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Anno III, n° 17 - Gennaio 2009
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno III, n° 17 - Gennaio 2009

Zoom immagine “Il franchismo
industriale”

di Guglielmo Colombero
Il regime falangista
e il caso Seat-Fiat
nelle edizioni Crace


Indagare a fondo sui presupposti e sulle motivazioni che spingono un’azienda, ormai da tempo assuefatta a un clima di democrazia e di confronto civile con le associazioni rappresentative dei lavoratori, a operare disinvoltamente per un trentennio in un contesto dove invece sono negate le più elementari libertà politiche e sindacali, costituisce un argomento di interesse ancora attuale: il pensiero corre subito alla recente e massiccia espansione di certe multinazionali nordamericane ed europee, in nazioni africane e asiatiche dove il principio stesso del rispetto dei diritti umani è del tutto incompatibile con l’azione di governo. Con il volume Un’impresa italiana nella Spagna di Franco (Crace, pp. 176, € 15,00), il Centro ricerche ambiente cultura economia di Perugia prosegue il percorso della collana Strumenti & documenti, diretta da Renato Covino, che annovera già una ventina di pubblicazioni dedicate alle sfaccettature storiche e sociologiche del panorama industriale italiano; dalla produzione alimentare alle ferrovie, dagli arsenali marittimi ai quartieri operai, dalla metallurgia alle miniere di lignite, dalle cooperative di consumo alle lotte sindacali. Un caleidoscopio di argomenti in cui il rigore documentativo si abbina all’impegno civile e al gusto per la ricostruzione delle tappe fondamentali dell’itinerario di sviluppo dell’economia reale del nostro paese e delle sue propaggini all’estero. Il saggio sulla Seat, firmato da Andrea Tappi, descrive l’innesto del modello fordista della produzione in serie, in Spagna, partendo dalle origini. La penetrazione della Fiat nella penisola iberica è avviata già nel Primo dopoguerra, si consolida durante il Ventennio fascista e conosce la sua massima espansione nel Secondo dopoguerra, grazie soprattutto a un costo del lavoro estremamente contenuto e a un’assenza quasi assoluta di conflittualità sindacale, dovuta al paternalismo autoritario del regime falangista. L’autore si addentra in un’analisi puntuale e documentata delle strutture produttive, supportandola con una fitta esposizione di schemi e tabelle contenenti dati numerici su prezzi, vendite ed esportazioni di automobili, sul contesto demografico e sui flussi migratori interni, sugli apparati tecnologici, sulla fisionomia delle officine, sui connotati professionali della manodopera, sulle tempistiche di lavoro, sull’incidenza degli infortuni, sui meccanismi retributivi e sulle politiche salariali, e con alcune significative testimonianze fotografiche sulla Catalogna di quel periodo. Ne scaturisce una cronistoria rigorosa quanto appassionante, che, al di là della pura indagine economica e sociale basata sulle cifre e sulle statistiche, non manca mai di mettere in risalto gli aspetti più significativi sotto il profilo antropologico e culturale.

 

Dio, patria e famiglia fra le mura della fabbrica

La bestemmia, l’insubordinazione e lo scarso rendimento (lo sciopero è ancora considerato un delitto dal codice penale franchista) sono le infrazioni più gravi all’interno della Sociedad española de automóviles de turismo (Seat) di Barcellona, costituita nel 1950 grazie a una joint venture fra la Fiat e l’ente spagnolo corrispondente al nostro Iri, l’Instituto nacional de industria (Ini). E anche l’educazione dei figli dei dipendenti è posta fin dall’asilo sotto la tutela occhiuta degli ordini religiosi sostenitori del regime. I cronometristi, moderni inquisitori a caccia di chi infrange il sacro dogma dei ritmi produttivi, si aggirano fra gli operai in applicazione del principio che «il lavoro va retribuito in funzione del rendimento» (così recitano testualmente nel 1952 le istruzioni preliminari per il loro addestramento). L’impronta fortemente militaristica della gerarchia di fabbrica è confermata inequivocabilmente dal fatto che il primo presidente della Seat è un generale in pensione, veterano della Guerra civile, per il quale amministrare un’azienda significa adottare in un diverso contesto gli stessi criteri con cui ha comandato una divisione di fanteria al fronte. Del resto, Andrea Tappi sottolinea come la prima fabbrica di vetture impiantata dalla Fiat in Spagna sorga negli anni Venti a Guadalajara, città destinata poi ad assurgere, durante la Guerra civile, a simbolo della lotta antifascista, quando fra le sue strade le camice nere del Duce incappano in una cocente sconfitta contro le brigate internazionali. Proprio a Guadalajara, nel 1937, triste presagio di quanto accadrà sette anni dopo, italiani combattono contro altri italiani, separati da un abisso di odio profondo. L’eminenza grigia dell’industria automobilistica spagnola è un ingegnere catalano, Wilfredo Ricart, il quale, in controtendenza rispetto alla maggioranza dei suoi compatrioti, si schiera subito con Franco e, nel Secondo dopoguerra, spiana la strada alla Fiat, che già aveva realizzato enormi profitti fornendo centinaia di aerei da caccia all’aviazione franchista tramite il regime di Mussolini (e anche migliaia di camion e di mezzi blindati, per spostare le colonne del Generalissimo attraverso le dissestate strade della Spagna). La Fiat penetra dunque in Catalogna lungo un sentiero lastricato di macerie e di cadaveri: una Guerra civile costata un milione di morti si trasforma in un formidabile trampolino di lancio per l’azienda torinese.

 

La silenziosa disciplina produttiva degli anni del desarrollo

Il controllo militare sui corpi e quello gesuitico sulle anime, fondendosi assieme ad alchimie industriali come la «disintegrazione verticale» e l’«automazione segmentata», ottengono risultati spettacolari. In meno di un decennio, la produzione annua di autoveicoli passa da mille a trentamila unità. I cinegiornali dell’epoca diffondono l’immagine del Caudillo che, imbalsamato in un doppiopetto che gli casca malissimo, con lo sguardo già appannato dal progresso impietoso della senilità, visita compiaciuto i reparti della fabbrica lustrati a dovere, circondato dal solito sciame ossequioso di prelati imporporati e di ufficiali in alta uniforme. Il drastico taglio dei tempi di produzione nei reparti di stampaggio fa impennare la frequenza degli incidenti sul lavoro, e le dinamiche salariali restano al palo, senza diffondere verso i ceti meno abbienti i benefici del boom di marca iberica, conosciuto come desarrollo, termine spagnolo che significa sviluppo. Ma sono contraddizioni che non riescono a lacerare il velo di nebbiosa sonnolenza in cui il regime franchista ha avvolto un’intera nazione: la pace dei cimiteri di cui parlava Georges Bernanos regna sovrana anche nelle fabbriche. I pochi che osano protestare perdono il lavoro e, se insistono, anche la libertà. Il sindacato non esiste, la stampa è imbavagliata, nessuna opposizione politica è consentita. Il quadro ideale in cui la dirigenza della Seat imposta indisturbata le proprie strategie dall’alto, senza mai doversi confrontare con un interlocutore che porti avanti rivendicazioni riguardanti il trattamento economico e le condizioni lavorative. Nel 1957, in coincidenza con il lancio sul mercato del modello 600, la Seat accelera il processo di svecchiamento degli impianti, ma spesso non tiene conto dell’impatto che ne consegue sull’elemento umano. Tappi descrive il disagio anche fisico degli addetti all’assemblaggio finale della 600, costretti a lavorare con le braccia protese verso l’alto in una catena di montaggio sopraelevata, struttura teoricamente innovativa che nella pratica invece di agevolare la loro mansione la rende ancora più faticosa. Lo sforzo costante di razionalizzare la produzione e di saturare gli impianti sfocia in un apparente paradosso: nove decimi dell’organico Seat è costituito da manodopera non qualificata, di provenienza prevalentemente rurale. Anche la Spagna conosce il fenomeno dell’immigrazione interna: al posto dei pugliesi, dei siciliani e dei calabresi che emigrano verso il Piemonte ci sono andalusi e castigliani che affluiscono verso la Catalogna. Come i quartieri di Mirafiori e delle Vallette a Torino, anche a Barcellona sorge la ciudad Seat, con tanto di spaccio Ini sovvenzionato dall’azienda, in modo da recuperare parte della retribuzione devoluta agli operai trasformandoli subito in consumatori.

 

Entra in scena il sindacato, la Fiat batte in ritirata

Il 18 ottobre 1971 è una tappa fondamentale nella cronologia della Seat. Proprio nel momento in cui gli ambiziosi piani di espansione produttiva del suo management toccano il culmine (raddoppio dell’organico e incremento quasi corrispondente della produzione di autoveicoli: dalle 160mila unità del 1967 alle 280mila del 1970, quasi tutte vendute in Spagna), una concentrazione operaia sempre più compulsiva e fuori controllo rischia di provocare la congestione della fabbrica e il collasso delle infrastrutture. Il disagio delle maestranze, costrette a turni massacranti senza la contropartita di un adeguato incremento dei salari, prende a incanalarsi verso forme di protesta organizzata. Non a caso, nel decennio 1966-1975, quasi 30mila operai perdono il posto di lavoro in seguito a rappresaglie antisindacali, mentre il riconoscimento del diritto di riunione strappato alla legislazione di regime nella primavera del 1971 resta di fatto lettera morta. In Catalogna nascono le prime comisiones obreras (Ccoo), ma, nonostante la depenalizzazione del solo sciopero economico decretata nel 1965, i tribunali statali rendono la vita impossibile all’ancora implume sindacalismo catalano. Eppure, quel 18 ottobre migliaia di operai occupano la fabbrica per protestare contro il licenziamento di alcuni delegati sindacali, e il brutale intervento della polizia provoca la morte di uno di loro. Questo primo spargimento di sangue segna l’inizio del declino per il sodalizio Fiat-Seat: crollano i profitti, lo shock petrolifero del 1973 provoca una fortissima contrazione della domanda interna, il costo delle autovetture triplica nel giro di pochi anni. L’agonia del Caudillo trova finalmente il suo epilogo nel novembre del 1975, e questa svolta epocale, sancisce anche il graduale sganciamento della Fiat dalla Spagna. L’ultimo colpo di coda dei nostalgici del regime, il fallito golpe del colonnello Tejero nel febbraio 1981, dimostra irreversibilmente che le lancette della storia non possono essere riportate indietro: pochi mesi prima si era spento in tarda età l’ex generale franchista Echagüe, primo presidente della Seat, ed era entrato a far parte del Cda il sindacalista Herranz, che negli anni Settanta aveva patito il carcere per aver organizzato le prime riunioni clandestine in fabbrica. Questo passaggio di consegne fortemente emblematico coincide con la fine dell’avventura imprenditoriale italiana in Spagna. Approdata in Catalogna sulla punta delle baionette franchiste, la Fiat fa i bagagli proprio nel momento in cui la giovane democrazia spagnola inizia faticosamente a consolidarsi: in quello stesso anno l’Ini rileva l’intero pacchetto azionario detenuto dalla casa automobilistica italiana nella Seat. Più che una ritirata, assomiglia a una vera e propria fuga: tenendo sempre presente che fu proprio il Ventennio fascista a dare una spinta decisiva al ruolo egemonico della Fiat nel panorama industriale italiano, pare proprio che, a conti fatti, per l’azienda torinese sia risultato preferibile nuotare nelle acque torbide e stagnanti di una dittatura trentennale piuttosto che avventurarsi nel mare aperto e turbolento di una rinata democrazia.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 17, gennaio 2009)

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