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Anno III, n. 24, Agosto 2009
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Home Page (a cura di Anna Guglielmi) . Anno III, n. 24, Agosto 2009

Zoom immagine Dieci anni con
Di Pietro e Idv

di Marika Guido
Rubbettino espone
pensieri e memorie
del partito del fare


Sono trascorsi circa dieci anni dalla nascita del partito Italia dei valori, oggi protagonista indiscusso della scena politica italiana. Di frequente lo si è visto accostare dalla pubblicistica al fenomeno della Lega per la comune attitudine d’intercettare il consenso disperso dagli storici partiti, sia per la loro manifesta incapacità di interpretare «i bisogni di un segmento importante del corpo elettorale attraversato dall’istanza di una nuova regolazione del gioco politico», sia a causa di un’insufficiente lettura delle realtà sociali “reali” del territorio.

Sebbene il paragone tra Lega e Idv sia discutibile e opinabile sotto molti aspetti, tuttavia la Lega ha ricevuto la dovuta attenzione da parte della ricerca scientifica e dell’analisi politica, persino dal giornalismo più prestigioso, mentre così non si è verificato per il partito dipietrista, secondo l’opinione di Pino Pisicchio, che cerca di sopperire a tale mancanza con la recente pubblicazione Italia dei valori. Il post partito (Rubbettino, pp. 124, € 10,00). L’autore, deputato di lungo corso, docente universitario, giornalista e autorevole saggista, esprime amareggiato la seguente osservazione: «non un rigo, non un solo rigo è stato dedicato all’analisi e alla comprensione del fenomeno politico rappresentato dal partito», nonostante registri, fin dalla sua costituzione, un incremento costante di adesioni. Il movimento «trova un suo eccezionale traino» nel fondatore Antonio Di Pietro ma, a prescindere dal leader, merita di essere analizzato nelle proprie componenti identitarie per numerose ragioni che saranno l’oggetto privilegiato dell’autore nel suo lavoro. Accanto ad esse, si riscontra un contributo niente affatto indifferente alle teorie emergenti di scienza politica sul nuovo modo di condurre gli affari pubblici hic et nunc nel nostro paese. Si tratta di una compagine inedita che non si può definire un partito, ma un “post partito”.

 

Il “post partito”

L’impianto del saggio presenta una propria logica stilistica: l’autore ripercorre le origini del movimento per approdare ai fatti dei nostri giorni, evidenziando le tappe principali della sua storia (Mani pulite, il reclutamento nel governo Prodi, l’esperienza ministeriale del leader, l’assemblea di Sansepolcro, il governo Prodi bis, la riconferma eccezionale nel 2008 che assicura al partito un posto esclusivo tra i cinque unici sopravvissuti al “Porcellum”, fino allo «strappo di Piazza Navona» col Pd, nel luglio 2008) e costituendo così la prima memoria storica della corrente politica. Il momento descrittivo si rivela adatto per far emergere il progressivo apprezzamento della formazione e, nel contempo, fare luce sulla sua genesi per analizzarne la portata programmatica, le sue peculiarità, le issues culturali rispetto alle altre formazioni, al fine di svelare definitivamente i punti di forza che hanno rinnovato, senza volerlo, la dialettica politica in Italia.

Con l’Idv si inaugura un nuovo corso istituzionale, poco approfondito forse a causa della vocazione antiberlusconiana che a tutt’oggi si dimostra essere la sua unica cifra identitaria. Non stanno così le cose per l’autore che nel saggio accerta – grazie anche alla fondamentale analisi degli statuti e del diritto interno, studiati tanto sotto l’aspetto normativo quanto politico e ideologico – come la compagine dipietrista si avvalga di precipui elementi di governabilità, legittimati da un consenso senza precedenti per la sua costituzione interna fatta di programmi, fini, proposte che si motivano al di fuori della logica di conflitto con Berlusconi. Si pensi al legame stretto tra associazionismo di base e Idv, il “grillismo”, la comunicazione sul web, la riaffermazione delle regole del gioco per una più consapevole democrazia rappresentativa. Il consenso si presenta come “voto della rete”, ma anche come “voto d’opinione”, soprattutto all’indomani del Prodi bis; il partito ha un target in genere giovane, impegnato e «trasversale», cioè che prescinde dalle ideologie, una cospicua presenza di centristi cattolici, un elettorato che rispecchia il Pil reale del paese (imprese e varie professionalità); ha un’anima movimentista, poiché ha raccolto intorno a sé il meglio dell’associazionismo civile (i consumatori e il mondo del volontariato) che si candidano, giustamente, a protagonisti della scena politica per le derive che provengono dalla politica stessa, la quale ha dato avvio – con l’avvento del sistema maggioritario – a una collusione del potere con il mondo della finanza e del marketing.

Sebbene l’Idv si sia costituito all’indomani della stagione di Tangentopoli, con l’obbiettivo palese di voler ripristinare una piattaforma di legalità politica che facesse da appoggio a un principio di legittimità giuridica della governance “pubblica”, senza ricorrere al privilegio e ai cosiddetti arcana imperii, nel tempo ha raffinato la sua proposta, divenendo il vero partito d’opposizione «di lotta e di governo», una lotta che non s’identifica necessariamente con l’antagonismo ideologico verso la destra, piuttosto sottolinea il momento del construens, che si traduce nella realizzazione di nuove tendenze all’interno di una diffusa illegalità, è questo il «partito del fare» come lo ha sempre descritto Di Pietro.

Nell’ambito della riflessione sul diritto interno, l’autore affronta la questione della doppia natura di «partito-movimento» che si riversa anche nella condizione statutaria, sincretismo unico nel suo genere nell’ambito del contesto politico di riferimento, che vale la pena leggere con attenzione e una giusta dose di curiosità.

 

Il «partito del fare»

Il problema della giustizia è il cuore del programma, una issue irrinunciabile per il partito e che definisce l’essenza stessa della formazione. Tuttavia, la questione della legalità non ne esaurisce l’identità. È questo, a nostro avviso, un fecondo elemento di rilevanza del saggio: si chiarisce definitivamente che il programma politico dell’Idv abbraccia una serie di riforme riconducibili all’assetto della giustizia – peraltro generalmente confusa con l’idea di giustizialismo – come la certezza della pena, la riorganizzazione della macchina processuale, la riforma di una parte del codice civile o la lotta alla pedofilia e alla criminalità organizzata, nonché la riforma dell’amministrazione giudiziaria. Tutte istanze, queste e molte altre, al centro di specifiche proposte di legge, senza le quali, tuttavia, non si potrebbe implementare un cambiamento definitivo nella società. La legittimità giuridica non attuata in settori strategici della convivenza civile renderebbe fragile e inefficace qualsiasi altro provvedimento, di qualunque natura, nella sua esecuzione. La legalità, pertanto, è un esito che si declina in molti modi, partendo da una radice comune: il principio dello jus per costruire una precisa progettazione sociale ed economica a vantaggio reale e concreto della civitas, che da parte sua si mostra «attiva» nel rivendicare lo stato di diritto imparziale per tutti e per ciascuno. Infatti «tra le issues storicamente frequentate dall’IdV ci sono i temi legati alla tutela dei consumatori», la pressione su una più estesa «libertà dell’informazione» e «l’impegno alla lotta contro gli sprechi e i vizi della politica», che fanno dell’Idv un movimento nuovo nel panorama politico, allo stesso tempo latore di istanze tradizionali ereditate dal patrimonio culturale del paese presenti nella “sovrana” carta costituzionale, specchio di una cultura politica che Pisicchio bene sintetizza: «La contaminazione tra le culture della politica […] ascendenze ideologiche provenienti dall’universo democristiano e liberale e persino kennediano e gandhiano, rese perfettamente combaciabili con il comunismo europeista di Enrico Berlinguer, trova nel partito di Di Pietro un esempio avanzato». Tutto ciò privilegiando una via comunicativa nuova, la rete, che sembra aver riaffermato il principio di democrazia diretta da lungo tempo trascurata. Che l’esperienza di Tangentopoli abbia costituito uno spartiacque è certo; in dubbio piuttosto è l’incapacità di riconoscimento da parte dell’élite governativa che la nostra democrazia non è più rappresentativa della volontà popolare di rousseauiana memoria, ribadita dalla costituzione, ma è una mera democrazia della «rappresentazione», veicolata costantemente dai media, che limita al massimo la partecipazione democratica per fare spazio a quella «elettorale permanente».

L’intreccio economico-politico ha snaturato il rapporto “partito-elettorato” a beneficio del “leader-elettore”. L’avvento esasperato del leaderismo ha condizionato un’intera stagione politica; è il fenomeno della reductio ad unum, espressione che l’autore prende in prestito dalla dottrina filosofica più classica. Tuttavia questo nuovo corso non ha trovato impreparato l’Idv, poiché rispetto ai tradizionali partiti nasce con un impianto presidenziale, al quale le grandi coalizioni politiche (ed è storia di oggi) si sono nel tempo dovute adeguare, trasformandosi – come evidenzia Pisicchio – in partiti unici. Una formazione dunque che ha precorso i tempi, assicurandosi a buon diritto un consenso legittimo e solido.

Per finire rileviamo come l’autore inserisca il fenomeno dell’Idv nell’alveo delle dottrine politiche classiche (per citare solo alcuni studiosi: Panebianco, Rodotà, Pasquino, Mazzoleni, persino Hannah Arendt) per definire meglio la componente identitaria, lo abbiamo più volte ribadito, ma siffatte incursioni dottrinali sono comunque un affresco scientifico che avvalora il saggio al di là della semplice riflessione sull’Idv, gruppo che non ha ancora sviluppato in pieno la sua «autocoscienza», cioè ancora non si rende completamente conto delle sue potenzialità in un contesto (atto di fiducia! Considerata la situazione che viviamo attualmente) dove ogni cosa potrebbe essere possibile.

 

Marika Guido

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 24, agosto 2009)

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