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A. XVIII, n. 198, marzo 2024
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Dibattiti ed eventi (a cura di Natalia Bloise)

La Critica e la Letteratura in crisi alla prova dei fatti
di Marco Gatto
Un intervento a commento di un dibattito che ha animato il web e le pagine
di alcune riviste culturali: è possibile, ancora oggi, un realismo letterario?


Il n. 576 di Specchio, allegato del quotidiano La Stampa del 25 ottobre scorso, riporta in copertina l’annuncio di uno “speciale” su «come leggono la realtà i nuovi scrittori italiani». Insieme a un editoriale-ouverture a firma di Andrea Cortellessa, alcuni scrittori e critici si interrogano sul presunto ritorno al realismo della nostra letteratura e sulle modalità attraverso cui rappresentare oggi quel che ci circonda. Per come si configura, l’inchiesta – che inchiesta poi non è, non emergendo un panorama contraddittorio di voci e opinioni e, ancor più gravemente, risultando assente una qualsivoglia idea di letteratura – è, in toni espliciti, a leggere Cortellessa (p. 138), una risposta al questionario che la rivista Allegoria (n. 57) ha proposto di recente a una serie di scrittori italiani, i quali si mostrano, a giudicare dalle loro opinioni, poco predisposti all’idea, portata avanti dalla redazione guidata da Romano Luperini, di un ritorno alla realtà, ai fatti, al bisogno di raccontare la verità nuda e cruda. Lo scenario che si viene a creare presenta, allora, sul campo una dissociazione fra critica e letteratura dai risvolti variegati. Se Cortellessa insiste, a mio parere giustamente, sulla fallacia della formula “fine del postmoderno” evocando, insieme ad altri, lo spettro di Jean Baudrillard, ma non meglio specificando quali siano le ragioni di un simile rifiuto del realismo, categoria da lui definita inaccettabile, e di fatto sostenendo con favore gran parte della narrativa italiana contemporanea, senza i necessari distinguo che la critica dovrebbe proporre, dall’altra parte, sulla base di una critica serrata alla virtualità imposta dal postmoderno e dagli alfieri del pensiero debole, i critici di Allegoria, e in particolare Raffaele Donnarumma, si schierano decisamente contro la gran parte dei narratori italiani, salvandone solo una quota limitata.

Sta di fatto che sia gli scrittori proposti dall’inchiesta dello Specchio (Andrea Bajani, Tommaso Ottonieri, Laura Pugno e Antonio Scurati) sia quelli interrogati dalla redazione di Allegoria (in ordine di comparsa: Mauro Covacich, Marcello Fois, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Aldo Nove, Antonio Pascale, la già citata Pugno e Vitaliano Trevisan) dimostrano di rifiutare qualsiasi etichetta critica con pretese di oggettività e preferiscono esporre le ragioni della loro “propria” scrittura, calibrando così il discorso sulla irriducibile individualità della loro proposta narrativa. Consapevoli di vivere in un tempo che ha privato loro della necessaria esperienza, producono allo stesso modo narrazioni che quella perduta esperienza tendono a cancellare, non per spirito volontario di mimesis, ma per totale assenza di una qualche idea di realtà. Con l’esclusione forse di Genna, che pare più lucido di altri, le risposte fornite sono, per molti aspetti, problematiche, evasive, intimamente narcisistiche. Traspare da esse la vacuità di molta letteratura italiana contemporanea. Ed è con una nota di disappunto che si leggono le risposte di uno scrittore come Nove, che pure con le sue prime prove narrative aveva dimostrato di saper dare vita a una scrittura di protesta.

È così che su Specchio l’alfiere della “Letteratura dell’inesperienza”, vale a dire quell’Antonio Scurati la cui proposta “di genere” per la risoluzione della crisi di contatto con la realtà, esposta nel libretto il cui titolo si è citato, si riassumeva nell’adozione di un gelido, distaccato e acritico ritorno al romanzo storico, da buon teorico dello spettacolo e della televisione parla di un «realismo psicotico», che, dando per scontato il nostro essere senza esperienza, «si faccia carico della contraddizione del suo tempo». Non si comprende bene, però, quale debba essere la contraddizione da Scurati richiamata. Ritengo si possa riferire a quella particolare condizione dello scrittore italiano contemporaneo che, una volta estromesso dalla sua dimenticata funzione civile, cerca disperatamente, attraverso l’evocazione o la ripresa di un genere fortemente tradizionale come il romanzo storico, di coltivare, insieme a Voltaire, il proprio orto per legittimarsi, appunto, come detentore di una tradizione da rispolverare e far rivivere: una tradizione, beninteso, che può vivere, in questo caso, solo come feticcio, solo alla luce, cioè, dell’irrimediabile distacco acritico dalla realtà imperante, senza alcuna possibilità di essere, della contingenza, un mero riflesso che viene dal passato. Cosa c’è di più postmodernistico di tale contraddizione, che si rivela essere, all’interno dell’attività di Scurati stesso, una vera e propria aporia?

Tuttavia è Scurati che sfiora la questione cruciale – e di questo gli va dato atto (o, perlomeno, tenta una qualche concettualità oggettiva che esuli dal proprio protagonismo di scrittore, di cui non riescono invece a fare a meno, con un alto rischio di banalità, né Ottonieri né la Pugno). Il reale che sta tornando – ammesso che di ritorno si possa parlare – è qualcosa di nettamente diverso rispetto alla nozione di realtà cui siamo abituati; è semmai un effetto di quella “passione del reale” che Alain Badiou ha magistralmente commentato nel suo Il secolo: vale a dire la conseguenza di quell’incontro inaspettato con il Reale di cui parla Lacan, che squarcia il velo dell’Immaginario e ci sottopone a un’autentica crisi esistenziale, non sapendo identificarlo attraverso i nostri strumenti ermeneutici. La letteratura, allora, più che squarciare il velo delle apparenze, dovrebbe riuscir a dar conto di questa contraddizione, dovrebbe mostrare, attraverso i suoi arnesi, come scindere la realtà dal Reale, per comprendere la prima, giacché la sola possibile di una qualche formalizzazione. Non mi pare che i romanzi di Scurati e degli scrittori italiani assolvano egregiamente questo compito.

Di fronte a un mondo che ha riscoperto la parola “guerra”, in cui il conflitto mondiale sta diventando la parola d’ordine della globalizzazione, è certamente auspicabile leggere una letteratura in grado di dar conto della nostra condizione di uomini pienamente postmoderni. Se gli eventi hanno scioperato negli ultimi cinquant’anni, quel che ormai è l’Evento – ossia la data simbolica dell’11 settembre, il fatto estremo ed eccedente, il “Grande Altro” cui confrontarsi, ancora citando Baudrillard e mettendo nel calderone anche Slavoj Žižek – ha messo in atto la strategia che lo presupponeva: il totale affogamento della nostra coscienza nelle immagini. La profezia di Guy Debord sembra essersi avverata compiutamente: l’immagine è divenuta l’ultimo stadio della reificazione umana. Non si può dire che il postmodernismo sia finito se il nostro rapporto con l’Evento è stato prima di tutto culturale, immaginativo, fortemente simbolico, e continua a essere tale: il nostro modo di vedere quel che è accaduto ha surclassato completamente la sua essenza stessa. La letteratura, e nello specifico la letteratura di una nazione, la nostra, che è periferia lontana ma probabile futuro centro della decadenza occidentale, non ha saputo trarre da quella tragedia le conclusioni più semplici. Non ha saputo riflettere la solitudine dell’uomo occidentale e la proliferazione, ormai inarrestabile, di conflitti dettati dalla volontà di potenza individuale, rinchiudendosi ancor di più nell’idolatria dell’Io, nel salotto borghese della buona (ma doppiamente finta) letteratura. Da qui la biforcazione sterile della nostra produzione letteraria, richiamata da Daniele Giglioli (uno dei due critici, insieme a Gabriele Pedullà, che partecipa all’inchiesta guidata da Cortellessa): da una parte la narrativa di genere, con l’apogeo del noir o del romanzo storico, dall’altra una letteratura anti-finzionale, che pretende di parlare dell’Italia contemporanea sulla scorta di un’esistenza che osserva e giudica, o che mostra i suoi limiti (vedi pp. 148-149). Mi sembra quest’ultima la strada più produttiva, come dimostrano i romanzi di Walter Siti ed Eraldo Affinati, e, per certi aspetti, la straordinaria opera prima di Roberto Saviano. Vale a dire la riscoperta di una misura civile a partire dal crollo della propria identità di scrittore.

Ma quanti scrittori italiani riuscirebbero oggi ad abbandonare l’iper-individualismo delle loro scelte narrative? Dal momento in cui l’industria culturale (strano, peraltro, che nell’inchiesta si usi questo desueto termine adorniano, nel momento in cui si gioca a far piazza pulita delle etichette appartenenti alla modernità) detta legge sull’apparato che gestisce tali opere letterarie, allo scrittore non è data via d’uscita che quella di convivere con il sistema. Non, tuttavia, rilanciando la battaglia all’onnipervasività del mercato con un critica interna al sistema stesso, ma aiutando ancor di più il mercato ad alimentare la logica del consumo. L’ipertrofia del noir rivela questo: un genere cresce non solo perché la richiesta di suo consumo è alta, ma in ragione del fatto che l’essere genere si giocherà proprio sulla base della sua spendibilità sul mercato. È per questo motivo che la nostra letteratura è povera di contenuti utopici: chi riesce a guardare oltre il paradiso offerto dal mercato? Ci si può davvero accontentare dell’essere sintomo di una condizione decadente, come pure suggerisce Giglioli alla fine del suo commento?

Alla prova dei fatti – vale a dire alla ormai decretata fine della civiltà letteraria – la letteratura italiana non riesce a rispondere. Anche per colpa della critica, ormai ridotta a genere sì morto perché poco frequentato, ma priva di fondamenti teorici certi, perché, quando è vera critica, non riesce tuttavia ad andar oltre il mero giudizio sul testo. La letteratura ha bisogno – e il rapporto è ovviamente reversibile – di una critica che le dimostri di essere uno, e dunque non il solo, dei tanti modi di esprimere la nostra condizione reale e contingente, che limiti le dilatazioni soggettivistiche a cui per natura tende.

È l’eccesso di narcisismo, seppure involontario e in buona fede, che limita oggi sia scrittori che critici. Una profonda soggettività delle vedute che non si traduce in principio di responsabilità e in apertura alla verifica delle proprie ipotesi nell’arena del dibattito (inesistente o autoreferenziale, oggi), bensì nel rispecchiamento autocompiaciuto dell’appartenenza a un settore specifico della società intellettuale, da cui pure il discorso o lo stile di un critico certamente bravo come Cortellessa non è esente (mi riferisco allo spregiudicato quanto stucchevole riferimento al suicidio di David Foster Wallace, messo lì a sostituire l’invadente simbolicità delle Twin Towers che crollano, e dal sapore vagamente aristocratico e divistico, vetero-romantico, nel completo trionfo della soggettività che si nega alla vita). Dal quale eccesso, che il più delle volte è insicuro autismo, un’idea euristica di letteratura, seppure perdente, non riesce a emergere, nemmeno in quegli autori di valore che, purtroppo in numero sempre calante, mostrano la possibilità di dirsi scrittori. Questo il solo merito dell’inchiesta di Specchio, che nasce dal suo non essere un’inchiesta, ma un documento seriamente grave, eppure fortemente ambiguo, della nostra crisi di intellettuali occidentali.

 

Marco Gatto

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 15, novembre 2008)

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