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Anno III, n. 24, Agosto 2009
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Home Page (a cura di Anna Guglielmi) . Anno III, n. 24, Agosto 2009

Zoom immagine Viaggi insoluti,
poeti, briganti
e tempo finito

di Sandra Granata
Immaginario elegiaco e ironia
in due opere edite da Laruffa
realizzate per il palcoscenico


La vitalità del vernacolo e la fantasia dell’autore danno vita a due lavori per il teatro che hanno il sapore di storie d’altri tempi: un racconto, a metà strada tra le suggestioni gotiche di una fiaba e la crudezza verista delle novelle verghiane, e un monologo che ironizza sulle ottusità, sulle maniere invadenti e sulle superstizioni dei calabresi che vivono nei borghi e nutrono le loro semplici esistenze con eventi piccoli e unanimemente condivisi. L’amore per la propria terra e la simpatia della sua gente sono i motivi portanti di Nu cuntu... (Laruffa editore, pp. 94, 10,00), dell’attore locrese Antonio Tallura, libro – costituito da due opere pensate per il palcoscenico, la prima che dà il titolo al lavoro e, l’altra, Vaju llà che trattiene in sé l’amarezza e la dolcezza di un passato non troppo lontano. Due modi diversi di raccontare i fenomeni del brigantaggio e dell’emigrazione, piaghe mai sanate che hanno contribuito a rendere ancor più misero il profondo Sud e ad isolarlo dal resto d’Italia. Al racconto in versi sciolti (’Nu cuntu...), cupo, malinconico e dai risvolti spesso drammatici, narrato alla maniera degli antichi cantastorie che sacrificavano metrica e rima in favore della materia trattata, lo scrittore contrappone un monologo vagamente autobiografico (Vaju llà), fresco, divertente e di più ampio respiro.

 

Quasi una novella

’Nu cuntu... è la lieve storia del viaggio in Aspromonte di un padre, un bambino e del loro mulo zoppo alla volta del luogo in cui lavora il primogenito ’Ntoni da ricondurre al capezzale della madre morente. Il racconto ha inizio quando il sole sorge sul secondo giorno di viaggio mentre ai tre, con la fame e il freddo addosso, si prospetta soltanto la dura montagna all’orizzonte.

Solo una figura bianca, a cui la dimensione surreale dell’aurora dona le sembianze di un fantasma, si accosta ai viandanti in quel luogo desolato, mentre Kola, il bimbo, dorme placidamente all’ombra di una quercia. Lo sconosciuto si informa sulla loro sorte di poveri, privati ormai perfino della terra e, dopo aver ascoltato il racconto delle pene che gravano sul cuore dell’uomo, della malattia della moglie e della vana speranza di riuscire a trovarla ancora in vita una volta a casa, scompare all’improvviso fondendosi con le ultime ombre della notte. Il piccolo, ridestatosi, racconta al padre di aver forse sognato un uomo vestito di bianco che, sorridendogli, gli rimboccava le coperte chiamandolo per nome.

Ripreso il cammino, già nel fitto di un bosco riescono a distinguere echi di donne e risate di bambini, ma lo spettacolo che si para ai loro occhi, una volta giunti alla radura, li lascia senza fiato: un intero villaggio gremito di gente nera in volto per via del carbone, condotta dalla miseria in quel posto inospitale, vive dimenticata da Dio e dagli uomini, ma li accoglie come fratelli. Di ’Ntoni, però, non c’è traccia: da molto tempo è andato via dal villaggio per sfuggire ad una vita di fatica e dolore e da allora nessuno ha più sentito parlare di lui, forse è partito per l’America o forse, in seguito ad un furto di bestiame, da lui perpetrato per ottenere i soldi necessari al viaggio, è diventato brigante nascondendosi tra le montagne e lasciando per sempre il lavoro di carbonaio e l’amore di Melina, una dolce ragazza dai capelli neri, che lega subito con Kola.

Il padre vorrebbe riprendere presto il viaggio verso casa, ma i carbonai, per via dell’ora tarda e dello scoppio di un violento temporale, lo persuadono a restare con loro e a partecipare ai festeggiamenti in onore della moglie del capo che sta per dargli un erede.

Scorto Kola malinconico in un angolo, Melina lo conduce con sé nel granaio e, per confortare il bimbo, intona per lui una nenia che narra di un uomo divenuto brigante per salvare la sua gente dalla fame. Il padre, che ascolta per caso la ninna nanna, crede che Melina narri la sorte di ’Ntoni e, amareggiato dalle scelte pur comprensibili del figlio, attende insonne l’alba di un giorno di tempesta per prendere la strada del ritorno. Il tempo inclemente rende arduo il viaggio: sferzato da un vento gelido e col cuore gonfio d’angoscia al pensiero della moglie morente, l’uomo trascina il mulo col figlio in groppa giù dalla montagna, mentre il sentiero è scomparso sotto un fiume di fango e solo i fulmini illuminano l’alba di quel giorno da tregenda.

’Ntoni, qualunque sia stata la sua sorte, è ormai perduto come lo furono tanti figli d’Aspromonte. Eppure né il padre né l’autore stesso riescono ad esprimere un giudizio impietoso verso le scelte del giovane.

Dal racconto emerge una sofferta partecipazione dello scrittore al dramma della sua gente, costretta a soccombere ad una situazione di abbandono e di miseria, divenuta insostenibile dopo l’annessione del Meridione al regno sabaudo. Decidere di ribellarsi significava perdere gli affetti, la speranza di una vita dignitosa per trovare scampo in una terra aspra e inospitale in cui era inevitabile andare incontro al disonore o alla morte.

È il dramma del padre, forse l’unico personaggio della vicenda a percepire che si stava consumando la disgregazione del suo nucleo familiare. La consapevolezza gli strapperà di bocca la sconsolata considerazione che chiude il racconto: «Questa vita dura finché uno non scoppia».

 

Un viaggio impossibile

Il curioso monologo Vaju llà inizia dal suo epilogo: davanti ad una stazione ferroviaria, ’Ntoni (omonimo del personaggio incontrato nel racconto precedente), trattenuto dalla mano misteriosa di qualcuno che vuole a tutti i costi conoscere la meta del suo viaggio, perde il treno che avrebbe dovuto condurlo chissà dove e, ingombro di pacchi di ogni sorta, dopo essere caduto nel vano tentativo di riacciuffare il convoglio ormai lontano, irrompe furibondo sulla scena e inizia a raccontare agli spettatori la sua terribile odissea.

La gente impicciona del piccolo paese in cui vive, avuto sentore della sua imminente partenza, si è ingegnata in ogni modo per scoprire tutti i dettagli del misterioso viaggio, iniziando una vera e propria opera di persecuzione nei confronti del malcapitato che non ha alcuna intenzione di raccontar loro i fatti propri. Così, mentre la vicina di casa Annuzza ipotizza la terribile prospettiva di una probabile chiamata alle armi del povero ’Ntoni, la zia Kata piange perché ha bisogno di sapere se il caro nipote abbia un punto di riferimento o una persona amica nel luogo denominato semplicemente «llà». Quando ormai la voce si è sparsa in tutto il paese, davanti a casa del protagonista inizia una lunga processione di parenti, amici ed estranei che per pura coincidenza hanno dei congiunti proprio «llà» a cui mandare, in settembre, le provviste di Natale per mezzo di ’Ntoni, e che vengono a metterlo in guardia dai pericoli, invitandolo a diffidare della natura umana.

Ma il povero ’Ntoni ha i suoi buoni motivi per voler tacere: poco tempo addietro aveva compiuto l’insano gesto di esprimere ammirazione per una bella ragazza del paese, così di punto in bianco era già fidanzato ufficialmente col beneplacito della zia Kata e della madre della futura sposa, che non vedeva l’ora di vederla accasata. Sfuggito ai propositi matrimoniali delle tre donne, aveva giurato di non confidarsi più con nessuno.

Giunge finalmente il giorno della partenza, ’Ntoni si avvia alla stazione, ma dietro l’angolo l’ennesimo importuno in bicicletta si offre di aiutarlo a portare i bagagli. Continuando a cadere dal veicolo, l’uomo si aggrappa al protagonista con tutte le sue forze, supplicandolo di dirgli quale sia la sua destinazione, impedendogli così di prendere il treno.

Ciò che rende esilarante il monologo è quello che sembra sfuggire allo stesso protagonista: ’Ntoni non pare rendersi conto di quanto l’ottusità con cui si ostina a celare la meta del suo viaggio lo accomuni ai suoi concittadini, gente caparbia ma al tempo stesso amorevole, che non vuole veder partire un proprio figlio senza tentare di proteggerlo con buoni consigli.

Sembra strano poter fare finalmente ironia su quello che è stato il dramma di intere generazioni di calabresi, costretti dalla miseria ad abbandonare una terra inospitale. È una sorta di riscatto: lo ’Ntoni di ’Nu cuntu... non ha potuto scegliere una vita migliore; lo ’Ntoni di Vaju llà e forse non è casuale che l’autore abbia dato ad entrambi i personaggi il proprio nome – parte, spinto dalla semplice idea di realizzare un sogno.

 

Sandra Granata

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 24, agosto 2009)

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