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Anno III, n° 19, Marzo 2009
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Biografie (a cura di Luisa Grieco e Mariangela Rotili) . Anno III, n° 19, Marzo 2009

Zoom immagine Un ritratto dell’Italia
fine anni Quaranta.
Un piccolo colono
cresce rapidamente

di Francesca Molinaro
Chiaro affresco della cultura contadina,
edito dalla Falco, traccia con genuinità
la dura vita di un giovane capo famiglia


La gran parte dei tredicenni di oggi vivono nella totale spensieratezza. Telefonino e videogiochi sempre in mano, le figurine dei calciatori in tasca, tanta televisione e praticamente nessuna responsabilità. Ma i tredicenni sono sempre stati così? Di sicuro risulta ben diverso Damiano Talarico, ragazzino calabrese, protagonista dell’ultimo romanzo di Lino Daniele L’ultimo contadino di Bugurna (Falco editore, pp. 288, € 14,00). Un romanzo ambientato nei “retroscena rurali” della Seconda guerra mondiale, precisamente nelle campagne della provincia vibonese. Un periodo in cui l’esigenza primaria era portare il pane in tavola a qualsiasi costo e a qualsiasi età, un periodo in cui la scuola era un lusso che non tutti potevano permettersi, perché levare due braccia al lavoro della famiglia voleva dire morire di fame; un periodo in cui la spensieratezza non era affatto un diritto per un ragazzo di tredici anni, ma un lusso non accessibile a tutti.

 

Tutto nacque con Mike

Il romanzo è ambientato a Bugurna, nome fittizio di un piccolo paesino della provincia di Vibo Valentia. In realtà la parola Bugurna non è altro che una forma dialettale calabrese usata per indicare la pianta d’erica, altrimenti detta “brugo” in quanto estremamente diffusa nelle brughiere.

Il paesello calabrese rappresenta una tipica realtà del periodo storico a cavallo della Seconda guerra mondiale, in cui le famiglie contadine vivevano del frutto del loro lavoro e spesso i giovani maschi di casa si trovavano a dover lavorare e difendere le proprie famiglie, private dai capifamiglia a causa della guerra o dell’emigrazione. L’ambientazione è dettata all’autore, Lino Daniele, proprio dalle sue origini vibonesi: il paese di Arena. Daniele si appassiona da giovanissimo alla letteratura italiana, tanto da partecipare, a soli 17 anni, al noto programma televisivo Lascia o Raddoppia, condotto da Mike Bongiorno, in cui rimane campione in carica per ben 5 settimane consecutive, grazie alla sua approfondita conoscenza de I promessi sposi. Nel 2005 ritorna in televisione, grazie al programma di Bruno Vespa Porta a porta, per raccontare proprio questa esperienza come concorrente del famoso quiz. La passione umanistica lo porta alla laurea in Storia e Filosofia presso l’Università di Messina e, successivamente, a diventare docente di lettere nelle scuole medie fino al momento del suo pensionamento nel 2007 (anno di pubblicazione del libro). I suoi interessi letterari lo hanno portato a redigere per il mensile Tropeaedintorni e a diventare vicepresidente dell’associazione culturale Accademia degli affaticati.

 

“’U lupu nigru”

Quella di Damiano Talarico, giovane tredicenne calabrese, è una storia come tante altre a quel tempo. L’ultimo figlio maschio rimasto in una famiglia contadina – i due fratelli maggiori sono partiti per l’Argentina e mai più ritornati – risente tutta la responsabilità della famiglia, soprattutto nel momento in cui il padre, lu patri, parte per recuperare i due figli maggiori. La vita del giovane Damiano è scandita da lunghe ore nei campi e nelle montagne a pascolare le pecore ma anche a fare la guardia al bestiame, alla casa e alla famiglia dalla terribile minaccia de ’u lupu nigru, il lupo nero. Quest’ultimo, infatti, è fonte continua di ansia per il giovane Damiano, il cui coraggio è messo a dura prova dalle carneficine che i lupi fanno sia del bestiame che degli uomini. La sfida vera e propria, infatti, nasce quando il padre della sua promessa sposa, Assunta, viene sbranato dai lupi. La giovane scongiura il fidanzato affinché vendichi la sua famiglia e, in qualche modo dimostri di meritare la sua mano. Da quel momento in poi il lupo diventa per Damiano un tarlo che non lo lascia riposare in pace: «La pagherà, dissi, mentre la mamma accendeva il fuoco ed adagiava, sul tripode di ferro, la grande caldaia». Abbastanza ovvia è la correlazione fatta dall’autore fra il lupo reale che minaccia la sua famiglia, quella della fidanzata, il bestiame e il fittizio “lupo nero” tante volte usato dai “grandi” per spaventare i bambini. Evidente metafora di paure nascoste e ansie insuperabili.  

 

Tre generazioni a confronto

Oltre a Damiano e a suo padre, compare come personaggio maschile il nonno, il patriarca che regge, moralmente, le redini della famiglia. L’ansia del giovane è aumentata proprio da questa presenza silenziosa ma a momenti assordante, che ricorda costantemente a Damiano il suo dovere di nuovo capofamiglia: «Ero l’unico figlio maschio rimasto, in grado di portare avanti la masseria e tenere alto il nome glorioso dei Talarico». La forza, le paure e il coraggio del tredicenne sono messi a confronto con un’altra dura realtà del tempo: l’emigrazione dei fratelli. Questi ultimi, infatti, hanno lasciato le rispettive famiglie (mogli e figli) per trovare lavoro in Argentina. Il viaggio della speranza, però, si è dimostrato a senso unico, in quanto i maggiori della famiglia Talarico non solo non hanno fatto più ritorno, ma non hanno dato più notizie di loro, lasciando in paese due «vedove bianche», ovvero le mogli di mariti di cui non si ha più notizia, non dichiarati morti, ma “dispersi”. Sono proprio queste mogli disperate che costringono il padre di Damiano a intraprendere il lungo viaggio verso l’Argentina, per trovare i figli e salvare l’onore delle loro famiglie. Al suo ritorno, però, lu patri non avrà il coraggio di dire la verità alle nuore in ansia, raccontando di non essere riuscito a recuperarli, una bugia (a malincuore) per salvarne l’onore. Da tutto ciò emerge la frustrazione di Damiano per una situazione che non dipende da lui, ma di cui ugualmente si sente responsabile. Soprattutto non sa come alleviare le sofferenze della madre: «Sentivo che piangeva. Avrei voluto fare qualcosa, per asciugarle le lacrime, per non farla piangere più, ma non sapevo cosa fare. […] La mamma, le mie cognate, le mie sorelle, il nonno, la nonna avrebbero dato la colpa a me. Lu patri non sarebbe ritornato con i figli per colpa mia, che ero un demonio». Molto forte è anche l’elemento religioso, che pervade sempre in tutto il libro, come un filo che guida le vite dei personaggi che lo animano.

Nonostante la sua vita rurale e le sue responsabilità da “baby” capofamiglia Damiano sente l’esigenza di istruirsi, di andare a scuola, per cambiare il corso della sua vita, il suo destino da semplice contadino di Bugurna, forse l’ultimo.

Così come i Malavoglia di Verga, questo romanzo rispecchia con nudo realismo uno scorcio d’Italia del Sud. Damiano potrebbe essere nostro padre o nostro nonno, un qualsiasi ragazzo che troppo precocemente ha dovuto rinunciare alla sua giovinezza e alla sua spensieratezza per caricarsi di responsabilità più grandi di lui.

 

Francesca Molinaro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 19, marzo 2009)
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