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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 15 - Novembre 2008

Zoom immagine I caratteri fondamentali
della criminalità mafiosa

di Mariangela Monaco
In un volume di Salvatore Lupo, edito da Donzelli,
anche grazie a riflessioni su Andreotti e Sciascia


Attraverso acute riflessioni sulla nota posizione “eretica”, se così si può definire, di Leonardo Sciascia, sul processo a Giulio Andreotti e un conclusivo saggio sulle caratteristiche della “famiglia”, Salvatore Lupo, storico ed esperto conoscitore del fenomeno mafioso (come non citare la sua Storia  della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, edita da Donzelli), ci permette di individuare i tratti essenziali della mafia. Non è infatti un caso che il libro di cui ci occupiamo si intitoli proprio Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica (Donzelli, pp. 130, € 15,00).

Si parte proprio dall’analisi del pensiero dello scrittore siciliano, celebre autore de Il giorno della civetta (romanzo che sancisce la resa dello stato, rappresentata dal capitano dei carabinieri Bellodi, dinnanzi alla mafia, simboleggiata da don Mariano Arena), pensiero che va inserito in una più ampia idea: l’assenza di uno stato, che nella sua genuina conformazione è stato-potere, che è morto, perché altrimenti non si potrebbero spiegare, in particolare, la sua secolare convivenza con la mafia e la sua trentennale tolleranza verso la corruzione; «Insomma – scrive Lupo – per il nostro il senso dello stato rappresentava un prodotto esaurito una volte per tutte, non riproducibile». E allora dobbiamo, sosteneva Sciascia, affidarci allo stato-giustizia (ed in questa visione va inquadrata anche la famosa polemica sui “professionisti dell’antimafia” che lo vide coinvolto; per approfondire clicca qui).

Posizione importante in un momento storico in cui, con la terribile stagione degli Anni di piombo e del terrorismo, la violenza creava consenso, attraverso anche un supporto ideologico. E ciò ebbe influenza su Cosa nostra: «La mafia siciliana, caratterizzatasi lungo un secolo intero per il suo spirito moderato e per la deferenza sempre ostentata nei confronti delle classi dirigenti, passò a credere nell’efficacia di una violenza non solo praticata su scala straordinariamente ampia, ma anche ostentata». E allora l’assassinio di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre, di Giuseppe  Fava, l’ascesa dei corleonesi, che mirano a centralizzare, e vi riusciranno almeno fino all’arresto di Totò Riina e, forse, di Bernando Provenzano, il potere nella mani della Commissione. Ma l’avvento della violenza provoca uno shock all’interno della salda organizzazione mafiosa – la cui esistenza come tale emerse chiaramente, smentendo anche Sciascia che aveva avallato le tesi contrarie di Henner Hess, nel maxiprocesso degli anni Ottanta –, dove c’erano precise regole d’onore rispettate fin dall’inizio dei tempi. E qui s’inserisce anche il fenomeno del pentitismo. Proprio uno dei primi grandi pentiti, Tommaso Buscetta, scrive Lupo,

 

«lamentò un effetto perverso provocato dai processi di centralizzazione all’interno di Cosa nostra nei confronti delle finalità originarie della società mafiosa. La mafia, disse, nasce come alleanza tra uomini d’onore, propone regole certe intese a stabilizzare e regolare le relazioni tra i gruppi criminali o intorno a essi, vuole evitare i conflitti e considera la violenza l’extrema ratio. Di fronte alla violenza sistematica, quasi iperbolica praticata dai corleonesi, dovette prendere atto di un effetto perverso. I suoi figli e molti suoi parenti erano caduti in una tremenda resa dei conti; si pentì dunque vedendo che la mafia non assicurava l’ordine, bensì un eversivo disordine».

 

E se Sciascia vedeva proprio nelle rivelazioni dei mafiosi una «intrinseca ed essenziale contraddizione», sinonimo di inattendibilità («l’affermare la mafia come fatto unitario [...] e il darne al tempo stesso una rappresentazione di disordine»), Giovanni Falcone invece riteneva che la mafia avesse una sua propria ideologia, ed era su quell’elemento che bisognava intervenire, come fatto per “avere” i pentiti, la cui cooperazione fu ottenuta anche grazie ad «un’instancabile opera di persuasione che ha tenuto presenti le caratteristiche della mentalità mafiosa».

 

Processo Andreotti: tra mafia e politica, e dintorni

Il processo al leader democristiano diventa per Lupo occasione per riflettere su quella che potremmo definire un’area grigia, ossia i rapporti tra la criminalità mafiosa e gli esponenti politici. In effetti, tra le posizioni, verso il coinvolgimento di Andreotti, di innocentisti e colpevolisti, emergeva anche l’idea di Emanuele Macaluso, il quale ribadiva il carattere politicamente – più che penalmente – rilevante del rapporto tra Andreotti e Cosa nostra, «ritenendo in buona sostanza che il primo abbia solo tollerato l’esistenza della seconda».

In merito – a cominciare dal presunto incontro tra Andreotti e Riina – non si hanno testimonianze dirette dello stesso Riina, o di Badalamenti. C’è la testimonianza di Buscetta, che però per gran parte del periodo in questione si trovava negli Stati Uniti. Abbiamo più che altro, scrive Lupo, un flusso di informazioni, che va interpretato tenendo presente gli scopi e soprattutto la cultura di chi comunica. E allora, il capomafia spiegherà ai suoi gregari e collaboratori i fatti della politica e le proprie relazioni con i politici secondo i propri codici culturali:

 

«Si dirà che Carnevale vuole e dunque può sempre “aggiustare” processi per denaro e amicizia; che Lima vuole e dunque sa intervenire sulle questioni di politica giudiziaria, per fedeltà e gratitudine a chi gli procura i voti; che in mancanza sarà lo “zio” Giulio, per le medesime ragioni, a entrare in campo direttamente. In cambio, si potrà procurargli gli oggetti per cui “impazzisce”, ad esempio “un quadro particolare”. Dal lato opposto, Falcone è visto come uno che “vuole comandare”».

 

È importante sottolineare però che una reale volontà della mafia di condizionamento politico la si ha solo con la salita al vertice di Cosa nostra dei corleonesi e l’accentramento di potere a cui si è accennato prima. La mafia otto-novecentesca, infatti, nota lo studioso, era molto più prudente, e tesa a non travalicare la propria funzione: un’associazione, o un insieme di associazioni coordinate tra loro – che forniva servizi a dei poteri, quello politico e quello economico, che erano sentiti superiori a sé: «Gabellotto, galoppino elettorale, piccolo o medio affarista, sensale e guardiano, spia della polizia e suo delegato in alcuni casi per la difesa dell’ordine pubblico: ecco alcuni dei ruoli che consentivano al mafioso, nel corso del primo secolo di storia unitaria, di rimanere in contatto con questori e prefetti, grandi proprietari e grandi politici».

A partire dal 1979, invece, l’organizzazione mafiosa ha espresso chiaramente la propria, nuova, ambizione di voler trattare alla pari con gli altri poteri, attraverso gli strumenti dell’intimidazione e della violenza omicida, fino alla stagione delle bombe: non vuole solo bloccare o punire i suoi avversari, ma anche condizionare i comportamenti di coloro da cui si aspetta qualcosa di positivo. Rispetto al passato è quindi un cambiamento “rivoluzionario”, si potrebbe dire.

In questo contesto, davanti ad una chiara accusa, Andreotti rinuncia a difendersi, si riferisce alla mafia «con la stessa nonchalance di cui scrive dei papi», addirittura dà ad intendere di non sapere. Nel suo libro Cosa loro, il leader democristiano ad un certo punto scrive: «Avevo letto un giorno che era stato arrestato un pezzo grosso della mafia, tal Michele Greco, denominato “il Papa”». Ora, nota Lupo, tal Michele Greco è il capo della Commissione negli anni dell’escalation terroristica e il responsabile di alcune delle cose più terribili successe in Italia in quegli anni: «E come se il senatore ritenesse che i Greco, Riina, Bontate, Lima, i Salvo, Sindona, i pentiti, i morti ammazzati dell’una e dell’altra parte, la mafia stessa non siano poi cose degne della sua attenzione».

Nel 1999 Andreotti viene assolto in prima istanza: la Corte ritiene che non è stata dimostrata la tesi secondo la quale la corrente politica comprendente l’imputato, Lima e i fratelli Salvo, rappresenti una “struttura di servizio” della mafia, anche se c’è una presa d’atto di relazioni esistenti tra Andreotti e personaggi che a loro volta hanno rapporti privilegiati con la mafia.

La Procura ricorre e nel 2003 i giudici di appello accertano la partecipazione di Andreotti all’associazione a delinquere per tutto il periodo precedente al 1980: l’imputato viene però assolto perché il reato è caduto in prescrizione. Tale sentenza viene confermata l’anno successivo dalla Cassazione:

 

«La Corte territoriale ha affermato che il sen. Andreotti aveva piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo e poi anche Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva, quindi, a sua volta coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi legislativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi; che aveva loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza ottenere, in definitiva, che le stesse indicazioni venissero seguite; che aveva conquistando la loro fiducia tanto da discutere insieme anche di fatti gravissimi [...] nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità».

 

Una delle cose più scandalose, nota Lupo, è che davanti a ciò i sostenitori di Andreotti si sono prodotti in incomprensibili manifestazioni di giubilo, perché il senatore era stato assolto. Senza però precisare che era stato assolto soltanto per l’intervenuta prescrizione del reato.

 

Luigi Grisolia

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008)

Collaboratori di redazione:
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