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Monica Murano
Anno II, n° 15 - Novembre 2008
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Filosofia e religioni (a cura di Angela Potente) . Anno II, n° 15 - Novembre 2008

Zoom immagine Il documento base
della Lectio del papa
tenuta a Ratisbona

di Marilena Rodi
Benedetto XVI e un “rimpasto secolare”:
cristianesimo e islamismo. Rubbettino


«La Lectio academica di Benedetto XVI nella sua antica università di Ratisbona il 12 settembre del 2006 ha riportato in auge, malgré lui, un testo antico di notevole significato». Si apre così la Prefazione a cura di Rino Fisichella, rivisitazione dell’atavico testo e testimonianza secolare del file rouge che lega indissolubilmente la contesa tra islamismo e cristianesimo, redatto a quattro mani (ma ci verrebbe di osare “a otto mani”), Dialoghi con un Persiano, di Manuele II Paleologo, brillantemente e coraggiosamente edito da Rubbettino (Prefazione di Fisichella, Introduzione e Note a cura di Francesco Colafemmina, pp. 104, € 10,00).

Otto mani perché l’idea di pubblicare i brani integrali dei dialoghi intercorsi tra l’ultimo imperatore romano a Costantinopoli e «l’anonimo Persiano» è dello stesso curatore, che ha fedelmente tradotto dal greco i testi dei protagonisti.

Impresa non facile soprattutto per la ricostruzione storica, in cui Colafemmina non si è limitato a ripercorrere le interpretazioni di famosi maestri delle scuole di pensiero, ma ha reso identitari i ruoli svolti da Manuele II e il Persiano, un muteriz, un «uomo sapiente a cui tutti portavano rispetto». E per dirla con Fisichella: «La storia, come si sa, percorre spesso sentieri che gli stessi storici non possono determinare», citando alcuni passi dell’Introduzione: «Attraverso le contorte vie della storia, possiamo attingere al significato autentico di quest’opera soltanto dopo esserci stupiti di una dimensione spirituale tanto sublime quanto aliena dalla nostra tradizione».

 

L’insostenibile leggerezza dell’oratoria

La dialettica metodologica che gli interlocutori adottano, del rispettarsi reciprocamente senza interrompersi, farebbe invidia al nostro politically correct!

Il linguaggio è fermo e deciso nelle argomentazioni, mai sguaiato e privo di insulti, gli scambi dialettici sono carichi di silenzi importanti, durante i quali viene lasciato spazio all’ascolto e alla riflessione per sopraggiungere con adeguate risposte: non frutto dell’emotività, ma della meditazione prolungata.

Sia Manuele II che il Persiano sono consapevoli dell’autorevolezza del ruolo che rivestono e si lasciano coinvolgere nel dialogo, sebbene con caratteristiche differenti: con passione e convinzione l’imperatore, con distacco e quasi indifferenza il muteriz. Tanto più che agli islamici non è permesso discutere con i cristiani perché – pare – possiedano la capacità di persuasione, e il Persiano, amante della verità, non dimentica questa regola. Manuele II, dal canto suo, sottolinea la speranza innata del suo popolo e il mandato ad esso assegnato: quello di annunciare il Vangelo.

Nasce, con sublime lentezza e dialettica impareggiabile, un confronto che riconduce alla matrice delle sponde culturali e ne penetra le origini. L’origine appunto: Dio, «creatore verace di tutte le cose», ideologicamente condiviso da entrambi.

Manuele II, nobilmente, conduce il muteriz a riflettere sulla figura patriarcale di Abramo, il fondatore di Israele, riconosciuto anche dagli islamici. Abramo, uomo saggio ed “eletto”, fu scelto da Dio come capo del suo popolo; ripreso nel Corano, viene considerato l’antenato dell’etnia araba. Il passo verso la considerazione sulle Sacre Scritture è breve: chi tradusse i testi in greco ai tempi di Tolomeo se non un certo Eleazar, ispirato da Dio? Nemmeno gli ebrei ebbero da commentare.

E chi tradusse il Libro dei libri nella lingua comune degli arabi? Avendo scoperto Maometto, gli islamici adattarono i testi secondo il culto politeistico e degli idoli, prestando il fianco a dubbie interpretazioni ed entrando così in conflitto con l’ispirazione divina.

Intorno all’origine del mondo, alla creazione del cielo e della Terra, alla natura degli angeli, Manuele II interroga il muteriz sulla scelta di Dio di rendere immortali le “creature di luce”, che si precedono per ordine e grado di servizio e vicinanza a lui e che sono rimasti immobili dopo l’apostasia e la caduta di Satana. Il Persiano non crede alla perfezione e all’immortalità degli angeli: «È necessario di certo che l’intera natura, non del tutto destinata alla distruzione, avendo avuto un inizio, abbia anche la medesima fine: sicché, come in un circolo di nascita, morte e resurrezione, giunga allo stesso punto donde era partita, mutando e avvantaggiandosi della resurrezione, e divenga superiore ad ogni corruzione per il resto dell’eternità».

Da ciò, il passo verso la resurrezione, è vicino: l’imperatore romano tenta di spiegare al Persiano la vita dell’anima, immortale rispetto al corpo, che dopo la morta fisica è destinata alla sopravvivenza; il muteriz replica argomentando l’invecchiamento e la corruzione: molte cose muoiono marcendo «o, non potendo sempre opporre resistenza alla dissoluzione, scompaiono completamente».

In quanto alla legge di Mosè, Manuele II precisa: «Ciò che impedisce che la tua legge sia definita autorevolmente legge e che chi l’ha stabilita sia annoverato fra i legislatori sta proprio nel fatto che i contenuti principali di questa legge qui sono anche quelli più antichi della legislazione di Mosè»; antecedente alla legge di Maometto. Disquisendo della legge che Dio dette al suo popolo per mezzo di Mosè, l’imperatore puntualizza le virtù dei principi della legge successiva, la legge di Cristo, che con la sua ricchezza è riconosciuta superiore a qualsiasi cosa. Il Persiano, conservando la sua pacatezza dichiara: «è bella e buona la legge di Cristo e molto migliore della più antica, ma migliore di entrambe è la mia» e continua: «quella di Maometto, procedendo per così dire nel mezzo e fornendo dei precetti sopportabili e del tutto più miti […], vince su tutte le altre, dal momento che questa è la legge più equilibrata di tutte».

L’altalena delle emozioni non sfugge al lettore, catturato dalla maestria con la quale i protagonisti del “match mediatico” rimbalzano il ragionamento e le relative posizioni, scivolando quasi silenziosamente ognuno nella propria stanza ideologica. «La ragione, non la fede, è la vera protagonista dei Dialoghi», citando il Monologion del vescovo Anselmo.

 

La conoscenza al centro dell’evoluzione storica

Siamo alla vigilia del delicato periodo per i nuovi assetti europei.

Il 29 maggio del 1453 è una data scandita nella memoria storica: la caduta di Costantinopoli. Le armate di Maometto II conquistano l’ultimo segmento, patria di vestigia cristiane, che allaccia la nuova Turchia all’Impero romano.

È alla veglia di questo tormentato scenario di fiera espugnazione ottomana che Manuele II e il Persiano si incontrano per ragionare sulle Sacre Scritture. L’occasione è non solo concettualmente a favore dei conquistatori, ma l’ultimo imperatore cristiano non perde occasione per evocare l’esistenza della figura di Gesù di Nazareth, di Dio che entra nella storia e segna l’elemento di discontinuità, è Lui la Verità. Il muteriz non pare particolarmente colpito da questa rivelazione replicando che l’unica verità è data una volta per sempre nel corano. L’Islam, pur onorando Gesù, nega il suo vangelo come Parola di Dio offerta agli uomini per la salvezza dell’umanità e impedisce al suo regno di estendersi.

Teoricamente i Dialoghi con un Persiano di Manuele II si svolsero fra l’ottobre e il dicembre del 1391 ad Ankara, ma discordanti sono le ipotesi dei ricercatori in merito all’attendibilità dei dialoghi.

Non ci dilunghiamo su eventuali riflessioni che potrebbero scaturire dalla conoscenza dei fatti storici e dalle evoluzioni a venire, ma è quanto mai attuale esserne consapevoli: la storia ha ascritto tra le pagine ancora umide di inchiostro la Turchia in Europa. Allora, in quel 1453, i tempi erano segnati da particolarismi nazionali che vedevano Bisanzio ormai lontana dall’Impero e non più meritevole d’essere difesa.

Benedetto XVI ha ribadito più volte che «ragione e fede devono riprendere inevitabilmente il loro cammino comune». Ragion per cui rivedere il dialogo tra un imperatore cristiano e un muteriz mussulmano del XV secolo potrebbe emergere come efficace provocazione «per comprendere quanto sia decisiva la conoscenza corretta dei fenomeni».

Costantinopoli, mistica e profana, protesa fra due mondi, Oriente e Occidente, rappresentava il ponte di umanità unificata, tappa nevralgica per l’Annuncio di Cristo, ma la scissione tra potere temporale e spirituale della chiesa occidentale aveva svilito la mission cristiana in terra bizantina, sebbene in Oriente patriarca e imperatore, pur vivendo contrasti decisi, rappresentavano l’unità in Cristo.

È Santa Sofia, il simbolo religioso per eccellenza, l’obiettivo dei turchi: «Muratori non lavorate, non perdete la testa,/ lì non può starci una Moschea, i Turchi non possono pregare/ lì resterà Santa Sofia, il Grande Monastero […]».

I Dialoghi, quindi, raccontano il tentativo dell’imperatore cristiano che – profetizzando la fine del suo regno – cercava di indagare per cogliere le ragioni di quella religione che avrebbe insediato «gli spazi edificati dalla pietas cristiana dei romani, in un tempo non molto lontano».

 

Marilena Rodi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008)

 

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