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Anno III, n° 19, Marzo 2009
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno III, n° 19, Marzo 2009

Zoom immagine Si allenta la morsa Usa;
risorge l’America Latina

di Giuseppe Licandro
Le dominazioni e le lotte dei paesi latinoamericani
riportate in un saggio stampato da Edizioni Alegre


L’America Latina, terra travagliata per tanti secoli dalle dominazioni coloniali e dai conflitti intestini, si è ridestata a nuova vita all’inizio del Nuovo millennio, in concomitanza con l’attenuarsi dell’egemonia esercitata dagli Stati Uniti.

Utili ragguagli intorno al mondo latinoamericano ci vengono forniti da Antonio Moscato, docente di Storia del movimento operaio presso l’Università di Lecce, che ha recentemente pubblicato il saggio Il risveglio dell’America Latina. Storia e presente di un continente in movimento (Edizioni Alegre, pp. 192, € 15,00).

L‘argomento aveva già attirato la nostra attenzione precedentemente, tanto che gli era stato dedicato un’altro articolo, La battaglia per la dignità del “nuovo” Sud America di Elisa Marincola, pubblicato su www.scriptamanent.net, anno IV, n. 35, settembre 2006.

 

Le lotte per l’indipendenza

La prima parte del volume contiene un lungo excursus sulla storia dei paesi latinoamericani, che prende le mosse dalla prima rivoluzione anticoloniale, esplosa nell’agosto del 1791, quando circa centomila schiavi insorsero a Saint Domingue (la parte occidentale dell’isola caraibica di Hispaniola). La sommossa, a capo della quale si pose a un certo punto Toussaint Louverture, mirava alla liberazione dal dominio coloniale francese, ma nel 1802 le truppe napoleoniche ripresero il controllo della situazione. Un’altra rivolta popolare, tuttavia, portò nel 1804 alla nascita dello stato di Haiti, che successivamente finì sotto l’influsso di varie potenze straniere.

L’esempio degli haitiani fu seguito ben presto da molti altri popoli latinoamericani.

Il Messico raggiunse l’indipendenza nel 1821, in virtù di una rivolta capeggiata da un ufficiale dell’esercito, Augustin de Iturbide, il quale, proclamato in un primo tempo imperatore, fu rovesciato successivamente da un pronunciamento militare.

Negli stessi anni, un gruppo di giovani ufficiali progressisti – i libertadores – organizzò un forte movimento indipendentista, che rivoltò l’intero Sud America, ad eccezione del Brasile (che ottenne l’indipendenza in forma pacifica, separandosi dal Portogallo nel 1822). L’obiettivo dichiarato di Simon Bolívar – il più noto fra i libertadores – era quello di costituire una grande federazione di stati latinoamericani. Due fattori, tuttavia, resero impraticabile il progetto bolivariano: da un alto, l’incapacità dei capi militari di superare le rivalità personali, scatenando una serie di guerre fratricide; dall’altro, le interferenze di grandi potenze, soprattutto della Gran Bretagna e degli Usa, che favorirono la frammentazione dell’America Latina in una miriade di stati, economicamente deboli e politicamente instabili. Pertanto, come giustamente sottolinea Moscato, «la portata di quelle “rivoluzioni” [...] fu assai limitata, sia perché del potere statale si impossessarono le oligarchie formatesi durante la dominazione coloniale, escludendo totalmente le masse contadine, sia perché nel giro di pochissimi anni finirono sotto una nuova forma di dominazione neocoloniale».

 

Le rivolte antimperialiste

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le insurrezioni assunsero in America Latina caratteri spiccatamente antimperialisti.

Nel 1868 si costituì a Cuba, su iniziativa di Carlos Manuel de Céspedes, un esercito di liberazione nazionale, formato da ex schiavi, che tentò inutilmente di liberarsi dal dominio spagnolo e di porre fine all’economia basata sulle piantagioni. Ventisette anni più tardi, Josè Martì riaccese una fiammata rivoluzionaria e gli Stati Uniti, con la scusa di appoggiare il movimento indipendentista, dichiararono guerra alla Spagna nel 1898 e la sconfissero, sottraendole diversi territori. Cuba, pur conseguendo formalmente l’indipendenza, divenne, di fatto, una colonia degli Usa, dal cui dominio riuscì ad emanciparsi soltanto in seguito alla rivoluzione del 1959.

Una sorte per certi versi analoga toccò al Messico, dove, a partire dal 1910, si scatenò una rivoluzione dai forti contenuti sociali. Gli eserciti contadini di Pancho Villa ed Emiliano Zapata riuscirono a occupare Città del Messico nel 1914, ma la reazione delle classi agiate provocò, infine, la sconfitta delle forze più radicali. Fra il 1934 e il 1940, il presidente messicano Lázaro Cárdenas riuscì a realizzare un’ampia riforma agraria, nazionalizzando anche le industrie petrolifere. Nel Secondo dopoguerra, tuttavia, il Messico è entrato prepotentemente nell’orbita statunitense e, come ci rammenta Moscato, «un partito che ha il nome contraddittorio di “rivoluzionario istituzionale” [...] ha venduto il paese al potente vicino del nord».

 

I governi populisti

Lo studioso marxista dedica ampio spazio nel suo saggio ad alcuni leader “populisti” del passato, che hanno realizzato riforme sociali fortemente avanzate. Si è trattato, in genere, di personaggi legati alle forze armate, a riprova del fatto che spesso in America Latina «i militari “progressisti” hanno avuto un ruolo di surrogato di un partito borghese riformista».

Gli esempi più eclatanti su cui si sofferma Moscato sono quelli di Getúlio Vargas, Juan Perón, Jacopo Arbenz e Víctor Paz Estenssoro.

Assunto il potere nel 1930, grazie all’appoggio dei militari, Vargas governò il Brasile per un quindicennio con metodi autoritari, ma nel contempo attuò alcune importanti trasformazioni economico-sociali (come la legislazione in favore dei lavoratori e l’istituzione di vari enti pubblici). Destituito da un complotto militare nel 1945, Vargas costituì il Partito laburista brasiliano e fu trionfalmente rieletto presidente nel 1950. Procedette, quindi, alla creazione della Petrobras, la compagnia petrolifera nazionale (tuttora assai fiorente), ma nel 1954 fu nuovamente rovesciato dai conservatori e morì suicida, dopo aver denunciato, in una drammatica lettera-testamento, le pressioni interne e internazionali che lo avevano costretto a dimettersi. La sua eredità fu raccolta dal socialdemocratico Juscelino Kubitschek e, in seguito, da João Goulart. Quest’ultimo fu deposto da un golpe ordito dal maresciallo Humberto Castelo Branco, che impose un duro regime dittatoriale e trasformò in senso liberista l’economia del paese.

Perón, ufficiale argentino simpatizzante per il fascismo, venne eletto presidente nel 1946 e, grazie anche alla collaborazione della moglie Evita Duarte, varò una serie di leggi in favore dei lavoratori più poveri (i descamisados), garantendo loro salari minimi e previdenza sociale. Deposto ed esiliato nel 1955 dai militari più conservatori, Perón ritornò al potere nel 1973, ma la morte lo colse dopo meno di un anno, gettando l’Argentina in un vuoto di potere da cui sarebbe scaturita la feroce dittatura del generale Jorge Videla.

Il colonnello guatemalteco Jacopo Arbenz, divenuto capo di Stato nel 1951, espropriò una parte dei latifondi di proprietà della United fruit company, ma, con l’esplicito assenso del governo statunitense, fu presto spodestato da un putsch militare.

Paz Estenssoro, fondatore del Movimento nazionale rivoluzionario, ascese al potere in Bolivia nel 1952, procedendo alla riforma agraria e alla nazionalizzazione di diverse aziende. Alternatosi al governo con Hernán Siles Suazo, il leader dell’Mnr fu rovesciato nel 1964 da un ennesimo colpo di stato. Ritornò in carica tra il 1985 e il 1989, ma nel frattempo si era convertito al neoliberismo, rinnegando il suo passato.

 

Da Allende a Marcos

Un’attenzione particolare viene rivolta da Moscato all’esperienza di Unidad popular, il cartello politico che in Cile sostenne il candidato socialista Salvador Allende, eletto presidente nel 1970. Nei suoi pochi anni di governo, Allende avviò radicali cambiamenti economici, tra cui la nazionalizzazione delle industrie del rame e la redistribuzione delle terre, prima di finire vittima della sanguinaria reazione dei ceti più conservatori e delle forze armate (guidate dal generale Augusto Pinochet).

Lo storico marxista, in verità, appare abbastanza critico nei confronti delle scelte compiute dal presidente socialista – peraltro riconoscendogli una grande coerenza morale – e gli rimprovera soprattutto «il problema dell’impreparazione delle masse, a cui si era ripetuto fino alla noia che l’esercito cileno era il più democratico dell’America Latina, e che quindi non c’era pericolo di golpe». Egli riporta, a tal proposito, le indicazioni fornite da Ernesto “Che” Guevara, il quale aveva previsto che in Cile la sinistra avrebbe potuto vincere le elezioni, paventando però il pericolo di un colpo di stato reazionario, che, a suo parere, si poteva sventare solo facendo leva sulla resistenza armata del popolo.

Dissentiamo su questo punto da Moscato, ritenendo assai improbabile che il popolo cileno fosse in grado di sconfiggere manu militari i golpisti, i quali – tra l’altro – furono apertamente sostenuti dalla Cia. Condividiamo, di contro, il suo giudizio in merito alle ripercussioni negative che la tragedia cilena provocò sugli altri paesi latinoamericani: «Gli anni successivi furono terribili per l’America Latina, anni di demoralizzazione e di sfiducia nelle ipotesi riformiste non meno che in quelle rivoluzionarie, mentre dilagavano le dittature militari».

Una rivoluzione dai connotati antimperialisti si affermò in Nicaragua nel 1979, quando il Fronte sandinista di liberazione nazionale – guidato da Daniel Ortega – rovesciò il dittatore Anastasio Somoza, avviando riforme di tipo socialdemocratico, basate sull’“economia mista”. L’opposizione armata dei Contras (i ribelli sostenuti dal presidente statunitense Ronald Reagan) e l’incompleta realizzazione della riforma agraria ridussero il consenso attorno ai sandinisti, che furono sconfitti da Violeta Chamorro alle elezioni presidenziali del 1990. Da allora il Nicaragua ha intrapreso la strada del liberismo economico, che sembra essersi perpetuata anche dopo il ritorno al potere di Ortega, avvenuto nel 2006.

A metà degli anni Novanta, nella provincia messicana del Chiapas ha fatto la sua improvvisa comparsa l’Esercito zapatista di liberazione nazionale, diretto dal misterioso “subcomandante Marcos”, che è riuscito a occupare la Selva Lacandona, mantenendone fino a oggi il controllo. Si tratta di un movimento sui generis, che non si è posto l’obiettivo di conquistare il potere, ma, più realisticamente, di difendere i diritti della popolazione del Chiapas (in gran parte formata da indios).

L’Ezln ha nondimeno costituito un punto di riferimento significativo per una parte dei gruppi “no global” e ha saputo fungere da catalizzatore politico in America Latina, attivando «molti nuovi processi di autorganizzazione indigena».

 

I mutamenti odierni

La seconda parte del libro di Moscato è incentrata sulla situazione odierna dei paesi latinoamericani. Si prendono in esame, oltre all’evoluzione della società cubana, i recenti cambiamenti politici che hanno ridisegnato il volto del Sud America, con le vittorie elettorali delle forze progressiste in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Paraguay e Uruguay. Moscato mette in rilievo che «per la prima volta appaiono paesi latinoamericani di grande peso nel continente [...] che cercano una strada per la difesa dei propri interessi, si collegano tra loro per coordinare politiche economiche, a partire da quelle petrolifere e dalla risposta al debito, mantenendo cordiali rapporti con Cuba».

I personaggi su cui maggiormente si sofferma l’attenzione dell’autore sono Hugo Chavez, Rafael Correa ed Evo Morales, protagonisti di rilevanti riforme sociali ed economiche, che stanno cambiando (in senso socialdemocratico) il volto, rispettivamente, del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia.

Chavez – ex ufficiale dell’esercito – appare in questo frangente la figura politicamente preminente, che, in nome del “socialismo del XXI secolo”, si batte più di tutti per il cambiamento dell’America Latina, sebbene in lui siano presenti atteggiamenti da caudillo che lo portano talvolta a contraddire le spinte autenticamente democratiche insite nel suo Movimento bolivariano. È attorno al petrolio venezuelano, in ogni modo, che si sta ricompattando il mondo latinoamericano e anche Cuba è uscita dall’isolamento in cui si trovava dal 1986.

Minore rilievo, invece, lo studioso marxista sembra attribuire ad altri leader progressisti – come Michelle Bachelet in Cile, Cristina Kirchner in Argentina, Fernando Lugo in Paraguay, Ignacio Lula da Silva in Brasile e Tabarè Vazquez in Uruguay – che gli appaiono eccessivamente timidi nella loro azione politica, anche perché frenati da programmi di riforma sociale troppo moderati.

Severo, in particolare, è il giudizio espresso sull’operato del presidente brasiliano Lula, a cui egli rimprovera di aver stipulato accordi economici «con lo stesso grande capitale brasiliano, che opera su scala continentale [...] ed è strettamente intrecciato con grandi società transnazionali».

Moscato sostiene, inoltre, che «all’orizzonte sono apparsi alcuni segnali contraddittori» che rischiano di inficiare il futuro dell’America Latina.

Egli porta come prova dell’incipiente crisi delle forze riformatrici il rafforzamento in Colombia del governo conservatore di Álvaro Uribe e le gravi difficoltà interne in cui versano Correa e Morales. Insomma, «i giochi sono ancora aperti...».

 

L’esperienza cubana

Una parte significativa delle riflessioni di Moscato è dedicata alla rivoluzione cubana del 1959 e alla figura di “Che” Guevara, che egli difende dalle accuse di avventurismo mossegli da più parti, rimarcando la cifra internazionalista che la sua azione politica mantenne costantemente.

Lo studioso marxista considera Cuba come uno degli esempi più fulgidi di rivoluzione antimperialista, pur criticando alcune scelte compiute dalla classe dirigente cubana, soprattutto dopo il primo decennio post-rivoluzionario. Fallito il progetto dell’autosufficienza economica, Cuba, minacciata dal blocco commerciale voluto dagli Usa, «dovette rassegnarsi ad entrare nel Comecon, che le impose di rallentare l’industrializzazione e di puntare tutto sullo zucchero e sul nichel». L’adozione del modello sovietico produsse una graduale involuzione burocratica dello stato cubano, che finì per intaccare «l’egualitarismo sociale che aveva caratterizzato i primi anni della rivoluzione».

Moscato mette in risalto il ruolo fondamentale svolto da Fidel Castro nella lotta contro il regime di Fulgencio Batista e la tenacia con cui il lider maximo ha, in seguito, contrastato l’imperialismo statunitense. D’altro canto, però, egli gli rimprovera l’eccessivo pragmatismo nella gestione del potere, che lo ha indotto talvolta a mantenere buone relazioni diplomatiche «con governanti perlomeno discutibili» (ad esempio, con alcuni capi di governo messicani).

Riguardo agli sviluppi più recenti della società cubana, l’autore ci informa che Raúl Castro, alla guida del paese dal 2007, ha dato l’abbrivio a una serie di riforme economico-politiche, consentendo il libero commercio di alcuni prodotti (computer, cellulari, forni a microonde ecc.) e favorendo la franca discussione fra i cittadini sui problemi più urgenti da affrontare.

Queste aperture potrebbero, in realtà, rappresentare soltanto «l’emergere di uno strato borghese autoctono», anziché l’avvento di un’avanzata democrazia socialista. Il pericolo – secondo Moscato – è che «Cuba imbocchi una strada “cinese” con aperture economiche e autoritarismo».

La maggiore tolleranza dimostrata in materia di diritti umani e l’adesione alla moratoria della pena di morte, tuttavia, ci inducono a sperare che il governo cubano possa intraprendere una sorta di perestrojka, anche se l’esito dei processi in atto risulta ancora del tutto imprevedibile.

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 19, marzo 2009)

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