La trascendenza di Dio viene messa in discussione a partire dall’Età moderna con Lutero e si consolida a fine Ottocento; con la “morte di Dio” si profila un’immanenza sganciata dalla trascendenza che stritola la coscienza umana in un vortice di illusioni: superuomo, potere assoluto, libertà incondizionata. È la fine del platonismo, che ha «insegnato all’uomo a non arrestare il suo sguardo a ciò che vede»; la teoria del “Dio morto” riguarda la morte della metafisica e il conseguente avvento della tecnica, che modella la coscienza solo sulla contingenza. Dilatare gli spazi dell’io è il nuovo comandamento.

 

Altrimenti umani

«No platonismo, no fede», sembra essere la considerazione ultima per l’uomo contemporaneo. Sebbene la cultura odierna si presenti antimetafisica, tuttavia la chiesa ha un compito profetico (testimone di un “oltre”), che può e deve essere narrato senza la necessità di agganci culturali, mediatori del messaggio. È venuto il tempo di prendere sul serio il confronto con la mentalità postmoderna; la trasmissibilità dei valori oggi “pretende nuovi linguaggi”. L’esperienza di fede è cambiata, non si colloca più secondo il modello territoriale delle parrocchie, ma cerca spazi di aggregazione originali (pellegrinaggi, movimenti, giornate mondiali) «che garantiscono più benessere al singolo credente». La chiesa sembra assumere tratti quasi astorici, evidenziando un chiaro problema di decifrabilità delle esigenze del fedele. Riscoprire la sua carica profetica, significa ricordarsi del comandamento dell’amore donato da Gesù, capace di garantire una vera umanizzazione del mondo, progetto del Padre sull’uomo fin dalla creazione. L’uomo che ama è veramente libero. È nell’amore che dimora la “differenza cristiana”: amare indica esattamente l’accoglienza dell’altro nella sua diversità e il lasciarsi accogliere nella propria differenza; l’individuale si riapre nuovamente all’universale, senza eliminare la singolarità di ciascuno. La fede, dunque, si svela a garanzia di libertà, rimuovendo la sua limitazione. «L’ordine dell’amore nasce dal riconoscimento che nessuno di noi è Dio, e questo mondo non è il Paradiso», bisogna in sostanza mettere in conto la sofferenza che è parte di una realtà contingente. Come scrive Ravasi nella Prefazione «l’Incarnazione è croce d’amore piantata nel terreno della storia per ricomporre la frattura del trascendente con l’immanente». La ricerca della felicità consiste in questo: fare la volontà di Dio Padre che non giudica, ma ci ama in quanto figli. Si tratta di un cambio di prospettiva su contenuti acquisiti sempre validi, da inverare con le risorse di oggi che sono doni di Dio se considerati per l’uomo e non dell’uomo. Ci si scopre altrimenti umani, Dio non è un terzo che si aggiunge accidentalmente nelle relazioni umane, ma è Colui su cui si può fondare un’alleanza d’amore, una compartecipazione alla creazione del mondo, non una sottomissione, secondo il disegno originario di quell’Onnipotente che ha creato l’uomo per amore.

 

Marika Guido

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 25, settembre 2009)

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