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Anno III, n° 17 - Gennaio 2009
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Filosofia e religioni (a cura di Angela Potente) . Anno III, n° 17 - Gennaio 2009

Zoom immagine Da Descartes a Kant
studio minuzioso
di titoli e contenuti

di Marina Del Duca
Le istituzioni giuridiche e filosofiche
e lo stato moderno: per Abramo editore


«Il titolo: ciò che è posto all'inizio, che è fondamentale, sostanziale; le domande sul titolo saranno sempre domande legate all'autorità, alla gerarchia o all'egemonia, al privilegio e al diritto, al diritto al privilegio: il privilegio di un titolo, che è proprio della sua unicità e della posizione che occupa, è di poter tacere in modo da far credere – a giusta ragione, è da supporsi – di avere molto da dire, di nascondere nelle sue pieghe un capitale fatto di una molteplicità di possibili significati, lì pronti per essere fatti valere». Nell’introdurre il discorso sul saggio Del diritto alla filosofia (Abramo editore, pp. 360, € 23,25) del filosofo ed epistemologo francese Jacques Derrida, annoverato fra i pensatori più interessanti del ’900, è indispensabile un’attenta valutazione critica del titolo nella sua lingua originale: Du droit à la philosophie. «Non appena con queste parole, Du droit à la philosophie, si costruisce una frase, non appena la si espone, sicché l’equivoco comincia a sciogliersi, il potere del titolo comincia a dissolversi e la discussione ha inizio». Ad esempio, affermando – ed è il primo senso del titolo secondo le parole stesse dell’autore – «come si passa dal diritto alla filosofia?», viene introdotta una certa problematica: si tratterà dei rapporti che permettono di passare dal pensiero, dalla disciplina o dalla pratica giuridica, alla filosofia. Più precisamente, si tratterà del rapporto che intercorre tra le strutture della legge che sostengono quelle filosofiche (insegnamento o ricerca) e la filosofia stessa. In questa prima accezione della frase, Du droit à la philosophie, una sola delle cinque parole, la lettera à, si fa carico di tutta la determinazione semantica: il senso qui ruota sui diversi valori che può assumere la à, oltre quello di “in rapporto a”. Ma è altresì evidente che, per analizzare i problemi del diritto istituzionale e delle istituzioni filosofiche di ricerca e di insegnamento, si deve parlare del diritto ai filosofi, del diritto alla filosofia, si deve parlare alla filosofia del diritto. La à esprime ancora un’articolazione, ma questa volta in un altro senso, quello del discorso rivolto a qualcuno, della parola diretta verso qualcuno. Tutto questo però, ancora non esaurisce il rapporto “du droit à”, sintagma francese che può significare anche altro e portare a un diverso accesso semantico. “Aver diritto a” potrebbe indicare anche, infatti, l’accesso garantito per legge, il lasciar passare, l’introduzione autorizzata, il diritto di passaggio: ma chi ha diritto, oggi, alla filosofia? A quale filosofia? A quali condizioni? Attraverso quali filtri di mediazione? Chiunque può pretendere di avere accesso a questa disciplina. A pensare, discutere, insegnare, rappresentare la filosofia?

Infine, se ora circoscriviamo il sintagma “diritto alla filosofia” concedendo alla parola diritto tanto il senso di avverbio quanto di nome, apriamo lo spazio per un’altra frase e un’altra serie di questioni: è possibile andare diritto alla filosofia? Di recarvisi cioè immediatamente, direttamente, senza passare attraverso altro, senza la mediazione della formazione, dell'insegnamento, delle istituzioni filosofiche? Presa così, l’espressione nella quale la parola diritto è intesa come avverbio, ci dà l’avvio alle problematiche aperte da questo quarto significato.

In sintesi l’autore vuole obiettare a chi non si è voluto esimere dal giudicare perfino inutile un’analisi che dispieghi un tale ventaglio di significati e frasi possibili, come non soltanto non vi sia nulla da guadagnare nel cedere immediatamente all’impazienza, ma anche come l'analisi dei valori potenziali che giocano un ruolo di fondo nell’espressione francese du droit à la philosophie, debba tradursi in un serissimo esercizio di vigilanza.

 

Il linguaggio della filosofia secondo Descartes

Nella selezione di scritti contenuti in Du droit à la philosophie sono state tradotte da Francesco Garritano, curatore del volume, due sezioni: Transfert ex cathedra, il linguaggio e le istituzioni filosofiche, e «Mochlos». Riguardo alla prima sezione, quella inerente il linguaggio proprio della filosofia, l’autore, nell’auspicare che questa viva di una sua lingua nazionale, riporta un brano di Descartes, da Oeuvres et Lettres (1637), considerandolo di fondamentale importanza storica. «E se scrivo in francese, che è la lingua del mio paese, invece che in latino, che è la lingua dei miei insegnanti, è perché spero che giudichino delle mie opinioni quelli che si servono solo della loro ragione naturale pura e semplice, che non quelli che credono soltanto ai libri antichi. Quanto poi a coloro che riuniscono il buon senso agli studi, i soli che io desideri come giudici, sono sicuro che non saranno tanto parziali per il latino da rifiutare di intendere le mie ragioni perché le spiego in lingua volgare». Descartes desiderava puntualizzare l’argomento a causa del particolare momento storico, nel corso del quale una certa politica della lingua si era imposta con autorità, e aggiungeva: «Io ritengo che questa lingua sia possibile e che si possa trovare la scienza dalla quale essa dipende, per mezzo della quale i contadini potranno giudicare della verità delle cose meglio di quanto fanno attualmente i filosofi».

 

L'imperativo kantiano della risposta

Durante la conferenza tenuta nel 1980 all’Università di Columbia (New York), in occasione della consegna di un dottorato honoris causa, Derrida si interroga sulla responsabilità delle università: responsabilità di cosa e davanti a chi, su che cosa e chi rappresenti l'università. Se tale responsabilità esiste, questa ha inizio nello stesso momento in cui s'impone la necessità di intendere queste problematiche, di assumerne il carico e di rispondervi. L'imperativo della replica è il requisito minimale della responsabilità, dando per scontato il presupposto che se ne conosca il significato: circa due secoli fa Kant rispondeva, e rispondeva in termini di responsabilità; «L’università non è un’idea malvagia», dice nel 1798 e, con l’ironia che gli è propria, finge di reputare questa idea come una trovata, una buona e razionale soluzione da proporre allo stato. Nell’Occidente, lo stato adotterà il modello di questa macchina intelligente e la macchina procederà, non priva di conflitti e contraddizioni ma, forse, proprio in grazia dei suoi conflitti e nella misura delle sue contraddizioni. Prendendo a prestito dai greci il mochlos (la “leva”), o hypomochlium – punti di appoggio per la destra (o la sinistra) del corpo quando si voglia sferrare un attacco con la sinistra (o con la destra) – Derrida giungerà ad approfondire come l’opposizione della destra e della sinistra, di origine parlamentare, esaurientemente trattata da Kant ne Il conflitto delle facoltà, debba esistere anche in una università: tra una sinistra (facoltà inferiore) e una destra (la classe delle facoltà superiori rappresentanti il governo). Derrida giungerà ad approfondire come l’opposizione della destra e della sinistra, di origine parlamentare, debba sussistere anche in una università: tra una sinistra (facoltà inferiore) e una destra (la classe delle facoltà superiori rappresentanti il governo), analogamente allo stesso Kant nell’opera appena citata.

Anche il filosofo prussiano, infatti, sentendosi fortemente e personalmente coinvolto, effettuava un'analisi meticolosa e sofferta dei disaccordi tra gli scienziati della facoltà di filosofia, “inferiore” secondo le autorità in quanto non ritenuta “utile”, e quelli delle facoltà “superiori”, teologia, giurisprudenza e medicina, cui spettava il compito di formare la classe dirigenziale dello stato. Nella lotta a fianco dei professori del Greph (Groupe de recherches sur l'enseignement philosophique) contro la diminuzione del loro orario nell’istruzione superiore, l’autore auspica una filosofia in grado di mettere in atto una critica costruttiva nei riguardi di se stessa e di svolgere all’interno delle istituzioni una condotta tenacemente desiderata da Kant: quella, cioè, di giudicare in nome di un principio morale e in nome della verità.

 

Marina Del Duca

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 17, gennaio 2009)

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